Insomma, quel capello bianco

Fate mai caso ai nei sul vostro corpo?
A meno che non sia richiesto da una visita in particolare, o qualche strana macchia che appare dove prima non c’era, i nei che stanno lì pressoché da sempre, che fanno parte della nostra figura, non attirano l’attenzione e, al contrario, ci caratterizzano.

Il mio primo capello bianco invece, no. L’ho notato eccome, spuntato non so bene da dove, solo et pensoso, in cima al cuoio capelluto, che verte a destra e si spana come una vite che ha girato e rigirato su se stessa disallineandosi poco per volta. Bianco, inequivocabilmente, tra le centinaia di sfumature che raffreddano il mio colore biondo cenere. Nel bagno dell’ufficio, qualche settimana fa, complice la luce forte, l’ho guardato per bene, spostando le ciocche. Poi, ho chiesto conferma a qualche collega se fosse proprio bianco o se avessi visto male. M’ha fatto effetto. Non è un problema, ma lì per ì l’ho vissuta male. Poco dopo, l’ho scordato. E poi, ho compiuto gli anni. 32, per la precisione. Non 30, che uno svolta e celebra, non 31 che uno si è appena ambientato in città e sboccia una sera in un locale. 32, arrivati piano, cadenzati dalle settimane di questa primavera guasta. Mi hanno suggerito “Celebra!” – e ho abbozzato una festa che per pigrizia ho completato solo a metà.

Almeno, così credevo, fino a quando non sono rimasta sul divano di casa con alcuni amici che si erano intrattenuti ancora un po’ e – come spesso accade – ho solo realizzato che le cose che preferisco non sono mai veramente articolate o complesse. Scelgo solo strade tortuose per realizzarle. Stiamo insieme, mangiamo qualcosa di buono che preparo io, beviamo quello che piace a tutti e mette allegria, stiamo all’aperto. Se ti va, proponi un gioco, se vuoi parlare con qualcuno in particolare, cercalo. Ringrazia, se hai dubbi chiedi, se hai un’idea, proponila. E mi gratifica, in questi casi, l’accoglimento.

Alle 13.30 pioveva. Il tavolo del giardino era già bagnato dall’acqua, eccetto la parte che avevo ricoperto con un telo di plastica. Man mano che gli amici e i colleghi arrivavano, suonavano il citofono, e salivano dentro casa, riorganizzata in extremis per effettuare il pranzo al coperto. Alle 15 il cielo era di nuovo aperto, ma non ci avevamo fatto caso, finché non ho invitato tutti a scendere, e infine, a portar via le cose da gettare ci abbiamo pensato tutti. Semplice, bello. Neanche troppo sporcato dall’immancabile ansia del giorno: ero convinta che se non avessi occupato per tempo il tavolo che preferivo del giardino, i soliti condomini che ogni giorno trascorrono delle ore in cortile, l’avrebbero monopolizzato. E non avevo voglia di contraddire qualche vecchietto rincuorato dalle proprie abitudini. Quel che è certo, è che oggi, li abbiamo impegnati tantissimo: “Chi sono? Chi di loro abita qui? Avranno lasciato pulito?”.

Non ho contezza, al contrario, delle tematiche che potrebbero coinvolgerli tra loro, se si reputano amici, o se si giudicano, se si fanno i conti in tasca o si stimano. Gli ho sorriso come avrei sorriso ai ragazzetti che giocavano a palla più in là, con l’approccio identico sempre. Gli ho sorriso perché – loro non lo sanno – ma stavo realizzando un mio desiderio. Stavo bene e sentivo che tutto era in ordine – eccetto la maniglia della mia stanza, ma questa è un’altra storia. Chissà come stanno loro, con tutti i capelli bianchi sulla testa. Quanti desideri avranno espresso sulle candele che hanno soffiato? Di che parlano i loro sogni? Sognano ancora?

Ho scoperto tardi che desiderare è una pratica umana sana e importante. Non mi ricordo nemmeno cosa sono stati i miei compleanni prima che iniziassi io a scegliere per me. Hanno iniziato dei buoni amici, prima ancora che da sola, a certificare con i loro gesti che andava celebrato ciò che ero, e che si poteva protendere a ciò che desideravo essere senza giudizio o paura. Ricordo quel biglietto di un concerto, il completo intimo del 2018 che conservo ancora, orecchini in argento, quadri, anelli, lampade e viaggi.

Perciò, grazie per i bei regali pensati, non dovevate. Una delle cose che preferisco provare nella mia vita è essere vista, quale che sia l’ambito, l’interlocutore, la circostanza, se mi riconosco, possiamo avere una qualche relazione. Ed è una sensazione davvero, davvero commovente. Questo vale per ciascuno dei gesti che ho ricevuto per il mio compleanno, incluse le chiamate tardive, che bello è, volersi dire bene a tutti i costi. Grazie, ancora! Ci tengo, in particolare, che questo grazie vi restituisca anche qualcosa. Qualche settimana fa, al concerto di Vasco Brondi, tra una canzone e l’altra, lui si è preso un paio di minuti per proclamare questa poesia che mi ha colpita, almeno per due ragioni: per quello che evoca e perché ha scelto di proclamarla lì, in quel modo, mettendosi ancora più a nudo, più di quanto un cantautore faccia già portando sul palco le sue canzoni. Credo che poche altre cose mettano a nudo l’anima come le parole. Ci rivelano, ci raccontano, le parole che scegliamo siamo noi stessi, nelle nostre molteplici versioni. Avrei dovuto proclamarla oggi, forse, sotto la pioggia magari, sicuro, voglio condividerla:

Ti offro strade difficili, tramonti disperati,
la luna di squallide periferie.
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.

Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto,
avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.

Ti offro qualsiasi intuizione sia
nei miei libri, qualsiasi virilità o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.

Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato, in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
nè coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.

Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te.
Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta. – Borges

Lampade da terra

lampade da terra

Sono entrati molti oggetti in questa casa, da quando ci ho portato dentro le cose della mia vita. Nel pavimento della camera da letto c’è ancora un angolo con un paio di scatole che non ho svuotato. Contengono cianfrusaglie accumulate in 18 mesi a Roma e roba nuova per sostituire quelle che si consumano, come le spugne da doccia – che ahimè, uso ancora – non avendo trovato una valida alternativa.

E prima di altri, quando non sapevo ancora bene come avrei disposto certi mobili in soggiorno, è entrata una lampada da terra, con doppio lume, uno fisso verso l’alto, e l’altro orientabile in più direzioni, più forte e intenso, adatto alla lettura o alle foto quando tento di sembrare pensierosa sui miei social. Atemporali, eterne, senza l’esigenza di seguire correnti architettoniche. Oggetti di Design che conservano un fascino costante. Color argento, minimal, non ho avuto grandi dubbi a sceglierla, mi serviva.

Mi tiene compagnia ogni sera da quasi cinque mesi ormai, mentre ceno, mentre sbrigo la burocrazia al pc, mentre scrollo Tik Tok, mentre leggo il libro mantra di questo ultimo periodo fitto ma tedioso. Se la spengo, è ora di andare a letto. Se la accendo, è arrivato il momento della giornata in cui mi riconnetto a me stessa, allo spazio che ho scelto per me, ai pensieri scroscianti come ruscelli nei boschi del centro Italia. E anche quando fa giorno, quella lampada rimane al suo posto, a presidiare l’angolo preferito di casa, il divano un po’ letto, un po’ scrivania, un po’ tavolo e un po’ ripiano, a volte, attaccapanni e persino poltronissima, quella sera che casa era piena di colleghi.

Essenziale. Come nel gioco, le regole. Fa luce quanto basta e quando serve – per tutto questo primo inverno, che per me doveva essere un inizio, e invece si è rivelato solo un prolungamento faticoso. Me ne sono accorta qualche giorno fa, nel pomeriggio di un mercoledì qualunque, mentre camminavo lungo Via Alessandro di Torlonia, in direzione Piazza Bologna, per raggiungere lo studio del mio medico di base, che avevo scelto per comodità, ai tempi, sotto casa. Così, ci sono tornata dopo un bel po’ in quel pezzo di città che mi ha reso le cose facili all’inizio, così viva e centrale, piena di tutti quei servizi utili, come l’estetista, il supermercato, il bar, l’edicola, la farmacia, e la metro, nel raggio di 200 metri. Le avevo provate tutte, le pizze a taglio di zona. E avevo smesso di usare il navigatore, da quelle parti. Maps è la misura del conosciuto, e dove non ti serve il navigatore a Roma, sei a casa. Vale anche per chi a Roma è cresciuto!

Mi è servito, come la mia lampada, a vedere chiaro che cosa era successo nel frattempo. Quelle sono state anche le strade e le case da cui allontanarmi il prima possibile, perché non aderivano più alle mie esigenze, evolute in poco tempo. Abitazioni vecchie e fatiscenti, appartamenti condivisi, regole non scelte e persone inabitabili. Così ho scelto un altro CAP, ben diverso, nel quadrante opposto, dove riscrivere un pezzo di storia per me. Perciò, ho caricato tutto sul furgone di Giammarco, sono salita a bordo anche io e abbiamo imboccato la tangenziale in direzione ovest. L’ho licenziato con 50 euro e una stretta di mano, perché avevo fretta di chiudere la porta.

Tuttavia, non è bastato a risolvere. Il cambiamento è un processo. Ha un inizio cieco e inconsapevole, prende campo da qualche parte e ti muove – poco a poco – dal punto in cui eri verso quello che non conosci ancora. Mi fanno notare alcuni amici, che il mio dire spesso ha pretesa di universalità. Forse un po’ hanno ragione. Non è presunzione, è quel dannato esercizio costante ad ascoltare, osservare, sentire le viscere, usare l’intuito e tenere sempre alte le difese. Se è come dico, allora, non c’è nulla da rimettere in discussione. Ma questo non mi salva dalle trappole. Non lo ha fatto quando i 16 metri quadrati di una stanza mi sembravano la scelta migliore per me, e invece sono diventati una prigione. Non lo ha fatto quando mi sono fidata di una, due, forse tre nuove conoscenze che irrompevano nella mia vita con forza, battendo i pugni per avere la mia attenzione. E poi, mi hanno scartata.

Com’è naturale che accada, quando si incrociano storie e caratteri. Il fascino dell’altro risiede proprio nel suo potenziale iniziale: rivelarsi in qualsiasi modo. Chiunque esso sia, infine, appare. Quale impatto avrà avuto nel frattempo sulla tua vita?
Irriverenti, sarcastici, dolci. Ma senza coraggio.
Pragmatici, brillanti e forti. Ma senza altruismo.
In ciascuno di questi aspetti, e in ogni momento, c’ero anche io. Non faccio mai eccezione. Più volte di quanto crediamo, l’altro siamo noi. E vestirne i panni è scomodo.
Siamo lampade da terra.

La isla bonita

C’è un’autostrada che percorre in circolo l’intera isola, come se fosse il grande raccordo anulare, a Gran Canaria. E ci sono centinaia di auto noleggiate da chi atterra all’aereoporto da mezza Europa, che risalgono la GP1 verso Nord, in direzione Las Palmas, la capitale, o verso Sud, nelle terre desertiche della rinomata Maspalomas. Ai lati si alternano zone commerciali e rurali, qualche multinazionale e molte piccole imprese del posto, forse nate dall’intuito di chi tra una fornitura e un servizio, ha scelto 27 gradi tutto l’anno per vivere.

Non lo so, a dire il vero, se la temperatura è davvero così stabile. Una barista cubana, cresciuta in Italia, e trasferita da otto anni nella più grande delle isole Canarie, ci ha raccontato che da giugno a inizio settembre i gradi diventano 40°-45°, e nei giorni di scirocco la percezione del calore è intollerabile e i termometri segnano 50°. Lo ha confermato anche la donna che gestisce un ristoro a San Aguimés, veneta, sposata con un canario da 23 anni. Si è stufata – dice – durante la sua pausa pranzo, mentre mangia paella, il piatto che propongono la domenica, ma la madre, che adesso è in pensione, ha scelto di trascorrerla lì, tra la sabbia e il fragore dell’oceano. A pochi passi, la spiaggia di San Aguilà ci aveva regalato frescura all’ombra delle foglie di palma e un’acqua fresca e pulita, nonostante le onde irruenti. Era l’ultimo di sette giorni in giro per l’isola, insieme con la mia amica Martina, fedele compagna di viaggio, esperta autista su strade che hanno almeno tre corsie, sensibile e amorevole gattara, e giudice spietata delle papas arrugadas.

Era il giorno della “saudage”, ma non mi sentivo triste per la fine del viaggio, o per il ritorno alle mie attività. Sentivo di avere dato, di avere preso, e che ogni chilometro dalle gomme della nostra Peugeot 208 ibrida fosse stato consumato con giustezza. E anche freni, frizioni e acceleratori. Abbiamo portato noi stesse in un’avventura continua e costante, potrei dire. Mi piacciono le avventure, molto più di quanto voglia ammettere, come quella durante la tratta di ritorno dal faro di Punta de Sardinas. Il navigatore ci aveva condotte sullo sterrato ma la strada a un certo punto finiva, lasciando spazio a fossi e fango. Nessuna segnaletica e nessun orizzonte – che è il colmo su un’isola – solo casupole di cemento e lo strapiombo sul mare. E’ stato buffo in quel momento ridurci al silenzio, calare il volume di Los40, e ricominciare dal nostro intuito – che uno in vacanza, delega un po’ tutto alla leggerezza, si solleva dall’obbligo di sapere sempre che cosa fare, finché non deve togliersi da un guaio.

Siamo tornate incolumi al nostro appartamento di Agaete, squisito borgo a nord dell’isola, il porto prescelto per salpare verso Tenerife e la località delle più suggestive piscinas naturales. Sono rimasta colpita, a tratti stordita, dalle possibili sfaccettature e incastri della natura: come una barriera posta all’oceano possa diventare un tranquillo bagno e come una lastra di marmo possa essere incastonata tra le rocce per diventare un balcone appeso sul vuoto, a destra e sinistra la montagna, sotto la scogliera, e tutto intorno vento, vento, vento. Abbiamo giocato, a Gran Canaria. Eravamo felici di essere lì, così ci siamo prestate alle pose più finte, pur di incastrarci anche noi su quelle rocce.

Potrei dire ancora che Las Palmas non ha nulla da invidiare alle nostre città costiere, che a Galdar è stato bello perdersi un pomeriggio, dopo aver trascorso diverse ore seminudi sulla spiaggia, noi, quella coppia anziana che faceva su e giù camminando, alcuni ragazzi con il loro cane e una donna magra e muscolosa, con le cuffie a filo e la visiera. Potrei dire anche dell’uomo da cui ho comprato alcuni souvenir a Mogàn, io intenta a prelevare per l’ennesima volta il portafoglio dalla tasca più recondita del mio zaino e lui a porgermi lusinghe che non percepivo, per via dello spagnolo. Martina allora, ha richiamato la mia attenzione, spiegandomi che l’uomo stava chiedendomi il numero. Ho voltato allora il mio sguardo su di lui, sorridente e speranzoso, e rigida come una colonna romana, tra tutte le opzioni di risposta, ho scelto di stringergli la mano. Il mio modo singolare per dire <<grazie, no, non dispiacerti però, non ritengo ammissibile per la mia persona emotivamente instabile una tale lusinga>> si è completamente frantumato il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, quando sono entrata in un market sperduto su un pezzo dimenticato di litorale. Varcato il primo corridoio alla ricerca di un panino da imbottire, mi imbatto – pur nel vuoto silenzioso di quella bottega buia – in un ragazzo superlativamente bello. Era ingessato dietro il banco dei salumi, alto, dalle spalle larghe e due braccia importanti, così classica la sua bellezza da sembrarmi impossibile che fosse lì, nel market di San Aguilà, ad affettare mortadella spagnola di domenica mattina.

Avrei voluto dirglielo, “sei bello” e forse sono stata pure sul punto di farlo, salvo sentirmi impropria. E timida. E stupida. E tuttavia, piena. La isla bonita ha visto poi monoliti, burroni, centri commerciali d’intrattenimento, feste sulla spiaggia, musica spagnoleggiante, parcheggi a pagamento, bungalow, pessimi caffè, ottime tapas, tanta crema solare, una quasi insolazione, un nuovo cappello, modi nuovi di conoscere Martina, la mia ansia preventiva per il trasloco che sarebbe arrivato, foto, pose, coloriti della pelle, l’ultima paella, decine di distrazioni, granelli di sabbia e vista sulle dune. Un ritorno, un ricordo, un abbraccio. Momenti di incomprensione e la più bella sintonia con me stessa, al contempo. Andateci, alle Canarie.

Giocare, a quest’età

giocare

Pare che il caldo anomalo di questi primi giorni di giugno lascerà il posto a una forte tendenza temporalesca a breve. La goccia fredda sarà un toccasana per i miei parziali equilibri corporei, impegnati a non cedere allo svenimento di un’estate in città da trascorrere con un lavoro full-time. Se ci mettiamo che la città in questione è Roma, il quadro si complica.

Roma incontenibile

Vivo nella capitale da due mesi, un tempo abbastanza lungo per comprendere che Roma non si può contenere: le possibilità d’azione che offre sono tante da sembrare illimitate e così tante da rendere necessaria una scelta, costante, su come gestire il mio tempo. La linea urbana 168 per esempio, è l’unico modo per rientrare a casa da lavoro prendendo un solo mezzo, ma anche quella che richiede un’ora o più per compiere il tragitto, quando il tram e un passo svelto mi consentono di essere sotto il getto della doccia dopo 40 minuti. Lo stesso lasso di tempo al mattino è l’unico che riesco a dedicare alle notizie del giorno, della settimana, alle cose del mondo che sembrano essersi dissolte nel mio quotidiano, come un ghiacciolo dimenticato fuori dal congelatore.

Il tempo è un concetto estremamente relativo.

Ne sanno qualcosa i miei fianchi, la pancetta ormai inarrestabile, la buccia d’arancia sulle mie gambe che meritano di più, ma non sono prioritarie. Tantomeno, lo diventano il venerdì sera, quando mi legittimo a staccare l’interruttore e mi nascondo dai nauseanti input delle stories degli altri su Instagram. Cene fuori e spiagge. I più intraprendenti vanno ai concerti, da qualche settimana poi, matrimoni ovunque. Invidiabile. Ieri, per tenere fede a un appuntamento per bere qualcosa con un amico ho bisticciato tra me e me per un’ora, prima di costringermi a raggiungerlo, nonostante il sonno. Ho fatto bene però, perché rimanere connessi con il mondo è l’unico modo per conoscere, di riflesso, chi siamo. Un buon motivo per fare qualcosa è ascoltare quanta voglia abbiamo di farla. Sono andata a prendere qualcosa da bere con un amico perché mi andava e non ho raggiunto il centro in bici come avevo ipotizzato di fare perché non ne avevo voglia.

Come la guerra la primavera

I ponti possono essere trascorsi a macinare una serie TV senza che nessun capoluogo di provincia si offenda per la mia assenza. Al mare? Quando mi depilerò e mi sentirò pronta a non badare alle mie forme. In fondo, la guerra è finita solo pochi mesi fa e tutto intorno è ancora un campo di battaglia. I grandi cambiamenti infatti, sono simili alle battaglie: richiedono una enorme accelerazione e di affrontare i propri limiti, compiere molte scelte in poco tempo, restare lucido e valutare nell’arco di venti giorni in quale zona della città prendere casa, se condividerla, quanto spendere, quali vincoli, quali vantaggi, quali rischi.

Nuove storie

E dopo, solo dopo la firma sul contratto, passato lo straccio pure sui muri che nessuno puliva da anni, compiuta la trasferta all’Ikea per acquistare ciò che non sapevi essere essenziale, un conto prosciugato, 30 anni suonati, e l’imperversare della stagione delle allergie, apri gli occhi la mattina e sei ancora viva, non ti sei fermata neanche un secondo, neanche un pianterello, non ti sei voltata indietro, non sei scappata e puoi vedere ora i tuoi giorni prendere forma, le persone iniziano ad avere volti, alcuni ti piacciono, altri no. Non basta dare un nome alle strade, alcune le riconoscerai per quell’aiuola gigante, per le mura di Porta Pia, o per la strettoia prima di arrivare sulla Salaria, il supermercato cento metri prima di Piazzale Ungheria ti ricorda dove devi scendere. Sul tram c’è sempre più spazio rispetto al 360, alla fermata di Lega Lombarda c’è una famiglia di ispanici che si muove verso Villa Borghese. Parlano velocemente, i toni sono alti, sorridono tra di loro; a volte, “mamà” è in ritardo e quella che presumo sia la figlia urla dalla banchina qualcosa che somiglia a “corri”. E quella corre. Non hanno mai perso un bus.

Tetti

La vista privilegiata di un ottavo piano ha di buono che dei palazzi ti si mostrano soprattutto tetti e mansarde. Delle case degli altri invidio però l’arredo di chi è lì non di passaggio. I mobili accennati di un soggiorno, una cornice d’argento, il televisore sui programmi quiz prima di cena sono segni inconfondibili della vita di chi possiede una dimora, vi risiede stabilmente e in un futuro lontano o vicino che sia, lascerà quella casa a un erede. Invecchiano così i palazzi, con le storie di chi ci vive dentro. Con l’afa anomala di questo lungo ponte ho bramato un terrazzo chiuso a cinta da piante e fronde, un tavolo, delle poltrone da esterni, le luci tutte intorno come ho visto solo sui tetti di Roma. Pensiamo gli spazi perché possano essere condivisi e li condividiamo per non sentirci soli. Si va a vivere insieme per contenere le spese, ma anche per trovare almeno un volto quando si torna la sera. E chi va a vivere da solo, si assicura che ci sia un divano-letto da aprire all’occorrenza.

Viste

Io non ho ancora abbastanza spazio neanche per i contenitori della differenziata, perciò non faccio testo, ma a Roma neanche la differenziata fa testo. Che dolore! Nel suo essere incontenibile, soprattutto le infrazioni non fanno eccezione. Accanto ai cassonetti trovi i tavoli di un ristorante e decine di persone dormono sui cartoni nei pressi delle metropolitane. Le stazioni hanno un doppio volto sempre: sorgono hub di ultima generazione tutto intorno, pieni di finestre a vetri e sui marciapiedi formicolano decine di perdigiorno, mascalzoni o solo poveracci. Forse, la metafora della città eterna è vera anche per quello che non è monumentale, forse è soprattutto chi ci sta a credere eterne queste strade, queste mura, e con esse le sue contraddizioni. Ho ancora un approccio timido a tutto questo, come se non mi riguardasse, come se fossi ospite qui e non avessi invece scelto di starci. Ho creduto fosse meglio rimanere trasparenti per un po’, ora però, mi sembra di avere in mano le chiavi di una porta da aprire. Non devo chiedere il permesso: quel poco che ho preso, è mio, senza ombra di dubbio.

Possibilità

Mio il lavoro, la stanza, miei i collegamenti fino a Settebagni, se serve. Miei sono i sì e i no, giocare, trovarmi e ritrovarmi in pensieri che non avevo mai fatto finora: voglio una casa con un balcone terrazzo e mobili che non siano degli anni ’60, persone ragionevoli a cui sottoporre un’istanza, un dialogo aperto sulle opzioni possibili, tenendo conto della possibilità di incontrare chi voglia fotterti, alleati e solitudini, paranoici e inflessibili, ma anche complici e compagni di pranzi o merende. Serve tempo, ma anche una domenica a letto, saltare la lezione di inglese almeno una volta, cucinare le polpette al sugo e non cucinare per giorni. Serve assecondarsi, per conoscersi, un intuito di cui fidarsi e tradirsi, a volte. Tradire le mie convinzioni, dare spazio al dolore che prova chi non riesce a darsi come vorrebbe, ascoltarlo fino a quello che sembrerà un altro colpo di teatro, ma non sarà stato scritto da un getto creativo della mia penna, non succederà per caso: sarà stato seminato con fatica, come ogni guerra è destinata a concludersi con la rinascita.

Un nuovo indirizzo a Roma

l'indirizzo ce l'ho

Ieri al parco – mentre i pollini congestionavano le mie vie respiratorie – a pochi metri da me scrivente, una donna anziana seduta su una panchina, parlava. Non c’era alcuna altra presenza umana o animale a cui potessi presumere si rivolgesse, non c’era un telefono all’orecchio, né auricolari. Posso dire con ostinata certezza che parlasse sola, ma sarebbe solo la mia verità. Avrà avuto il suo interlocutore, reale o fittizio o entrambi. Ho deciso di dare per buona anche la sua verità, in fondo, cosa poteva esserci di tanto diverso da me che appuntavo pensieri confusi su un taccuino?

Fine di questo prologo.

In queste intense settimane di preparativi ed enormi cambiamenti, ho avuto pure la fortuna di trovare dei giorni per decomprimere, qui, in quella che è stata la mia casa negli ultimi tre anni e che adesso sto lasciando (vado a Roma), compiendo dei piccoli riti di addio. Alcuni necessari, altri assolutamente superflui. Quando condividi l’appartamento con altre persone e impari a sentire tuo quel luogo, spazzarlo, arieggiarlo, ripulirlo, aggiustarne gli inevitabili segni di uso, diventa naturale a prescindere dagli obblighi contrattuali. Ora, il tema degli affitti è controverso, da qualsiasi lato lo si guardi: che tu sia il proprietario di un immobile da cui decidi di trarre profitto, o l’inquilino che per definizione è transitorio e dunque hai esigenze specifiche ma vivi anche un’insopprimibile condanna al compromesso. Non si può avere tutto se si decide di andare in affitto, altrimenti compreresti. E questa è la prima cosa che sento di aver compreso.

Nella mia esperienza, tutto sommato, le cose sono andate bene, direi, nella norma. Quando cercavo una sistemazione a Parma, dopo dodici notti in B&b e quattro ospite da un’amica, rispondevo tanto agli annunci sui gruppi Facebook, quanto a quelli sui siti dedicati: funzionano. Questo è un secondo suggerimento. Allora non avevo particolari esigenze e accettai la prima soluzione che mi si presentò: era settembre, arrivavamo in molti in città per studiare e la società non aveva ancora conosciuto la pandemia. Pianificando il mio trasferimento per un nuovo affitto a Roma, le coordinate sono state ben diverse. Sono diversa io: la prima cosa che ho sentito di chiarire a me stessa allora, è stato il mio desiderio, poi l’ho abbinato alle mie possibilità, e infine, ne ho tratto un compromesso. Prendere molte piccole decisioni e tutte in fretta, allena il senso pratico ma aumenta anche il rischio di “pijare na sola” – per addentrarci nel clima capitale.

Perché mi segna così tanto questo tema affitti?

Non sono la prima, non sono la sola, non sarò l’ultima. Ma sono anche una grande egocentrica del cazzo, perciò allego di seguito alcune ponderate (e meno ponderate) cose che ho vissuto e compreso:

  1. L’affitto non c’entra assolutamente niente. Se vai in affitto, stai per apportare un qualche cambiamento significativo nella tua vita, fosse anche solo il bisogno di ripensare il tuo spazio quotidiano. E questo spaventa. Spostarsi implica una messa in discussione del vecchio che viene così riconsiderato alla luce di nuove esigenze, nuovi modi di essere, un nuovo te.
  2. Lo sgombero obbliga a riportare alla memoria cose che avevi accantonato, rivelandosi adesso soprattutto inutili, per quanto tenere o importanti siano state. Così i ricordi hanno smesso di avere un solido legame con il presente, fosse anche solo per il bisogno che sento di alleggerirmi. I ricordi spesso sono persone, adesso nel loro nudo significato: quando le esperienze volgono al termine, ne comprendi il senso più profondo. A non mutare è l’affetto, immateriale e per fortuna, tascabile. A un certo punto prevale la voglia di costruire nuovi ricordi con quelle persone, o lasciarle lì, nel cerchio più distante da te. E va bene.
  3. Una fottuta paura di quello che sarà è solo camuffata dalle tante cose da fare, ma c’è, è lì e ti corrode se non la lasci venire fuori. Dirsi spaventati e dare un nome a quella paura è faticoso, ti mette spalle al muro e fa da contrasto al tuo enorme e puro desiderio di vita che in fondo, a quel cambiamento ti ha portato. Ho voluto un nuovo lavoro, una vita altrove e a un livello più complesso, come complessa è una grande città. Ma mi sto cagando addosso, it’s true.
  4. I costi riflettono spesso un significato simbolico. E quando si va in affitto, i costi sono sempre alti. C’è una prima silurata di denaro che serve a garantirti e che tu garantisca, ci sono molteplici spese, non sempre contenibili. Non è facile dare valore a quello che stai acquisendo, essendo all’inizio di un’esperienza che porterà frutto – se tutto va bene – solo tra un po’. Non sono fatalista: non penso che tutto andrà bene perché è più comodo pensarlo rispetto al contrario. Penso che dipenda da me fino a un certo punto, entro il quale bisogna spendersi, dare, impegnarsi, mostrarsi e dare respiro al proprio ostinato percorso. I soldi vanno e vengono (ok, vanno soprattutto), ma sono fatti per modellare i passaggi di vita e corroborarti rispetto alle difficoltà. Sono solo la misura. Questo lo sento ancora vero nonostante il periodo critico economicamente che stiamo vivendo e di cui si iniziano a vedere gli effetti.

Dov’è l’Italia

Ci sarebbero poi tutte le questioni relative legate al fatto che la regolamentazione degli affitti non è univoca, non è scontata e non è, soprattutto, il riflesso della società che muta: i fuori sede restano imbrigliati nella frammentata burocrazia regionale, che pensa l’Italia a porzioni, forse più facile da gestire, ma anche scoordinata rispetto al mercato della formazione e del lavoro che invece è capitalizzato e per definizione, stretto nei confini: posso lavorare e studiare ovunque, ma non ho le stesse agevolazioni del mio territorio di residenza. Posso allora spostare la mia identità civica, ma richiede un tempo che non combacia con i tempi del precariato. Perché l’Italia non è ancora una? Posso tentare di sfidare l’entropia che è connaturata a questa realtà, ma ci sarà sempre un inghippo burocratico a ricondurre al disordine.

Una prospettiva da correggere

Ho un’araba fenice tatuata sulla schiena. Ho scelto di farla quando avevo incontrato e sperimento il desiderio, la morte, la rinascita. Cambiamo quando mandiamo a morire ciò che non sentiamo più vero e determinante; nasciamo quando relativizziamo le nostre certezze e abbandoniamo ogni possibile definizione, lasciando che ciò che vogliamo prenda parola. Non siamo soli in questo meccanismo vitale: siamo limitati a noi stessi, ma lasciamo che la porosità dei nostri confini ci avvicini all’altro. Si chiamano relazioni e magari non sono una esperta sul tema o lo sono a modo mio, ma anche a riguardo qualcosa vado capendo ultimamente. Ho vagabondato di recente, succede quando passi da una vecchia casa a una nuova. Sono stata ospitata e accolta, ho potuto chiamare casa la casa di altri. Questo mi commuove e al contempo, mi rende grata. C’è una bellezza unica nell’amicizia, a volte mi sfugge, poi d’un tratto, ritorna nitida: è lo spazio in cui prendersi e lasciarsi senza esaurirsi, stimolarsi e competere, rendere possibile e godibile il confronto, giocare alla pari, fidarsi dello sguardo dell’altro, quando il nostro si mette nella prospettiva peggiore. Ci si arrabbia e ci si inganna. Senza cattiveria, né egoismi: solo inciampi. Prospettive da correggere.

Farzad, Isa e noi: il senso della ricorrenza

ricorrenza

Questo è un messaggio di Farzad, un ricercatore iraniano da poco arrivato a Parma. Stamattina l’ho accolto nel mio appartamento perché è intenzionato a prendere una stanza. Quando Farzad è entrato ha iniziato a guardarsi intorno, attraversando con vivacità il corridoio e chiedendo di vedere ogni vano, la cucina, il bagno. Parlavamo in inglese e quando qualcosa non era chiaro, mi chiedeva di ripeterla vicino al suo traduttore.

Farzad

Con fare meticoloso, continuava a verificare il funzionamento della rubinetteria, degli stipiti, degli infissi. Osservando qualcosa di storto, commentava “no good”, e recependo qualcosa di buono diceva “good news”. Farzad mi ha chiesto se la proprietaria avesse problemi con gli studenti internazionali, insieme alle informazioni sul riscaldamento e sul lato della casa in cui il sole tramonta. La discriminazione insomma, è un fattore che mettono in conto, come i costi delle utenze.

Gli altri siamo noi


Abbiamo chiacchierato dei nostri progetti, mestieri e provenienze. Quando ha saputo che sono siciliana, ha detto che poteva così spiegarsi la mia esuberanza. Non mi sembrava il caso di approfondire i motivi di tanto vitalismo, così mi sono limitata a rispondere che sì, era proprio così, e che mi dispiaceva non sarebbe stato il mio nuovo coinquilino, dal momento che io come Farzad, ho scelto di andare. Il suo fare pragmatico e la certezza che gli ingegneri sono pignoli anche dall’altro lato del mondo, nonché la sua niente affatto attuale pettinatura “a spazzola”, erano elementi già sufficienti a lasciare il segno di un buon incontro, di un incontro intenso, come quelli che – di grazia – ho avuto in queste settimane.

Anche oggi


Accade tutte le volte che esco dai miei nascondigli e rifugi e mi apro alle possibilità della vita, complice un mondo in fermento che era intenzionato a risollevarsi dopo due anni di letargia. Sta succedendo, nonostante la morte ha bussato di nuovo nelle nostre giornate, portandosi appresso distruzione, dolore e miseria. Non so quale storia ha portato Fazhad qui, sicuramente una storia occidentale, come la guerra. Occidentale, come la ricorrenza odierna a cui non avevo ancora dedicato tempo e riflessione. Fazhad è stato l’unico a pormi un augurio denso di significato, “come giornalista, questo lavoro e questo giorno devono avere un significato speciale per te”.

Non c’è più un Occidente


Lo ha: è la nuova consapevolezza che “occidentale” ha smesso di significare qualcosa di veramente distintivo per me che sono donna, che sono immersa nelle contraddizioni sociali di questo tempo, che ho impiegato anni a recuperare un gap sociale di cui non avevo capito essere vittima (come ragazza meridionale e come persona cresciuta in un preciso contesto sociale provinciale, statico e giudicante), e che vittima non sono. Al netto di quelle contraddizioni tutte occidentali, oggi sono una privilegiata. Perché posso muovermi nel mondo, perché posso disubbidire senza rischiare l’arresto, perché posso dire no alle cose storte che intercetto nel mio cammino.

Isa


A pranzo, ho incontrato Isabella. Ha 20 anni e viene da Boston, le faccio da tutor per il suo periodo di soggiorno studio a Parma. Insieme, individuiamo delle storie che vale la pena raccontare, selezioniamo le fonti, contattiamo chi può darci qualche risposta, elementi, informazioni e – vedendoci sempre a orario di pranzo – consumiamo insieme il nostro pasto. Isa deve esercitare il suo italiano, io ne approfitto per il mio inglese. Oggi mi ha chiesto se in Italia effettivamente si regalano le mimose alle donne, era sua intenzione infatti, portarne qualcuna alla “signora” – come la chiama – che la ospita in questo periodo. Le ho detto che era una splendida idea, poi le ho spiegato che l’8 marzo è stato a lungo considerato un giorno di festa, alterando un senso più profondo e importante della ricorrenza, che ha a che fare invece con la possibilità di riflettere sul tema della parità di genere.

Riconoscersi

Le ho chiesto quindi cosa succede oggi in America. “Giorno di protesta”. In America vanno in piazza, non regalano mimose. Anche in Italia, da qualche tempo, c’è molta più critica a riguardo: meno pizze tra donne e più pensieri nitidi, ciascuno secondo il proprio ordine di cose. Poi, siamo andate dalla fioraia e Isa ha comprato le mimose, perché voleva essere riconoscente alla donna che la sta accudendo. Così, credo che nel riconoscere qualcuno, qualcosa, per quello che è, identificarlo nella sua fattezza essenziale, magari in rapporto a noi, sia un meraviglioso atto rivoluzionario. Distinguere e riconoscere, non discriminare.

Pronostico della finale di Sanremo

Sanremo

Come finirà Sanremo lo sapremo stanotte verso l’una e mezza. Qua si divaga su quello che è stato e perciò sarà.

Insomma, stasera il televoto incoronerà Mahmood e Blanco, senza molte sorprese, Morandi a furor di popolo salirà sul podio per secondo ed Elisa si classificherà terza, invero senza fatica né assi nella manica (come lo è stato Jovanotti per Morandi). E questa sarà stata la gara, che poi finisce sempre per passare in secondo piano durante la settimana di Sanremo che non è solo un concorso canoro, ma uno show, con regole, imprevisti e un enorme peso istituzionale.

La saga di Amadeus a Sanremo

Aveva vacillato ultimamente, forzando la comicità dei suoi super ospiti (me lo ricordo quante polemiche su Crozza, Benigni e compagnia). La saga di Amadeus pareva essere destinata alla riproposizione maniacale della retorica dell’amicizia che ci aveva stufato fin da principio, due anni fa. Quest’anno se l’è scrollata di dosso quanto basta per restituirci una scaletta scorrevole, e gli abbiamo perdonato pure i 25 cantanti in gara – di alcuni avremmo fatto volentieri a meno. Ma c’è una insolita insistenza da parte del direttore artistico su questi concetti qua: la musica e l’amicizia. Quest’anno sono sembrati meno stucchevoli e sono diventati ogni giorno più credibili. 

Oltre la paura

L’ha detto Sabrina Ferilli oggi in conferenza stampa: ognuno porta sul palco quello che è. Sarà che di palco sentivano un po’ tutti la mancanza, sarà che i baci, gli abbracci, i duetti a un palmo dal naso ricordano immagini d’altri tempi, sarà che non c’era più una paura da esorcizzare e così, è rimasto solo l’accordo emotivo che ognuno ricerca su quel palco. Come se, sprovvisti di rabbia, ansie e – ultimamente anche di pudori – tutti, conduttore, co-conduttrici, cantanti e ospiti,  non hanno potuto fare altro che offrire uno bello spettacolo. 

Premio della critica a Truppi?

La leggerezza si è presa quasi tutto lo spazio, ci ha distratti dalla canzone di Giovanni Truppi, che torneremo ad ascoltare puntualmente domani, magari in cuffia, per capire perché “Tuo padre, mia madre, Lucia” ha meritato il Premio della Critica. Tuttavia, non sarebbe Sanremo senza qualche flop. La matrice, a volerci pensare, è la stessa: l’emozione. Dieci milioni di italiani assistono alla kermesse, twittano, commentano, elaborano esilaranti meme da puntellare nell’immaginario collettivo; ognuno sceglie il proprio aforismo, fa il tifo, televota (in Rai fa ancora con l’sms e si pagano 0,51 cent).

Sanremo: i flop

Perché…perché Sanremo è uno di quei momenti in cui le anime vibrano all’unisono, diventa un rito e si sedimenta come cultura. Non fa male, è innocuo, non ha a che fare con certe narrazioni tossiche che contaminano il cervello se cambi canale. Ciò non basta a renderlo educativo, altrimenti…altrimenti distingueremmo l’ironia da uno sberleffo e avremmo evitato di assistere alla derisione di Gianluca Grignani, un’artista in evidente difficoltà umana. Praticamente, il vero flop è stato il pubblico.

Messaggi universali

C’è da dire poi, che del buffet accettiamo tutti la varietà, ma gira che ti rigira prendiamo sempre il crudités, «perché non lo mangio mai». Francamente, delle polemiche del giorno dopo non ce ne frega niente: Sanremo ha i minuti contati e, in questa settimana, ognuno si prende quello che desidera. A me, per esempio, è piaciuta Noemi, perché «Ti amo non te lo so dire» ha messo insieme due o tre pensieri che per ora mi rivoltano da dentro. Ho adorato Drusilla Foer perché le parole inclusive sono quelle universali, perché essere rappresentativi significa saper parlare a tutti, perché la libertà non conosce conservazione ma è la costante e continua riformulazione di se stessi.

Sanremo sul divano

Mi è piaciuta la freschezza artistica dei cantanti, il fascino da pubere di Matteo Romano, la dannazione di Moro, la poesia di Elisa, il dolore urlato di Irama che racconta la separazione, il concentrato Indie che LRDL ha portato sul palco chiamando Cosmo, Ginevra e Margherita Vicario. I costumi di Michele Bravi e i suoi teneri, indulgenti versi. Mi è piaciuto poter condividere le serate insieme a chi poteva filtrare lo stesso racconto in modo completamente diverso dal mio, per finire comunque a cantare debolmente insieme durante l’omaggio a Battiato e sentirsi liberi di commuoversi un po’ al risuonare di quelle parole che parevano averci letto il cuore: «Amarti è credere che…che quello che sarò, sarà con te».

Il Fantasanremo influenza le performance degli artisti in gara all’Ariston

Un game per divertirsi con gli amici durante la settimana di Sanremo ma anche qualcosa di più: il Fantasanremo determina alcuni gesti dei cantanti in gara. Ecco come un media influenza un altro media.

Si chiama transmedialità. Sul palco di Sanremo ieri sera abbiamo assistito a piccole stranezze, alcune forse sono passate inosservate, ma gli addetti ai lavori – invero oltre 500 mila utenti – avranno fatto caso al batti cinque di Morandi ad Amadeus, all’apparente insensato urlo di Bravi “Papalina!” e che i due cantanti in gara hanno citato il Fantasanremo.

Fantasanremo, cos’è

Si tratta del fantagiuoco riguardante il Festivàl di Sanremo consistente nell’organizzare e gestire squadre virtuali formate dagli artisti in gara. Un sistema di punteggi (bonus e malus) determinerà la classifica finale. Ci sono un sito web o un’app, entrambi gratuiti, dove era possibile iscriversi fino alle mezzanotte dell’ 1 febbraio scegliendo i cinque membri della propria squadra, un nome per il team e nominando un capitano.Come il fantacalcio, e per chi c’era come il Fanta Game of Thrones, che ebbe grande successo in concomitanza con l’ultima stagione della straordinaria serie televisiva dove scegliere accuratamente chi non sarebbe morto. Sono iniziative dal basso, spesso nascono in sordina, un gioco fra amici (quelli del Fantasanremo di riuniscono presso il bar Corva di Papalina per seguire la kermesse) che non immaginano di sviluppare un piccolo fenomeno mediatico.

Sanremo rivive sui social

Che i social media (anche un game) avessero restituito linfa vitale al Festival di Sanremo lo avevamo appurato da anni, ma è interessante notare come stavolta non si tratta più soltanto di una reazione o un commento dentro una bolla nazionale. Il game ha invece un’influenza diretta su ciò che accadrà sul palco: i cantanti scelgono di fare qualcosa in virtù delle regole di un altro gioco. Michele Bravi ha un milione di fan su Instagram, una fan base notevole nel sistema che decreterà la classifica finale (il Televoto avrà un peso soprattutto sabato per la finale). Perché non ingraziarsi ulteriormente chi lo ha messo in squadra nel Fantasanremo? O magari, è solo divertente.

Basterà?

La vera domanda è come sta cambiando il Festival nelle edizioni recenti, che invece per certi aspetti continua a zoppicare. A che serve questo riempitivo di donne annunciate con grande pathos e poi consegnate all’anonimato sul palco, a ribadire sinuosamente quanto è stata magnifica la loro carriera accanto ai grandi uomini del cinema (vedasi Ornella Muti). Oggi è pure morta Monica Vitti, come a fare uno sgarbo a tutti noi.

Non si parla abbastanza di guarigione

L’armadio della mia stanza in città è rotto. Lo è sempre stato, da ben prima che arrivassi disperatamente e scegliessi quella stanza perché era l’unica disponibile in una folle ricerca di un alloggio in un tempo folle scollato dalla realtà delle persone. Non è solo rotto, è proprio fragile, scarso, esile, leggero che un soffio di vento provocherebbe crepe sul pannello multistrato di betulla che non è altro.

Ha fatto il suo dovere per tre anni tuttavia, e del resto, avrei potuto comprarne uno nuovo e rivenderlo al prossimo inquilino quando quella stanza non sarà più la mia. Non l’ho fatto, perché l’assetto provvisorio della mia sistemazione è sempre stato l’onesto riflesso di un animo impegnato a cercarsi e guarirsi. Così, ho rivestito la vecchia poltrona in velluto, ho comprato una fragranza al bergamotto con bacchette di legno e presto, una lampada da terra che possa creare un’adeguata luce soffusa quando non è ancora notte, ma neanche più giorno.

Fa tutto parte di un processo. Negli ultimi mesi non sono mancate trasformazioni e le conseguenti ferite di chi scopre di essersi contaminato. La paura è come un insetto che impollina un fiore sempre diverso per trarne nutrimento. Si sposta. Molti sono passati dall’avere paura del virus, e così hanno cercato di evitarlo (restiamo a casa), alla paura di averlo contratto (mi faccio un tampone per sicurezza). D’accordo che la disperazione muove il mondo, ma a volte basterebbe darsi tempo per sanare un dolore. Anche le mie paure spostano il loro oggetto. Anche io ho avvertito a lungo il terrore che un’onda di diversità e alterità mi avesse contaminata in modo irreversibile. E in effetti, era accaduto.

Più riconoscevo nuovi aspetti della persona che stavo diventando, più crescevano i sintomi: la solitudine, la noia, la maleducazione, la tachicardia per un calice di troppo, interminabili nottate con l’addome gonfio e tante mattine di stitichezza. Poi ho compreso che la solitudine era il sentimento più conveniente per non affrontare la mia chiusura all’altro, che la noia era il paracadute della mia improduttività, e la maleducazione una palestra necessaria a un carattere forgiato ma non ancora collaudato. Certi altri sintomi – sono convinta – non mi abbandoneranno mai, sono un monito necessario a ricordarmi che lasciare andare ha un prezzo.

Guarire comporta fatica, dolore, costi. Ma anche comprensione, lenta accettazione e fioriture. Servono coraggio e amor proprio, rispetto infinito per le proprie crepe. Chi è ferito fatica anche a distinguere i soccorritori. Quello che mi spaventa ancora tanto, oggi, è la possibilità di tornare a essere invisibile. Ho capito che è molto improbabile che qualcuno possa colpirti intenzionalmente, spesso le parole sono l’esito improprio di una disabilità, un giudizio, una punta affilata che l’armato non sa neanche di aver uscito dal fodero. È più facile che siano i tuoi schemi a interpretare gravemente certe incursioni. Insomma, la partita più difficile è difenderci dagli inganni della propria testa, facendocela complice.

Sussurrando le verità, indirizzando lo sguardo nello sguardo nitido dell’altro. I miei amici mi hanno fatto dei regali. Le mie amiche mi hanno portato dei fiori. Sono stati scelti libri e gioielli per il mio essere donna e il mio essere e basta. Ho festeggiato in molti modi, tranne in quello che avevo previsto, perché chi è in via di guarigione ha bisogno di soccorritori, cerotti, garze e riposo. Non so se ho trasmesso loro la mia gratitudine, mi imbarazzo, abbasso gli occhi, sorrido irrigidendo gli zigomi e biascico dei grazie che sono rotti, ma sono i migliori in circolazione.

Grazie over the top.

Come ho imparato a nuotare senza annegare

Mi è tornato in mente come ho imparato a nuotare. Non avevo paura dell’acqua, né delle pietre sul fondale. Eravamo piccoli, ma nessun elemento mistico mi lega al mare, esserci nata e cresciuta non ha fatto di me una esperta in stile dorso. Ci buttavano in acqua, tutto qui. Quando eravamo alti abbastanza, papà o chi per lui, ci sorreggeva in orizzontale sulla superficie, teneva una mano salda sulla pancia e diceva: “Muovi braccia e gambe!”. Si beccava l’acqua in faccia pronto ad attuare il suo vile inganno. Mentre urlava “ti tengo, ti tengo!” levava la mano. Non è mai annegato nessuno, abbiamo bevuto parecchia acqua salata ma, togli oggi, togli domani, abbiamo capito in fretta che sbattere le gambe ti dava la forza necessaria a rimanere a galla e agitare le braccia ti portava qualche metro più in là, a urlare “Guarda! Guarda!” e “So nuotare!”.

Ad avere fiducia si impara con fatica

In spiaggia ci avvolgevano nel telo tremolanti, con gli occhi rossi e le labbra viola, poi ci mettevano in mano mezzo panino col prosciutto e ricominciava la lotta, stavolta con le vespe. E con la stanchezza di chi adesso poteva fare capriole a largo. Ad avere fiducia si impara con fatica. Mi è tornato in mente perché l’inganno è sempre il rischio che si corre a fidarsi. Anche quando dinanzi hai la bellezza del mare, che sia d’onde o un mare di opportunità. Pare funzioni così anche nel lavoro, sto scoprendo. Quel famigerato mondo che ho conosciuto tramite i racconti degli altri come il più fumoso, dubbio, infelice aspetto della esistenza. Fino a questo momento era stato per me un proverbiale passatempo. Di quelli che ti appassionano certo, ma iniziano e finiscono, come una partita a scacchi, un puzzle, l’uncinetto, un torneo di bocce.

Curriculum vitae

Ho dato ripetizioni a lungo, anche se la prima volta che qualcuno mi diede 50 euro fu perché avevo organizzato dei giochi per strada e non avevo nemmeno 18 anni. Per due settimane ho accompagnato in auto un’anziana signora dal fisioterapista tutti i giorni. Poi, c’è stato quel periodo commovente in cui una testata giornalistica mi pagava 5 euro lordi a pezzo. I miei primi solidi guadagnati scrivendo. Nonché la prima volta che ho visto un CUD nella mia vita. Devo molto a quella testata. Forse è stata l’unica volta in cui mi sono sentita a posto con me stessa. Di certo non potevo esserlo durante i mesi del glorioso Servizio Civile, la mia prima reale fonte di guadagno con la quale riuscivo a pagarmi una stanza in centro a Palermo e fare shopping senza senso di colpa. Ma del senso del lavoro comunemente inteso, quell’esperienza ha avuto poco.

Legittimarsi

Nonostante questo invidiabile nonché non dichiarabile curriculum vitae che sprizza nero da tutte le parti, solo ultimamente ho intuito cosa mi stava da sempre impedendo di vivere davvero il lavoro per quello che è: valore. Certo è più facile quando a fine giornata hai messo insieme 100 mattonelle, quando hai chiamato al telefono 30 persone registrandone le risposte, se hai venduto 10 o 20 chili di frutta, o se hai timbrato il tesserino. Lo avrai conteggiato. Non c’è niente di più empirico di ciò che è misurabile. Facile quando hai smesso di chiederti cosa fai per vivere, perché sono trascorsi cinque o dieci anni da quando hai iniziato a farlo: non c’è niente di più empirico di ciò che è ripetibile. E a un certo punto sarà così anche per me, anzi lo è già. Il primo giorno in una redazione – ovvero alla scrivania della mia stanza d’infanzia – il peraltro direttore della testata con cui avevo iniziato a collaborare mi chiamò al telefono dopo aver letto una mia bozza, non avevo mai parlato con lui prima, e mi disse: “Sofia? Allora, innanzitutto la consecutio temporum“. [Ciao Peppe].

Professione giornalista

Volevo sprofondare. Rinunciare per sempre anche solo all’idea di…posso dirlo. Ora posso dirlo. Diventare giornalista. Ci ho messo un po’, direi soprattutto righe su righe su righe, plugin, ricerche per immagini, telefonate al punto blu di Buonfornello per chiedere cosa fosse successo sulla A1 direzione Palermo. A un certo punto sul mio telefono alla voce “sindaco” seguivano tutti i comuni delle Madonie. Gmail non aveva segreti. Un giorno in redazione ci siamo detti di lasciare perdere l’informazione locale, che se un pezzo era ben fatto, poteva perfino sfidare il ranking di Google. Allora mi misero a lavoro sui NEET (Neither in Employment or in Education or Training), i ragazzi che non studiano né lavorano. Doveva venirne fuori un editoriale, ma ho fatto una fatica enorme ad arrivare a trenta righe.

Salvavita

Poi ci sono state le batoste, le parole che non ho capito, poi ho studiato tanto. Tanto, tanto, tanto. E scrivevo, e studiavo. Ho fatto cose. Sono diventata adulta. Come tutti, ho incontrato persone, formato associazioni, conosciuto la politica attiva, aperto questo blog, scritto di cose che non sapevo potessero mai intercettare il mio interesse. E mentre venivano al pettine tanti nodi di me stessa, comprendevo dove stava quel valore. La scrittura mi ha salvato per un lungo, lunghissimo tempo, forse dalla terza elementare. Era l’unico luogo in cui poter riporre il mio sentire più autentico. Era ingarbugliata, ambigua a volte, una scrittura criptica: stavo iniziando a decifrare me stessa. Ancora adesso, quando qualcosa mi turba, scrivo alle mie amiche. Qualsiasi altro, sconvolto, chiamerebbe al telefono. Io no, io scrivo. Il mio rifugio è fatto di cornici alfabetiche. Le frasi sono i lampadari. I testi sono le finestre. Questo è il mio bunker salva vita.

Questione di fiducia

Ma è stato solo quando le becere retoriche del mondo del lavoro si sono riversate anche su di me, rivelandomi quella dimensione distorta che è la vita del tirocinante, che ho definitivamente legittimato a me stessa il mio valore. E l’ho capito quando l’eco di certe parole anziché ferirmi, rafforzavano l’idea che valevo molto di più di una paghetta. Quando le maglie subdole della burocrazia si sono interposte al lavoro sotto forma del sorriso antipatico di una passacarte che ti considerava poco più di una pratica da sbrigare. Insomma, anche ad avercela una carta, un’abilitazione o due, anche a provare a raccontare la tua esperienza, probabilmente non basterà. Non subito. Ne devi mangiare di cereali sotto marca. L’altro sarà sempre più interessato a una negoziazione del tuo lavoro, con la promessa aurea della formazione a compensare quello che non si sa o non si vuole riconoscere, un potenziale. Non siamo fatti per tutti i lavori per cui ci candidiamo, così come tutti i lavori per cui ci candidiamo non sono fatti per noi. Dietro un’apparente brutta esperienza – ho imparato – c’è un mancato incontro.

Nessuna magia

E c’è la pochezza di una società in cui conta solo ottimizzare, produrre, abbattendo i costi e se ti va bene, tu sei il costo. Un peso, un prezzo da pagare per un progetto in cui forse nemmeno credi. Ho questo brutto vizio di pensare che se qualcosa non funziona, sono io l’ingranaggio che non ha fatto il suo dovere. Spesso significa solo che concorriamo ad auto-sabotarci, facendo venir meno la fiducia in noi stessi, nella capacità di distinguere uno stronzo da uno che ti vuole bene, e un’occasione da un tempo perso. Non era la mano di qualcuno a sorreggermi e non era il suo venir meno a mettermi a rischio, sono sempre stata io a scegliere di muovere le gambe, rimanendo più forte della paura e più desiderosa di nuotare nel mare, anziché guardarlo dalla spiaggia. Non sono arrivata da nessuna parte, ma non sono neanche al punto di partenza. Le cose sono cominciate a succedere senza dire grazie a nessuna dote innata, a Dio o al parente che ha un amico che conosce qualcuno. Sto imparando a fidarmi e qualcuno inizia a fidarsi di me.

E infine, spegnersi

Ho fatto un sogno di recente. Stavo per prendere possesso del mio nuovo monolocale, ed ero molto felice. Finalmente, un primo passo vero verso l’indipendenza, con un’abitazione non condivisa. Il monolocale è tipo l’ambizione dei nuovi trentenni, quelli che non hanno uno stipendio, né un mutuo, né certezza. L’ambizione dei precari. La cosa curiosa è che aveva mobili nuovissimi, ma pareti ancora imperfette, senza intonaco, grezze. E poi, di tutti i luoghi in cui il mio inconscio poteva prendere casa, ha scelto comunque Via Parini, dove vivono i miei. Non sia mai che faccia un passo troppo lungo, lontano dall’elemento noto. Che ci sia una porta e un civico però, è già una grande conquista.

Fuori, vecchi amici erano pronti a portarmi un regalo per la casa nuova.

E’ così che si fa, no? Si celebrano le arcinote vittorie dettate dalla società. Mentre ci affanniamo a rincorrere un riconoscimento. Vi dirò, nel sogno la casa va a fuoco – in fiamme letteralmente – colonne di fumo nero, polveri e scintille. In strada, quel pover’uomo di mio padre, non esita a spegnere l’incendio, mi guarda e mi dice “Stai tranquilla”. Si consuma così, nel mio inconscio, la battaglia in atto fra le corde del mio cuore e le bombe della mia testa. Sarà per questo periodo definitorio, di ricerca, di studio, di rivelazione e di appropriazione di un pensiero che non ha più nulla di convenzionale o accademico. Tra le righe della bibliografia, traspare anche la mia posizione in merito alle cose. Dovrò modulare la rabbia, e condirla di riferimenti accademici, per dare validità al mio pensiero.

Mi sembra però che chi prende parola per lo più si siede in punta di sedia, pronto a scattare.

Ci provo. Mi arrabatto. Metto in discussione il mio inglese sgrammaticato ogni giorno, in ufficio, quando accolgo gli studenti che arrivano da Spagna, Belgio, Turchia, Pakistan, è passato persino un brasiliano altissimo e biondissimo. “Hi! Have you found an accomodation to stay?” – gli chiedo – e poi capto pezzi di risposte che comunicano molto meno dei loro occhi preoccupati perché è davvero impossibile trovare una stanza in città. Chi si mette alla ricerca di qualcosa rischia lo smarrimento, delusione e continua allerta. Quando sei in una posizione di svantaggio, è più facile pensare di non essere all’altezza. E smetti di darti valore. L’ufficio in cui opero, ha un nome equivoco, che potrebbe facilmente essere scambiato per una portineria. Così, sovente accade che mi ritrovo a dare indicazioni per raggiungere le aule o lo sportello di counselling psicologico (popolatissimo, il che mi rallegra, ma mi fa anche riflettere su quanto i disagi possano essere numerosi fra gli studenti).

Fra una telefonata e un questionario di gradimento, oggi, ho appreso della morte di nonna.

Un evento prevedibile. Quando partii la prima volta per Parma, ricordo, andai appositamente in paese per salutarla. Era settembre e al successivo Natale mancavano molti mesi per me, ma pareva pochi per lei. Sono trascorsi altri due anni. Un Highlander, senza dubbio. Una scorza dura che fa ben sperare in termini di genetica. Solo che nonna era via da anni. Le è toccato uno dei mali più beffardi, che ti toglie piano piano ogni facoltà cognitiva. Così piano che il tempo smette di essere un fattore di riferimento, il giorno e la notte, il buio e la luce, il pranzo e la cena, Natale indistinguibile da un comunissimo giorno di febbraio. Silenziosa, pressoché immobile, lo sguardo tutto intorno entro le mura di casa. Quando arrivavamo la domenica, eravamo un vespaio tutti intorno a rimbalzare i nostri discorsi vicino alla sua poltrona. Stimolavamo brandelli di memoria, pensando forse, di aiutarla.

Stava seduta su una bella poltrona, col suo sguardo perso di qua e di là.

Se la guardavi a lungo, ti ricambiava un sorriso, altrimenti, si girava e continua a cercare, cercare. Fino a un paio di anni fa, Eva si autoreggeva già sul bracciolo di quella poltrona, teneva le gambine in avanti e riversava su di lei i suoi occhioni:<<Nonnina, nonnina>> la chiamava. E quella sorrideva, a volte un po’ di più, fino a quando non le si bagnavano gli occhi, non di commozione: era ilarità senza contenimento. Allora, Eva appoggiava il palloncino tra le sue mani e attendeva che glielo passasse indietro, altrimenti, se lo prendeva da sola. <<Nonnina, nonnina>>, non rispondeva, ma nascondeva il labbro superiore dentro quello inferiore e indagava, indagava. Avrebbero potuto andare avanti per ore. E forse agli occhi di Eva, che all’epoca aveva due anni, era proprio così: la nonnina era piccola, e sempre più piccola diventava dentro quella poltrona. Poi, piegata, rinsecchita e, quindi, minuscola.

Il tempo che passa, cara nonna, può essere un dolore.

Fortunato chi ti piange perché ti ha persa, fortunato perché ti ha avuta. Nei soleggiati pomeriggi sul balcone, lungo le scale verticali di quella casa con le imposte di legno, c’è stata un’infanzia indistinguibile da quella dei miei cugini, fratelli. Eravamo il vespaio che metteva a soqquadro quello scuro soggiorno pieno di dipinti incomprensibili e bambole di porcellana. Eravamo le impronte di dita sul tavolo, abbellito dal centrino all’uncinetto. Il posto a tavola all’angolo, pur di entrarci tutti. Ti dirò, guardavo con sospetto a quel porta biscotti in latta in cui conservavi i bigodini e mi insospettiva l’immagine di te mansueta, a forzare quei ricci in testa. Cose che avrei dovuto dire, per innescare un rapporto con te, che in fondo sei stata mia nonna, ma non ce lo siamo mai detto. Così, mi sembra di piangere senza motivo, ma il tempo che passa è un dolore anche per me, che ti saluto da lontano. Solo che è un dolore diverso, non convenzionale, non di chi ti ha persa, ma di chi non ti ha avuto abbastanza.

In vacanza, ma anche domani

La vacanza è il momento in cui sollevarsi dall’incarico, quale esso sia. Aprire una casa al mare per avere un luogo in cui consentire allo spirito di distendersi, espandersi, e ricoprire lo spazio esterno di teli colorati. La sabbia è l’unico souvenir: tra le dita dei piedi, dentro la borsa e per quanto mi riguarda, tra i denti. Ci sono voluti tre treni, un aereo e un autobus, per arrivare al mare. Ore congelate dal silenzio – ho aperto bocca per parlare con qualcuno solo a sera – assorta com’ero dall’andatura del treno sui binari, il sole scaldava dal finestrino contrastando il gelo provocato dall’aria condizionata; poi, le solite stazioni fredde e meccaniche. Quando sono scesa a Punta Raisi me la stavo facendo di sopra, così ho raggiunto il primo bagno pubblico, ancora nei pressi del binario. Mi mancava pure pisciare in posizione di squat talmente ho provato piacere a partire, levandomi di torno per un po’.

Movimento

Qualche tempo morto, spezzato dal momento snack troppo costoso al gate, i soliti pensieri in coda per imbarcarsi: famiglie con l’accento romano, una coppia innervosita dalla compagnia che li aveva costretti a caricare in stiva il bagaglio, nonostante avessero pagato la priorità, ragazzi di rientro da una vacanza in Sicilia e chissà…forse madri snaturate, ladri, disperati, nessuno troppo ricco ma tutti soggiogati dalle nuove politiche di Rayanair che zitta zitta quatta quatta, mentre in molti pensavamo a esibire il Green Pass (mai richiesto) – ci ha imposto di scegliere il posto in volo acquistandolo alla cifra minima di 3, 3.50, 4, o 6 euro (se è il posto meno sfigato). Ma si sa: quando parti per le ferie sei disposto a pagare qualcosa in più, pur di stare rilassato. Nessuna grande meta, date le circostanze, perciò ho deciso di raggiungere un’amica al mare. L’ urgenza di andare lontano da casa vanifica il valore della destinazione, per questo una provincia vale l’altra se intraprendi un viaggio, un litorale rimane indistinto da un altro, e ogni comparazione è superflua.

Foce verde

Così, sono finita in un residence a un chilometro dal litorale laziale nella provincia di Latina. Isolato abbastanza da far perdere la ricezione al telefono – aspetto niente affatto disagevole -, e far sembrare i camion dello scarico merci del negozio davanti casa un lontano ricordo. Ci si abitua in fretta allo stare bene, anche se la vista è disturbata da una chiesa di recente costruzione in aperta campagna. Leggo online trattarsi di architettura moderna, che si ispira al santuario di Lourdes, solo con un nome meno evocativo – rifletto. Stella Maris è il nome della parrocchia, riconosco la devozione alla Madonna tipica dei borghi di mare. Ci sono meno di un centinaio di recensioni su Google rispetto al luogo, recitano tutte all’incirca il solito elogio senza impegno: “Bella, spettacolare!”. Inevitabilmente, se 99 commenti sono positivi, l’occhio cadrà sull’unico severo ma giusto: “Un fungo spuntato in mezzo al nulla!”.

Agro Pontino

“Sticazzi – diremo – Sto in vacanza!”. In realtà, lo dirà Martina. A me sono servite alcune ore di assestamento prima di abituarmi a non fare una mazza tutto il giorno, se non tenere il culo poggiato sulla sabbia, mangiare, tenere il culo poggiato sulla sdraio, mangiare, guardare i papà costruire castelli di sabbia con i figli, programmare cosa mangiare il giorno dopo. C’è stato spazio anche per un po’ di sapere storico, che da queste parti si riflette molto sull’aspetto urbano: Sabaudia fu fondata nel 1933, e fu pensata da alcuni architetti che la immaginarono predisposta per divenire un importante centro sportivo, in particolare per ospitare gare nautiche sul lago di Paola. Divenne espressione del movimento architettonico del razionalismo. Per dire, il centro postale della città compare sui libri d’arte. Per coltivare i campi agricoli nati dopo possenti opere di bonifiche durante gli anni del fascismo, Mussolini richiamò direttamente coloni veneti per avviare le produzioni. Le insegne sono rimaste quelle degli anni del boom edilizio che hanno portato al popolamento della città, oggi rinomata meta turistica grazie a una spiaggia di 20 chilometri e alle dune di sabbia che in primavera si tingono di rosa.

Le storie degli altri

Ai miei occhi ha acquisito senso però, solo nel momento in cui la storia del luogo si è arricchita delle storie personali di chi in quel luogo è nato. Quando i luoghi sono i luoghi della vita di altri e le storie trovano il modo di intrecciarsi e rimanere solide, iniziano a somigliare alle leggende. Cosa le rende impermeabili al tempo è la loro capacità di perpetuare bellezza. Non ci fu modo per Circe di stregare Ulisse, e da quell’uomo diverso, curioso, prese l’amore e da amore fu ricambiata, in un valzer di vita intenso per quanto finito. Nessun inganno, solo il procedere delle cose. Sotto il Monte Circeo, che abbraccia uno dei parchi nazionali naturalistici più grandi d’Italia, si consuma ancora oggi quella storia di fascino e capelli intrecciati. La suggestione vuole che il monte assuma proprio la forma della maga, distesa con il volto in su, di cui appare il profilo, a osservarlo bene. Per altri, la sagoma richiama Ulisse dormiente, nella sua permanenza nell’isola di Eea, nome che un tempo aveva probabilmente il promontorio, quando era interamente circondato dall’acqua, in compagnia delle isole di Ponza, Palmarola e Ventotene, l’arcipelago delle Pontine a largo del litorale.

La lucciola

Se tanto mi da tanto, questo può valere anche per ciascuno di noi, che in fondo di miti ci nutriamo ancora adesso. Una sera, dopo cena, eravamo convinte di stare tornando all’auto per avviarci verso casa. Ci siamo accorte di aver sbagliato direzione solo dopo aver trascorso un’ora intera tracannando birra sulle note di Gloria, abbozzata da uno scarsissimo animatore da Piano Bar, con l’unica competenza necessaria: la cafonaggine. Quella bonaria, s’intende. La stessa del gestore che ci aveva viste esitare sulla soglia del locale, dal nome evocativo, “La Lucciola”. <<Volete entrà?>>, <<Ma c’abbiamo la sabbia ai piedi>> – aveva ribattuto Martina. Quello, con una invidiabile pace interiore, l’ha guardata negli occhi, ha portato la mano alla bocca, ha abbassato la mascherina e sorridendo ha sentenziato: <<E sti cazzi!>>.

La lucciola apparve immediatamente come il posto più bello del mondo. L’attimo dopo cantavamo a squarciagola tutto il repertorio italiano dagli anni ’60 ai Duemila, senza continuità logica. Non eri manco nato quando erano in voga, ma le sai tutte. Quella sera, Piccola stella senza cielo divenne un coro da stadio. I nostri discorsi – pochi, evidentemente impegnate a ondeggiare sulla sedia sulle note di Rewind – servirono a riconsiderare gli uomini pelati, ingiustamente esclusi a priori spesso dai nostri interessi in fatto di fisicità.

Roma Bene

Per non farci mancare nulla, un paio di sere dopo, ci siamo misurate con l’universo parallelo dei fighettini in camicia di lino e mocassino anche in spiaggia. Non avevo ancora visto uno stabilimento balneare completo di area relax, parrucchiera, e docce calde. Il sole aveva fatto a botte con le nuvole per tutta la mattina, alla fine l’ha spuntata, cedendo solo al maestrale, ma proponendo una golden hour da paura. Nessuno dei presenti sembrava troppo preoccupato del meteo in realtà. Ho imparato che al mare si mantiene sempre un certo stile, lasciando i capelli sciolti, prediligendo i pareo agli shorts. Bandite la Havajanas: la ciabatta è eleganza. Non avevo granché da condividere con quel contesto, perciò l’ho presa come un gioco: ho smesso di fare caso a cosa avevo intorno e mi ci sono infilata dentro. Per un paio d’ore, sono tornata ad avere 18 anni: ingenua, ma piena di risorse. Via l’elastico ai capelli, matita, rossetto, ho insaccato un vestito e quanto al profumo, bastava l’essenza della crema solare. Che manca? Una complice, certo. Ce l’avevo.

Lucertole

Martina ed io non facciamo altro che cambiare pelle, come lucertole, adattandoci a quello che il momento richiede, assecondando desideri legittimi, imbrogliando la nostra testa e giocando fino allo sfinimento, quando una confessa all’altra che non ne ha più. Un pezzo di pizza appena sfornata, un concerto rock in piazza, l’incedere lento dei vacanzieri per le strade, i negozi aperti fino a tarda sera, quaranta persone in fila per prendere le bombe da Ciccio, e la strada di ritorno verso casa, costeggiando il bosco. Quello è il mio momento preferito, quando la conversazione si fa lenta, i pensieri arrivano piano, si dà voce ai segreti e si mettono sul piatto le verità che non sempre sai raccontare a te stesso. Una spalla serve, per riabilitare i pelati e girare a vuoto per il vicinato sperando di rivedere i tipi carini che avevamo salutato quella mattina. Ci siamo rivelate l’una a l’altra, e ancora a noi stesse: testarde, fragili, generose, sciocche, ribelli, adulte, se è il caso pure cafone. Siamo una pasta pecorino, pancetta e cozze. Senza che questo desti alcuno scandalo. E siamo il pollo con le verdure prima di un approfondimento notturno su Kabul. Non siamo simili, ma simile è il nostro desiderio di vita, in vacanza ma anche domani, quando l’una ricorderà all’altra che merita tutta la bellezza possibile.

Erba di casa mia

posidonia

La commessa del negozio di cosmetica ha speso con me tre quarti d’ora per trovare un fondotinta adatto, che coprisse senza appesantire, con una texture indicata. Ero entrata in negozio dopo l’ennesima notte insonne per via del caldo. Avevo una pessima cera: le occhiaie bluastre, le vene sporgenti, i rossori escoriati da una vita così. Si è impegnata un sacco e alla fine mi ha anche regalato una crema per il contorno occhi. Funziona. È stato come un grillo parlante sulla spalla che – essendo in Sicilia – avrebbe detto: “arripigghiati”. Perciò, un po’ per obbligo un po’ perché sul mare siamo sempre tutti d’accordo, ho scelto il copione del weekend.

Finale (PA), a destra la Spiaggia Marina

Posidonia

Alla Marina si accede direttamente dal centro abitato, a pochi passi da casa mia. La spiaggia è stretta e piena di sassi enormi che rendono l’accesso in acqua impervio, ma noi diremo avventuroso. Una volta spinti tra le onde, appare lo spettacolo di un fondale incontaminato. Una distesa infinita di posidonia, più verde e più scura. È una tipica erba Mediterranea d’acqua, molto simile alle piante che possiamo trovare a terra, più che alle alghe. Produce ossigeno in quantità. Quella che muore si stacca e il moto del mare la riversa sulla spiaggia formando un tappeto morbido, ne riporti a casa qualche filo, non per ricordo, ma perché è talmente innocua da non sentirsi addosso. L’avventura prosegue su uno scoglio o due, alcuni fuoriescono dall’acqua. Se prendi le misure con i piedi e ti aiuti con un po’ di addominali sali subito su, oppure ti fai accompagnare dalle onde. Il sole scalda la superficie e un po’ anche te, restituendoti un dolce rossore.

Storie a pelo d’acqua

C’è tempo per un drink a ogni ora e risalite al tramonto, quando il mare diventa cobalto e il costume bagna un’inutile pezzo di cotone che teniamo addosso per ricomporci. Ci sono età per ogni stagione della vita: bimbi, giovani coppie, anziani, comitive. Ci sono quelli che arrivano perché hanno visto il posto su Instagram e altri che non vogliono rinunciare ai servizi. I predatori del turismo e amanti della natura. Weekendisti e passanti. Puoi ascoltare storie a pelo d’acqua: suocere che hanno da ridire sui suoceri dei loro figli e ragazze affascinate dall’angolo con il salvagente per un set naturale. Nei discorsi non resta spazio per i temi mainstream: di fronte al mare ai arrendono anche i tuttologi. Quindi resta l’unto della crema dopo sole, essenze che sulla pelle diventano promesse, abbracci delicati, carezze, bollori. È l’estate, bellezza.

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Selfie con gli sposi

selfie con gli sposi

In un piccolo paese, ci sono solo due momenti in cui le strade rimangono pervase dal silenzio: la notte fonda certamente, e il primo pomeriggio, quando le attività chiudono temporaneamente, ci si ritira per pranzare, qualcuno sonnecchia e le mura di casa proteggono dal caldo asfissiante di un fine giugno in Sicilia. Quello spazio piatto, discreto, è interrotto talvolta dal rombo di un auto di passaggio. Ci sono volte però, in cui i portoni delle case restano aperti, e allora, qualcosa dentro sta succedendo, qualcosa è in atto…

L’auto per la sposa era già sotto casa, l’autista stretto nella sua camicia bianca e i Rayban a gocce specchiati sbadigliava ritirando la pancia e alzando i pantaloni. Di lì a poco uno stuolo di vicini e curiosi, si sarebbe radunato in attesa di vedere la sposa. Un tempo, messo piede fuori casa, la nubenda veniva accolta da un fragoroso applauso e qualcuno gridava “Auguri!”, “Complimenti!”…Mercoledì invece sembrava di essere in Via Brera a Milano, fuori dal Jamaica con i paparazzi a scattare addosso decine di foto inspiegabilmente raccolte nei megabyte degli honor. Il calore dei presenti era comunque evidente, a ragione di una felicità grande che quindi poteva essere persino di tutti.

Dall’appartamento si alzava un vociare allegro, di chi aveva già dato inizio alla festa. Ci si prepara in molti modi a un matrimonio: c’è un rituale circa cosa indossare, cosa escogitare, cosa abbinare, e un po’ meno forse – badiamo a come essere felici, dando per scontato che qualcosa ci esalterà, ma non considerando che quel qualcosa siamo noi. Ci affidiamo all’incanto. E ora so perché: due delle mie persone preferite si sono sposate, così ci siamo fatti belli per celebrare quella felicità. Esperti della tradizione, sappiamo fare dell’eleganza un sintomo di ebrezza. Gli orecchini e il ciondolo in perla, le unghia smaltate di un colore delicato, il rossetto vivace sulle labbra…

Quando la sposa, ancora in elegante intimo, è apparsa sulla soglia, ci siamo arrese allo stupore. In quel momento è iniziato un gioco di riflessi che è continuato fino a sera, in una corrispondenza continua di ciò che stavamo provando…neanche se a sposarmi fossi io! E no, non è certo l’idea del matrimonio a infiocchettarmi la testa, piuttosto il concentrato di significati che dal matrimonio scaturiscono. I matrimoni sono difficili, a dirla tutta, perché non hai alternativa: o sai goderne o resti fuso col caldo finché il buffet dei dolci non decreterà la fine del supplizio. Mercoledì è stata una giornata magnifica, perché non c’è cosa più bella che essere partecipe della felicità dei tuoi amici.

Quella felicità, ho avuto il piacere di testimoniarla. E così, di scoprire sulla mia pelle che rintracciare l’amore disorienta. Si concretizza un sentimento autentico, che si presenta al mondo nella sua nudità, e quell’amore – quando lo vedi – ti travolge. Solo sei mesi fa, sarebbe passato dolorosamente inosservato ai miei occhi tutto ciò, non curante com’ero di una parte di me perfettamente in grado invece, di saper stare in certe emozioni. Ciò che credevo impossibile in realtà, non solo lo comprendo, ma posso persino contemplarlo per me stessa. Sposarmi? Perché no. Non sposarmi? E che problema c’è? Avere un lavoro con notevoli responsabilità? Eccomi. Tuffarmi giù su uno scivolo in mare? Fatto. Fatto. Fatto. Fatto. Scegliere, insomma, di stare e come stare nelle cose della vita, purché siano libere scelte. E purché, alla base di tutto, rimanga solido il rispetto per se stessi.

Non ho cambiato città finché non l’ho desiderato fortemente, non ho permesso agli uomini di conoscermi, finché non ho sgomberato il campo da ciò che lo rendeva impossibile, non ci sarà un’occasione performante, finché non la cercherò. I matrimoni restano difficili anche adesso, perché tendono a sottolineare quello che non esiste ancora. Ma oggi sono lontana dallo schema preconfezionato che mi è stato consegnato in dote dalla cultura di appartenenza, che mi vuole indistinguibile dalla massa o perfettamente riconducibile agli unici modelli previsti: buona, virtuosa ma poi basta. O prendi marito o qualcosa in te sarà andato storto. Mi ha fatto sorridere, durante la festa, ricevere moltissimi complimenti che dicevano pressappoco tutti così: “Sei irriconoscibile” – “Non sono abituata a vederti così, sei trasformata”. Onore a estetisti e parrucchieri ma oh…ragazzi, sveglia! Mi domando cosa impedisce a molti di formulare una semplice frase come “Sei bella”. Eravamo tutti uno schianto d’altronde, fighe e fighi pazzeschi in pista a ritmo di bachata e merengue. Leggeri, colorati, pieni di vita che ne abbiamo da vendere. Capaci di raccogliere la felicità dei nostri amici sposi in un abbraccio unico e memorabile. Come uniche e memorabili sanno essere le serate perfette.

L’anticiclone ci ha privato del cielo. Avevo una ferramenta in testa e gli aloni del giorno. Ma quando lo sposo ha accolto all’altare la sposa con un lungo, infinito bacio sulla fronte, non ho avuto dubbi: ecco l’amore. Sotto l’imponente presbiterio del Duomo di Cefalù, lo sguardo per la prima volta in 29 anni, non era votato all’Altissimo, ma alle note di umanità che si stavano componendo da sé, nello scambiarsi le promesse, nel sottoscrivere un patto, nello stringersi in un momento tanto intimo quanto universale. Umanissimi. Due delle mie persone preferite si sono sposate e non c’era altro modo di celebrare la felicità se non fare fuoriuscire la propria. La vita è un medley mentre scoli di sudore; è perpetuare il desiderio, fare della felicità un inno. In Sicilia ho un grappolo di amici che ormai ride di ciò che non può cambiare e si regala sprazzi di normalità con vestiti buoni e scarpe d’occasione. Farsi belli è naturale conseguenza per chi vive la vita con devozione. Ma anche Baila Morena che mi torna in mente insieme a tutto quello che ho visto e di cui mi fido, perché lo so, ora lo so: amare è tutto ciò che va fatto.

Your job, our text, one pic

Quanto può distare il Pakistan da qui? Molto meno di quanto immaginiamo, se programmi un viaggio da te all’altro capo della strada, dove puoi trovare un pozzo di storie sognanti: fatte da esseri qualunque.

La primavera ha in serbo sempre più chance di incontri, più incroci ai semafori e giornate che negoziano la loro fine con il sole più a lungo. Quando abbiamo deciso di sfidare quegli incroci, di tallonare quelle strade, in realtà, non avevamo un’idea precisa di quello che sarebbe successo. Ho messo le scarpe comode, un piumino da 100 grammi per la sera e ho preso la macchina fotografica che ad aprile avevo chiesto a mia sorella in prestito, immaginando che a un certo punto, mi sarebbe tornata utile. Non so usarla, non ho mai veramente capito come ottenere un’esposizione corretta, ma mi ero fatta forte dell’idea che i tecnicismi sarebbero stati secondari, non sapevo che forma avrebbe assunto la bellezza in questa storia.

Alle 20 del 10 maggio Piazzale Corridoni a Parma si stava lentamente svuotando: il libero professionista sulla bici, con il vestito buono e lo zaino in spalla imboccava Via Nino Bixio, la salumeria all’angolo abbassava la saracinesca, gli autobus 1, 5 e 6 percorrevano le ultime corse. Sulla soglia del locale semibuio, una donna di mezza età era appoggiata alla porta fumando una sigaretta, i capelli legati, il grembiule sul ventre, nonostante tutto, il volto segnato da ottimismo. Ero arrivata puntuale sul posto mentre, come al solito, Raffaele tardava – “Vez sto arrivando” – riproduceva l’audio su WhatsApp. Si stava perdendo già il primo atto. Sapevamo che a un certo punto sarebbero rimasti in scena gli unici personaggi a cui eravamo realmente interessati quella sera, sapevamo dove trovarli, ci eravamo già caricati di immagini mentali, come quando vai a scuola preparato perché se ti interroga la sai, sensazione spesso a me sconosciuta, così pervasa dall’insicurezza. Non avevo ancora abbassato il cavalletto della mia Eusebi, quando mi piantai nel bel mezzo del marciapiede, invadendo volontariamente lo spazio di un ragazzo che di lì a poco sarebbe ripartito con il suo Glovo pieno di pizze. Era piuttosto basso, indossava dei pantaloni in stile militare, un giubbotto e un passamontagna grigio, vecchio, o forse era solo un pezzo di lana bucato sul naso e sugli occhi. Il monopattino di Raf frena accanto a me, gli faccio segno con lo sguardo, e riconosciamo entrambi il soggetto: il rider perfetto.

Piazzale Corridoni – Parma, maggio 2021

Dovevamo tornare a casa entro poche ore con un certo numero di scatti. E per farlo, andavano oltrepassati molti limiti, su tutti: noi stessi. La sfida era tutta lì, in quella distanza tra noi e il Pakistan, tra noi e il ragazzo che per tutta la sera rimase senza nome. C’era un solo modo per farlo entrare nel racconto che volevamo costruire, chiedergli di partecipare. E c’era solo un codice possibile per farlo: non le parole, non le promesse, ma gli occhi. Era l’unica cosa che quel ragazzo con lo zaino giallo Glovo, concedeva di sé al mondo circostante. Abbiamo varcato la soglia di qualunque cosa fosse quella resistenza estrema all’altro e lo abbiamo salutato. Abbiamo impostato la conversazione sul nostro inglese scolastico, mischiato all’inglese della strada di chi arriva in Italia da ogni parte del mondo “in via di sviluppo”. E non è andata bene. Chissà quanta distorsione sarà intercorsa tra lui e noi in quelle poche battute. Your job, our text, one pic. Non ricevemmo un semplice no, non ci ha voltato le spalle, ma abbiamo visto la paura crescere nei suoi occhi. C’era di più, ma mi sembrava un azzardo lavorare d’immaginazione; di certo, nel suo sguardo non esisteva inganno, ma un profondo sentire, un profondo sentire angosciato.

Un po’ scossi, siamo tornati a darci la carica. I locali di Via D’Azeglio, da qualche settimana, erano tornati ad accogliere gente all’esterno, ma le commesse da casa non sembravano affatto diminuite. Su e giù fino a Piazzale Santa Croce, erano almeno una decina i rider impegnati a soddisfare tutti gli ordini: nel giro di pochi minuti abbiamo conosciuto Mohammed, molto disponibile e divertito dall’idea che la sua storia potesse in qualche modo destare interesse. Ci ha mostrato lo smartphone con le notifiche, le mappe di Google pronte a indicargli la destinazione e il suo sorriso direi inossidabile. A lui abbiamo scattato le nostre prime foto, ricevendo in cambio non solo quadri e scene ma anche una dose inaspettata di adrenalina che non è più calata per il resto della nostra ricognizione fotografica. A dire il vero, non avevamo un’idea precisa di cosa avremmo voluto realizzare, il progetto ha preso forma poco alla volta, dopo i primi momenti quasi di smarrimento. Non era possibile far convergere la nostra immagine con la realtà, era la realtà che avrebbe ispirato noi. Proprio come quando ci mettiamo lì a spulciare articoli, documenti e report per ricavarne una sola storia, per quanto ricca di spin-off. Piena al punto da obbligarci a selezionare, escludere, rinunciare se necessario. Su Viale Mentana per esempio, avremmo potuto riprendere un rider completamente perso, con una consegna da far giungere al lato opposto della città. Ci siamo limitati a dargli delle indicazioni, comprendendo in quei secondi tutto il disagio di un’occupazione che in fondo è lo specchio della nostra società: si affida totalmente ai mezzi, ne rimane assuefatta fino alla dipendenza, e su essa costruisce ogni possibilità. Le piattaforme digitali che assumono i ciclo fattorini si fondano in toto sull’azione trasparente del digitare: scelgo un ordine dalla mia app, che diventa commessa, che diventa spedizione. Priva di ogni interazione umana.

Riders in Piazza Garibaldi – Parma, maggio 2021

Siamo andati a caccia dell’invisibile e ci abbiamo trovato dietro persone. Come Umar, 30 anni, seduto sotto la statua di Piazza Garibaldi in attesa delle ultime notifiche. Sotto il casco giallo e la mascherina aderente al volto, la fisicità greca di un amatore dell’arte marziale, col sogno di tornare a casa per completare i suoi studi da videomaker. Ci ha anche fatto vedere qualche suo montaggio; mostrava i suoi capelli lunghi e neri, raccolti solo temporaneamente in un codino durante il lavoro. Era uno dei più attrezzati, considerato quanto spesse fossero le ruote della sua bici. Jawed ci ha detto poco, ma nella posa naturale fermo al semaforo, ha rivelato ogni cosa. Mohammed (un altro) non voleva prestarsi al ritratto, si è anche allontanato da noi, per poi tornare. Ho capito cosa avesse fatto scattare in lui la voglia di mettersi in gioco solo quando mi ha chiesto di mandargli le foto che lo riguardavano. Sanno che spesso i giornali si occupano di loro, che se ne parla in virtù del groviglio normativo che non viene fuori dall’impasse autonomo/subordinato. Ma in quel momento, voleva solo far vedere alla sua famiglia laggiù lontana che qui ce la sta facendo.

Nel frattempo, anche l’adrenalina per noi era diventata un travaglio. Nessuna storia ci sembrava uguale all’altra per quanto si intravedesse un filo comune: sono quasi tutti uomini che lasciano una terra in cui le istituzioni li abbandonano, per approdare in altre in cui le istituzioni permettono che vengano schiavizzati. Il dato simile, in ogni caso, è rappresentato dalla straordinaria fiducia che evidentemente ripongono in loro stessi. Non sono poveri disgraziati, ma ricchi avventurieri. L’uomo è artefice del proprio destino solo finché il destino lo colloca nella parte giusta del mondo. La storia più bella, a mio avviso, resta quella che non abbiamo raccontato. Andare a fondo, si è rivelato più difficile di quanto potessimo immaginare, oltre l’empatia che in qualche modo abbiamo instaurato – forse per la simpatia che potevamo evocare su e giù per Strada Repubblica a bordo di una sgangherata bici da passeggio e di un monopattino che si scarica in fretta – alcuni volti sono rimasti lontani dall’obiettivo. Abbiamo rivisto il ragazzo con lo zaino giallo a fine serata, lo abbiamo salutato sotto il porticato di Via Mazzini, tirando dritti per la nostra strada, quando ci ha chiamato indietro: “Sorry, I can’t” – stavolta non c’era paura nei suoi occhi, ma la stessa inconfondibile angoscia. “Don’t worry” – replicai con la voce rotta per la commozione, prima di chiedergli come fosse andata la sua serata di lavoro. Aveva guadagnato bene: 15 euro.

Un po’ rotta anche io, a quel punto, sentivo di avere in me tutto il Pakistan del mondo, ma di poterlo guardare ancora solo da lontano. Avevo le mani sporche di grasso per essermi poggiata a terra, sudate dopo averle tenuto a lungo sui manubri della bicicletta, ottanta foto sbagliate sulla memoria della reflex, e una profonda gratitudine verso il mestiere più contraddittorio e bello che potessi scegliere per me: raccontare.

Nelle scorse settimane, abbiamo completato il nostro lavoro: Into the night è il reportage che racconta la condizione dei rider, provando a spiegarne il fenomeno attraverso gli sguardi dei ciclo fattorini che abbiamo incontrato, e che si sono fermati a parlare con noi, condividendo le loro esperienze. Le foto sono state scattate nel mese di maggio 2021 a Parma. Il reportage è stato realizzato su richiesta del docente del corso di Giornalismo dell’Università di Parma, Marco Gualazzini, stimato fotoreporter, al fine del superamento dell’esame integrato in un insegnamento del corso. Le foto abbinate a questo post, non fanno parte della selezione.

Amore con riserva

amore con riserva

Non salivo su una metro da dicembre 2019 e non passavo da un Mac per un break da quando andavo al liceo probabilmente. Quando ho svuotato il borsone, una volta rientrata a casa dopo un paio di giorni fuori, ho caricato in lavatrice tutti i vestiti con cui mi ero appoggiata sui corrimano della città più movimentata d’Italia: Milano. Avevo perso il contatto con realtà enormi, caotiche, piene, molteplici, in cui l’elemento architettonico sfida il cielo e lo smog ti sputa addosso. Appiedata, sei costretta a stare nella calca dei semafori, a tenere gli occhi aperti finché non hai attraversato la strada e devi tenerti pronto a subire l’intolleranza delle sciure di Monza che impatti involontariamente col sacco che ti pende mentre corri in stazione. Che belle le stazioni! I tunnel dove soffia la corrente del prossimo treno in arrivo, il puzzo delle pareti, le maledizioni della zingara a cui non rendi conto.

C’erano due donne sedute a distanza di sicurezza in metro, pressoché identiche: mezza età, alte, pantalone chino blu, capelli grigi corti che si poggiano sugli occhiali da vista e una blusa a coprire i fianchi, ai piedi tipicamente Saucony. Sono salite a Sesto come noi, chissà dove erano dirette, a risolvere quale commissione, a iniziare chissà quale turno…Nei pressi delle fermate del centro storico, il vagone accoglie alcune donne sui tacchi, il trench lungo e la mise da ufficio; gli uomini invece, indossano la camicia dentro i pantaloni e uno zaino con dentro un sapere informatico che non credo raggiungerò mai. Non troppo assorta nei pensieri, gettavo l’occhio alla linea delle fermate, immaginando come si possano sviluppare i quartieri in base alla percezione che se ne ha nell’immaginario collettivo: Duomo, Rogoredo (quello del parchetto dei drogati), Porta Venezia, che avvia Corso Buenos Aires, quello dello shopping.

Quanto mi sento ovattata nella mia tranquilla vita di provincia. A Parma riconosco già i volti dei riders e i nomi delle strade: i miei colleghi mi chiamano Google Maps. Ho avuto più tempo per coltivare un rapporto con la mia città, le sue misure, le sue condizioni, le sue regole tacite. La vita nei parchi si consuma una cacca di cane alla volta, mentre a Monza il parco è così grande da ospitare dentro l’autodromo! Quante vite servirebbero per riuscire a fare di ogni posto, un luogo familiare? Abbiamo chiesto ad alcuni poliziotti cosa fosse il palazzo di fronte a noi: un omone alto ci ha risposto con un inconfondibile accento siciliano: “Questo? Il tribunale è”. Il caos della città mi ha riportata dentro un turbinio di storie inconoscibili, che immagino però, molto simili tra loro. In fondo, stavamo tutti riprendendoci un po’ di normalità, solo con le mani consumate dal gel alcolico.

Lì in mezzo comunque, dicevo, ti senti scomparire. La città ti ingoia nel suo essere multidimensionale, sarà per questo che chi può permetterselo fugge al mare nel weekend. Chissà come deve essere sentire di avere finalmente due chiodi ai piedi e stop, stazionare. Ti crei una sorta di microcosmo che delimiti tu e ci metti dentro quello che ti fa stare bene. Lo coltivi ogni giorno, aspettando pazientemente il momento in cui il vicino aprirà la porta e sarà disposto a chiacchierare con te, così la volta dopo gli renderai il sale e quella dopo ancora magari, ci scappa il caffè. I miei vicini alle 5.30 del mattino passeggiano con i tacchi in casa e oggi, quelli di fronte passavano il taglia erba. Staziono qui da un po’, ma è proprio dura a volte risultare “confident”. Anche senza il caos della città. Il mio supermercato è confident, il mio parco, la ciclabile, il Ponte Caprazucca, Via La Spezia sono i miei luoghi confident a Parma. Li ho visti con le foglie gialle, la neve di gennaio, la pioggia di maggio e sotto il sole di questi giorni che sanno di addio. Quanto ho corso negli ultimi otto mesi!

Mi chiedevo allora, se la mia relazione con i luoghi potesse raccontare anche qualcosa delle altre relazioni, quelle più cinematografiche, con gli uomini per esempio. Se li affronto come si affronta il caos di Milano, o il perbenismo di Monza, o come provo giornalmente a scalfire la diffidenza di Parma. So che, ferma sulle strisce, le macchine frenano e ti lasciano passare, che a volte il clacson sfoga una frustrazione anche qui. So che ci si permea ai luoghi, che per sopravvivere devi adattarti e al contempo fare a gara per non perdere te stesso. Così, vince chi resta in piedi dopo aver cambiato pelle cento volte e cento volte è rimasto fedele a se stesso. Forse le relazioni sono come le tante dimensioni di una città: impossibili da decifrare, sporche, impari, ma anche solidali, capaci di ristorarti, e piene di posti in cui sederti per iniziare uno scambio. E’ facile perdersi, come pure lasciarle. Una settimana lì, tre mesi qui, un treno per ogni stazione e un mare verso cui scappare.

Padella, curcuma e ahahah

compleanno

Mi sono alzata felice di cucinare, questo è quanto. La storia si è svolta in modo molto semplice: ho messo gli ingredienti sul tavolo in modo da non dimenticare nulla e dieci minuti dopo i cookies erano in forno. Nel frattempo, mescolavo il latte con lo zucchero, la maizena e gli aromi, Spotify lanciava indie pop e arrivavano i messaggi. Poi sono arrivati Sami e Giorgia per aiutarmi a tagliare le verdure e la cucina si è accesa, diventando casa.

C’è una sottile ironia nel trascorrere del tempo sano e felice in casa, dopo che la casa a lungo ha rappresentato per tutti noi quando una prigione, quando l’eco preponderante dei nostri pensieri. Ma c’è una differenza sostanziale nel tempo di oggi: la casa è tornata ad essere il luogo dell’ospitalità. Ho trascorso il mio compleanno spadellando, insieme con l’antagonista per eccellenza della mia vita, il cibo. Il forno e i fornelli oggi, non erano solo gli accessori per soddisfare un bisogno, ma un mezzo per condividere spazio, momenti e ricordi da costruire. Attorno alla tavola si è adunato il piacere della buona compagnia e il mio desiderio ha incontrato il suo migliore soddisfacimento.

Questa notte, in uno dei pochi messaggi che ha colto l’occasione di buttare giù due parole per un augurio di buon compleanno, una cara amica mi ha ricordato che mentre molti si sono attanagliati sui fusti, io ho scelto il ramo esposto al vento in questo tempo avverso. Vero. Potevo stare tra le mie certezze, usare i codici conosciuti e svolgere i miei compiti soliti. Potevo scegliere di non rischiare la solitudine. Non ho mai avuto il dubbio però, che il vuoto di certi giorni qui fosse solo l’anticamera di un tempo nuovo. Ehi, c’è una piccola famiglia anche qui ora: nella bellezza di un abbraccio spontaneo rubato alla paura. Siamo sopravvissuti a una tempesta oltre la quale il sereno ha squarciato le nubi di primavera. Seria: se l’impossibilità del contatto è stato il prezzo da pagare, l’occasione di riprenderci il sublime dell’incontro non è andata persa.

Siamo diversi. Siamo distanti. Siamo irraggiungibili. Ciò che ci sembra sovrapponibile a noi, è solo il più prossimo dei diseguali. Per questo, mettersi insieme è una festa: perché abbiamo scavalcato un recinto dove è possibile danzare. Non sono felice perché è stato il mio giorno, ma perché è stato un giorno condiviso. Trovo che ci sia una straordinaria libertà nel volere porre fine anche all’euforia di un giorno. Forse è questo che vuol dire per me crescere: la mia più cara amica mi ha videochiamata dai corridoi di un ospedale, in un momento di quiete per poter condividere con me i più futili e veri pensieri. Un apprezzamento per il mio seno, un apprezzamento per il suo scrub, un apprezzamento per la nostra riscoperta volontà di non dare troppo senso alle cose e nella leggerezza raccoglierlo invece tutto. Siamo cresciute e diamo peso all’infinitesimale poco che fa di noi l’essere essenzialmente due qualunque donne pensanti.

Non avevo abbastanza forchette, così io ne ho presa una di plastica lavabile. Ho mangiato le fragole, che non avevo mai mangiato perché per lungo tempo ero rimasta ferma nella convinzione infondata che non mi piacessero. L’alcool mi smonta subito lo stomaco e non c’è troppa grazia nelle mie labbra truccate, se sto sorseggiando del vino. Chiunque poteva lavare i piatti e usare la mia stanza. Ho accolto festante tutti i miei zii al telefono pian piano vaccinati. Crescere è avere premura, pensiero, preoccupazione, riguardo. Crescere implica il rispetto per ciò che conta e la più totale relatività per un messaggio mancato. Non mi importa essere raggiunta, importa che io sia vista e che io veda.

Lo spazio per l’inaspettato non conosce formalità. Grazie e auguri, di cuore.

Cosa c’entro con la Giornata della Terra

giornata terra

Come ho celebrato oggi la Giornata della Terra?
Essendo giovedì, ho fatto la mia spesa di frutta e verdura nel mercatino sotto casa. Ho acquistato i prodotti delle aziende agricole locali. Nel pomeriggio, al termine della mia giornata, ho svolto il mio solito allenamento al parco, valorizzando ciò che la natura mi ha dato: arti, busto, glutei e ascelle da cui espellere tossine. Come non ho celebrato la Giornata della Terra oggi? Mi è arrivato un pacco Amazon, perché avevo effettuato degli ordini online. Evito se posso, ma non sempre riesco a rinunciare ai benefici degli acquisti facili.

Il discorso è complesso

La crisi ambientale è drammaticamente collegata alle nostre abitudini di consumo. Da quando vivo sola però, ho potuto più facilmente compiere delle scelte sul mio stile di vita: divenendo direttamente responsabile della raccolta differenziata casalinga mi sono accorta della quantità enorme di plastica che producevo pur essendo sola. Qui si espone il venerdì: allora, mi sono imposta di riempire un sacco solo una volta ogni due settimane. In città si imballa tutto.
Ho imparato a usare la bici anche con il gran freddo.
Evito i cibi precotti: cucino io! Ho scoperto di essere brava a fare i risotti.

Non compro quasi più la carne al supermercato (resistono pollo e tacchino). Tranquilla mamma, compenso con i legumi.
Guardo con sempre maggiore interesse all’usato.
Faccio lavaggi a freddo, o comunque a basse temperature.
Prima di questo però, ho praticamente esfoliato le mie tute (capo d’abbigliamento per eccellenza nel 20-21).

Non solo io

Ci sono moltissime altre pratiche evitabili o dannose che posso imparare a risolvere assumendo la sostenibilità come valore. Non sono un’attivista, non ho mai aderito a stili di vita precisi, e infine, non credo che le responsabilità individuali saranno definitivamente in grado di risollevare una catastrofica condizione del nostro ambiente. Occorrono anche, moltissime responsabilità collettive.

Tuttavia, non avrebbe alcun senso per me celebrare o lavorare all’interno di una redazione che studia, analizza e informa su queste problematiche, se tutto ciò non avesse dei risvolti pratici sulla mia vita.

Visitate Salgoalsud. Celebrate la Terra.
Rassodate i vostri culi al parco.

Case a strapiombo sull’acqua

Gibilmanna, appena dietro il Santuario, luogo di meditazione e unioni nuziali. Un addetto ripulisce il cortile del convento che un tempo fu borgata. Un tornio, le casupole, i fiori tutto intorno. Prendiamo il sentiero più veloce per raggiungere la pendice della montagna. Non c’è molto dislivello ma ho già il fiato corto. Sento freddo a tratti, il sole di aprile non convince ancora. A metà tragitto sono già sudata, ma l’aria è frizzante e decido di coprirmi. Tra gli arbusti si distingue a mala pena il viottolo oltre il quale è già precipizio. Si apre una larga veduta sulla Valle di Siro, abitata da un vigneto imponente. Appena oltre è Cefalù: fanno la sua figura la Rocca, il porto, e persino un paio di imbarcazioni appena a largo. Se abbasso lo sguardo trovo lavanda.

Le montagne ti proteggeranno

Le montagne separano una ad una le borgate della Madonie. Le conosciamo bene: sono i luoghi della vita. I paesi incastonati in quei lembi di terra curvi, alti, avvallati, scavati, immobili. Un tempo niente, poi tutto, poi di nuovo niente. Pollina, avamposto. San Mauro, dietro. Castelbuono, dilagante. Geraci, appena uno scorcio. Sono la vita a Est. Il cielo è pulito, nessuna foschia: così si distinguono persino le case di Lipari. Le Isole Eolie ci sono ancora, ci sono sempre. L’orizzonte disegnava una linea oltre Alicudi, che appare più vicina. Da quell’altezza si avverte quasi impercettibile che la Terra tende a tondeggiare. Riscendiamo. Scivola, ma non fino a terra. Ci sbilanciamo più volte, le pietre sono fini e tendono la trappola. Restiamo cauti. Non cadiamo.

Una storia del mare

Un gabbiano si abbassa veloce sul piazzale, le panchine sono vuote, tira vento di maestrale. Il mare è increspato, puoi sentirlo. Ma in fondo è fermo, nel complesso immobile. Non ho niente da dichiarare, ho solo un tempo per me. Per le coperte ad aprile e una tavola piena. Non ho niente da cercare. Le cialde per il caffè, le creme riposte in qualche ripiano dimenticato. Mi appoggio solamente per qualche giorno, neanche tiro fuori le pezze dalla valigia. Un gelato al bar, un saluto da lontano. Sei arrivata, sei ripartita. Giusto il tempo di raccogliere la biancheria caduta alla vacina mentre stendeva. Mi cala la corda, la sistemo sul gancio. Arrivederci, ciao. Ho ripulito la bici, ne aveva di polvere. Un po’ d’aria nelle gomme, sfacciandomi dal meccanico. Tempo di annunci e saluti, tempo denso, passo dopo passo sulla Statale, sul versante esposto alla corrente. Sorridono gli occhi. Qualcuno è stanco. Si osa progettare l’estate, tempo mistico, sospeso, agognato, indiscusso, sacro. Tempo che verrà. Tempo di andare. Casa tra le case a strapiombo sull’acqua.

Ma ve la immaginate la fine?

Si è alzato un gran vento anche qua. Mi dicono che è raro sulla bassa, eppure niente equinozio quest’anno. Una folata ha spezzato i petali degli alberi di pesco sotto casa e il cielo si è ingrigito. Tocca aspettare per celebrare la nuova stagione. Incautamente avevo osato tirare fuori la giacca in ecopelle che a conti fatti – tra cambiamenti climatici, restrizioni e ritorni verso sud – metterò un paio di settimane l’anno.

Pure l’armadio vive in attesa di un liberi tutti finale, la caduta del muro di Berlino, lo sbarco in Normandia, l’incontro di Teano, il trattato di Versailles, il ritorno a casa di Ulisse, insomma quel momento lì, quello simile all’esultanza di Grosso in Italia-Germania 2006, l’abbraccio di Pirlo a Cannavaro dopo l’ultimo rigore, l’ultima campanella di giugno a scuola. Come sarà quando sarà finita? Chi ce lo dirà? Da chi andremo?

Magari non ce ne accorgeremo neanche, butteremo via le mascherine e basta, senza nessun rito o esultanza. Ci diremo salvi con i traumi addosso o negheremo che sia finita. A un certo punto insomma, ci potremo permettere di non avere razionalmente nessuna paura. E scopriremo di averle comunque. Ci sarà per tutti quel parente o amico che ci dirà di non esagerare, ci sentiremo pure un po’ scemi, alienati, confusi. Invecchiati sicuro. I pub avranno un appeal diverso, prevedo un innalzamento dell’indice di acquisto per attrezzatura da montagna e camminata nordica, i più audaci si saranno dati all’alpinismo, compreremo una canoa e saremo disposti a portarla in spalla, pur di dare due bracciate lontano, verso l’orizzonte dove ogni libertà viene ricomposta, torna legittima, e il mondo accenna le sue forme tondeggianti. I rumori, quelli torneranno sicuro, quelle dannate auto a tutte le ore del giorno e della notte.

Rimpiangerò la campagna, la sua quiete un po’ povera, il suo spirito piatto, sempre disposta a rivoltare la terra di cui è fatta. Comprerò dei vestiti, perché ne avrò messi via altri. E non guarderò solo tute, ma oserò nuovi outfit e colori. Ci saranno molti treni, lo giuro. E forse un abbonamento al teatro, monologhi. Monologhi di donne attrici che mi piacciono. Le seguirò sui social. E poi andrò a sentirle dal vivo. Concerti pure, una band magari. Un indie strappalacrime per ricordarmi che non ho più vent’anni anche se sarò in mezzo a ventenni. Ah, poi voglio esagerare: troverò il lavoro che mi piace. Inizierò da stagista e poi mi farò valere, sì. Non sarà necessario coltivare più nessun sogno, perché sarò in perfetta armonia tra la realizzazione di me e il mio conto in banca.

Quanto al cibo, sentite, parliamoci chiaro: ma chi ce l’avrà il tempo di cinque pasti al giorno e di salvare tutti i post sulle idee per una colazione a dieta! Mangerò equilibrato, sostenibile e non comprerò carne al supermercato. Ma mangerò quello che mi pare e soffriggerò sedano, carote e cipolle a piacimento. Impasterò per il gusto di impastare, e devo assolutamente comprare uno sbattitore e un frullatore a immersione, perché altrimenti sei un sacco limitato. Non puoi essere sempre creativo. Serve una zona franca dall’estro, un posto per continuare ad annoiarmi. Tipo la coda. Ridatemi una sala d’attesa dove poter osservare la gente e le sue stranezze. Scambiarsi un sorriso d’intesa, attaccare bottone. Ma quand’è che avete attaccato bottone l’ultima volta?

Servirà una piazza. Sì, vi prego. Tocca farci un evento e che accorra molta gente curiosa. Una sagra, un sabato sera di quelli che almeno per due ore non prendi in mano il telefono. Se fai una storia ti taglio le mani! Stai qua, con me, guarda quello: ma perché porta le basette così? Avrà visto Bridgerton…Accenderò il pc solo quattro ore al giorno e piuttosto vado a fare capanne con i miei cugini piccoli. Giro di Sicilia, ma pure a piedi guarda. Datemi la Via Francigena e sarò Fidippide, solo che sarò l’ultima maratoneta. Se dobbiamo ringraziare la realtà aumentata, io voglio essere diminuita, voglio abbassare il volume, e giuro che ci sarà una serie solo se potrò comparire nei titoli di coda. Comparsa? No, autrice zì. Minimo, minimo racconterò storie senza pilot e senza conclusioni…

Farò una tournee. Sarò groupie di me stessa. La road map sarà segnata da ogni capolinea di treno (ma solo se mi sponsorizza Trenitalia). Farò un reportage e lo titolerò: fino alla fine dei binari. Gli ultimi saranno i primi e per ogni stazione chiederò a un passante: lei si sente più destinazione o partenza a vivere qui? Insomma, più immagino la fine, più prende la forma di nuovo inizio.

I miei pensieri alfa privativo

Si fa un sacco fatica a restare lucidi e proiettati su attività e obiettivi di questi tempi. Ci sentiamo tutti un po’ sospesi, in balia di condizioni esterne mutevoli, voci calate dall’alto, regole, assenza di programmi, figli per casa, e case che si svuotano. Decine e decine di annunci inondano le bacheche dei gruppi autogestiti a Parma. Gli inquilini lasciano le stanze, ma sembra che gli annunci restino appesi ad ammuffire anche nello spazio ingannevole di Facebook. Non c’è compravendita, non ci sono scambi, desideri, missioni, scadenze. Eppure, so per certo che non manca chi progetta. Lauree imminenti, chi sottoscrive assicurazioni, chi ringrazia di avere l’agenda piena di lavoro, chi prova a rendere concreta la sua idea di comunicazione.

Ci sembra che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente, che la pandemia abbia stravolto le carte in tavola, setacciamo le cose attraverso un prima e un dopo, ma così facendo sbagliamo focus. La pandemia ha solo tirato lo sciacquone di un cesso già otturato e finalmente ci siamo accorti della melma venuta a galla. Truce, lo so. Limiti, problemi, inquietudini c’erano anche prima. L’isolamento, le privazioni, le chiusure, la paura, la malattia, lo stato d’emergenza generale, la diffidenza, hanno solo scoperchiato tutto il sommerso. A quel punto, osservando quello che mi circonda, ascoltando gli amici, interagendo con le persone (attraverso un dannato schermo), mi sono accorta sostanzialmente che ci siamo divisi in due gruppi: chi annaspa o è rimasto invischiato e chi si è tappato il naso provando a nuotare.

Oh! Le frasi che ho sentito dire più spesso tra i miei contatti, non a caso, sono due: “a me in fondo è cambiato poco” oppure “non mi sento più lo stesso”. Insomma, qualcuno rigetta ancora il riflesso che questo tempo, come uno specchio, offre di sé. Altri invece, hanno intrapreso uno straordinario viaggio di ricerca. Un po’ come quando scopri di abitare la foto che qualcun altro ha scattato, immortalando un momento di te che altrimenti avresti perso. Oggi mi è stato restituito un frammento della mia storia che non sapevo di avere. Sono finita per caso nel grandangolo di una macchina fotografica, avevo tre anni e, provando a ricostruire il contesto, avrò accettato l’invito di mia zia ad andare a vedere il saggio di mio cugino più grande che suonava il flauto. C’è una bimba dagli occhi grandi e la frangia a coprire la fronte, seduta, da buona, tra i grandi. Sono io, contenuto speciale del film della mia infanzia, inedito. Si prova tenerezza di fronte alle parti bambine sé – “una specie di tenerezza tragica”, l’ha chiamata Anna – Sono io che manco a me stessa.

A strappar via i pezzi di storia comunque, siamo bravi anche da grandi. Ho sempre fretta, un bisogno spasmodico di saltare a conclusioni e leggere gli eventi nell’ordine e nel senso che vorrei. Senza concedermi l’agio dell’accoglienza. Entro a gamba tesa sulle cose, penso di conoscere già gli esiti, e non lascio spazio alla sorpresa. Sono i miei pensieri alfa privativo: quelli che negano o denotano assenza di senso. Perché è facile reputare sbagliato quello che altrimenti dovremmo conoscere. Non mi fido. Zero. Neanche di me stessa. Almeno fino ad ora. La musica (leggerissima) sta cambiando. Sarà per quell’esercizio che ormai da un anno faccio, di mettere in discussione ogni cosa e scrivere pezzi inediti della storia. Sarà che la prossima imminente zona rossa sarà battuta a suon di bibliografia e prato nei pressi di casa. Sarà che il sole, almeno, dovrebbe essere alleato, e ci sono i pensieri da dare e da ricevere a scaldare il cuore. Non ammattiremo neanche stavolta.

L’Università ha fallito. Chiedo i danni

Inizia un nuovo semestre di lezioni online. Di facce depixellizzate, tempi morti, suicidio della creatività, mi senti ti sento uh ci sentiamo, e palle che si fracassano al suolo. Non me lo meritavo.

La cosa veramente comica è che alla triennale ho fatto la telematica. Avevo i miei bei corsi con 18, 24, 42 videolezioni disponibili h24, gli incontri con i tutor su SkypeForBusiness e andavo in sede solo per gli esami. Quanto ho dovuto combattere il mio complesso di inferiorità verso colleghi e amici che facevano la “pubblica” e invece, ero una pioniera! L’e-learning: avanguardia pura! Frequentando scienze della comunicazione peraltro, l’ho anche studiato il “progetto per lo sviluppo e la realizzazione di ambienti di apprendimento aperti e flessibili” su cui si basa l’offerta formativa della mia vecchia università. HAMLET, un nome tanto evocativo quanto pertinente. Pensate, è stato sviluppato tra il 2000 e il 2005. Insomma, quando ancora ero convinta che il mondo finisse all’incrocio di via Dante poco sotto casa mia, altrove si sviluppava il mondo del sapere senza confini.

Lungi da me ogni forma di moralismo, anch’io skippavo le vdl, acceleravo la riproduzione e mi spartivo con i colleghi le trascrizioni da produrre per non dover marcire davanti a uno schermo. Mi sono annoiata certo, mi sono fatta una marea di sconti, come ogni studente che a un certo punto…si deve solo laureare. Ma ci sono stati dei momenti che conservo abbastanza gelosamente, per almeno due motivi: perché il sapere è permeato, mi ha reso parte di ciò che sono e perché lì dentro, tra i fiumi di parole che tengo ancora preziosissimi su drive, ho tessuto relazioni fortissime.

Almeno fatelo bene

Ed era solo una telematica. Nel 2020, complice una devastante pandemia mondiale, che mai, mai nessuno dovrebbe usare come attenuante per sgravarsi da una presa di coscienza necessaria, nell’era più mediatica di sempre, la società dell’informazione che pure formiamo, non è stata in grado di proporre un atterraggio morbido a migliaia di studenti, molti dei quali non sanno nemmeno di sentirsi persi.

Tante volte mi sono sentita disorientata, a un certo punto del mio percorso l’università l’ho proprio mollata. Non sapevo minimamente cosa desiderassi e della mia personalità non c’era traccia neanche su Netlog. Una sera, di ritorno da una brevissima trasferta a Roma, era notte fonda, l’autostrada scorreva sgombra e veloce e come sono solita fare in auto, lato passeggero, ho inoltrato gli occhi al cielo per uno di quei trip mentali in cui state certi, trovo soluzioni a più grandi conflitti di questo tempo. In quella pellicola cinematografica vivida, mi fu chiara una cosa: che dannata fortuna fosse potere studiare. Quanto fosse bello conoscere, capire e ritrovare tra le righe sapienti di un altro, gli stessi pensieri timidi che non avevi mai avuto il coraggio di fare ad alta voce.

Ci sono decine, forse centinaia di spiegazioni del perché l’Università si è arenata nell’anno più catastrofico della storia postmoderna. E sono tutte valide, ma era un veliero già vecchio al porto di partenza. Gonfio del suo prestigio, sicuro del valore della istituzione rappresentata, quando il sistema si è fermato – l’Università ha smesso di insegnare. La confusione, il panico, lo scoraggiamento, gli sbuffi al mattino, la pazienza infinita, tanto la buona volontà quanto il menefreghismo dei docenti, hanno qualcosa da rendere al sapere. Ci spieghino cosa non va per davvero – al di là dell’infrastruttura e delle connessioni a buon mercato. Ci raccontino di un approccio didattico che non ha vacillato nell’ultimo anno, di un adattamento attivo grazie al quale sono riusciti a interagire comunque con gli studenti, al di là della trasposizione tale e quale dell’orario di lezioni com’era prima.

E io pago

Perché com’era prima, non andava già bene. Sono in DAD da un anno, tre su quattro semestri della magistrale che ho iniziato a frequentare a settembre del 2019, si sono svolti online, che al momento significa solo che non si sono svolti affatto. La scorsa primavera, aperta la gabbia dopo il lockdown, ho scelto di lavorare per recuperare il denaro dell’affitto che ho continuato a pagare a vuoto per cinque mesi. Se avessi mollato l’appartamento, avrei compromesso la borsa di studio, la stessa che due anni fa fu condizione sine qua non per consentirmi di studiare fuori sede. La pandemia non ha compromesso la mia carriera universitaria, ho continuato a sostenere gli esami senza intoppi. In questi mesi, il mio rapporto con il sapere è tornato intimo e timido, come quella notte in auto. Non ho potuto tessere relazioni con nuovi docenti che pure, all’Università, servono come referenza. Non ho potuto approfondire nuove relazioni con nuovi colleghi, né frequentare gli spazi di studio che non hanno il potere osmotico di inculcare nozioni nel tuo cervello, ma usano l’adrenalina della sgambata in bici fino alla Biblioteca Paolotti, per tenerti sveglio nelle ore di studio a seguire.

Ci sentiamo così, derubati. E dopo 11 mesi non siamo ancora in grado di fare un discorso diverso da “Portate pazienza, arriverà la primavera”. Mi porto avanti, questa è la conta dei danni. Penso di avere il diritto di enuclearla, dato che nel frattempo ho solo gettato ami al mio futuro, senza smettere neanche per un attimo di credere che ne avrò uno. Meno incazzato spero.

Se tutto è un meme

Straordinario potere delle immagini. Bernie Sanders ha impiegato pochi attimi a fare il giro del mondo con le sue muffole marroni il giorno dell’inauguration day nella capitale Whashington.

Se ne stava seduto, sopito quasi, durante la manifestazione più importante dell’anno, con la proclamazione del nuovo presidente degli Stati Uniti da una parte e Lady Gaga vestita come un personaggio degli Hunger Games dall’altra. Abbiamo visto sfilare le personalità più vivaci a Capitol Hill, i più amati come Barack e Michelle Obama, personaggi che sono la storia d’America. Fra loro, anche un vecchietto con un pantalone casual e l’aria di chi non ha più nulla da dimostrare.

Almeno quattro buone ragioni hanno reso le gambe accavallate del vecchio Sanders memorabili: le spiega Annamaria Testa su Internazionale qui. Leggerle mi ha incuriosito rispetto alla densità di significato che può assumere una foto ritoccata nata per gioco. E’ questo un meme, no? L’estro creativo – a tratti geniale – di chi associa un evento a un prodotto culturale preesistente, facendolo rifiorire. Il meme è un’associazione libera comprensibile a quei pochi che possiedono la conoscenza sufficiente a riconoscere un significato di un universo culturale in relazione a un altro.

Meme è un’unità culturale di un sistema di comportamenti trasmesso da un individuo a un altro per imitazione. Così Treccani. In altre parole, il meme è un codice che si imprime nel nostro cervello perché idolatriamo qualcosa o qualcuno. La parole greca da cui meme deriva del resto, significa proprio questo: imitare. Diventa improvvisamente famoso, degno di restare lì e rievocare un elemento. Chi si scorda lo zio Michele di Avetrana? Lu tratturi. Perché l’unica condizione necessaria per un meme è la sua capacità di auto-replicarsi. Ecco, l’immagine che What’s App segnala come “Inoltrata molte volte” ha già fatto breccia sugli schermi di centinaia di utenti.

Subito. Qualsiasi cosa accada intorno a noi, c’è già una rielaborazione goliardica del tutto. Un rapido riesame che banalizza ogni cosa, persino la politica. Ma se tutto è ridicolizzato, cosa resta da prendere sul serio? Per un Bernie Sanders che apre a nuove narrazioni del capitalismo, ci sono almeno una decina di Zio Michele pronti a trasformare il noto complice di un omicidio, in una figura imperitura.

Quando arrivai a Palermo, dopo anni in provincia, un collega più grande mi disse: “Arrivare da una piccola realtà ti ha consegnato un certo modo di vedere le cose. Non perderlo. Non pensare che sia normale, ciò che normale non è. Non pensare che la munnizza per strada sia normale, o le macchine in doppia fila”. Se tutto è diventato memorabile, ridatemi un po’ di lucida normalità. Sopra le righe lasciamoci le note alte, le missioni spaziali, i maxi processi della giustizia, le pandemie.

Tutto il resto, lasciamo che sia noia o grande sbaglio, quotidiano ordinario, vita trasparente, innocua e salubre. Entusiasmi, virtù e amori. Errori, crimini, dolori. Giusto e sbagliato. Riprendiamoci quella preziosa arte che è criticare.

Queste mura anni Sessanta

anni sessanta

Plink…plink…plink. È quasi l’una e di prender sonno non se ne parla. Quel suono tremendo che si ficca nel cervello è il tifone della doccia che gocciola. Gocciola sempre, da quando vivo qui. Dopo la doccia lo riverso in una bacinella per raccogliere l’acqua e non farla perdere. Poi, la riutilizziamo per scaricare il water o pulire la vasca. Una vasca che usiamo solo come doccia, con lo smalto rovinato, aloni di ruggine e la rubinetteria invecchiata dal calcare. A muro ci sono piccole mattonelle con decorazioni simil romane. Ma di un bagno romano, non ha proprio nulla. Vivo tra le mura di una casa ammobiliata negli anni Sessanta da un anno e mezzo. È un trilocale spazioso, con il parquet in un paio di stanze; non in tutte, chissà perché…ma è rovinato anche quello.

Gli infissi sono in legno, i vetri sottili e le serrande grigie in plastica. Sopra, cassoni pieni di polvere. Le porte – anche quelle in legno – incorniciano il vetro opaco. Nel bagno, gli inquilini di un tempo, hanno aggiunto una striscia adesiva per il pudore dei primi tempi tra conviventi. Qua è là sono sparsi piccoli mobili traballanti. Ne ho preso uno per la mia stanza, mi serve per conservare la biancheria da notte, gli asciugamani puliti e il piano di sopra per riporre quello che nella minuscola libreria non entrava più. Pensili poco spessi, con ancora l’etichetta del mobilificio, così fragili che potrei spezzarli solo passando la pezza umida.

Ho una sorta di armadio fatiscente, con i cassetti rotti. Tre piccole ante – sono piccole davvero – conservano i vestiti per tre stagioni. Sapevo che qui non avrei mai portato l’estate. Ho messo insieme due letti per farne uno grande. Ma da quindici mesi dormo su un terzo della superficie, incassata tra i piumoni, due, per il freddo, garanzia di un sonno tranquillo. Se non fosse per quel plink. Il bagno comunque, resta l’ambiente peggiore. Abbiamo comprato una tenda da doccia moderna, con una fantasia a righe totalmente dissonante dal resto dell’arredo. A un chiodo è appesa ancora una mattonella dipinta di blu che mi ricorda un vecchio atelier sul mare. Accanto alla vasca, sta un vecchio mobiletto marcio nella parte inferiore. Abbiamo provato a sollevarlo, spostarlo, avremmo voluto sbarazzarcene, ma a ogni tentativo sembrava crollarci tra le mani.

Così, abbiamo rinunciato. Siamo di passaggio, abbiamo stipulato un compromesso, più che un contratto. Tutto sommato, l’affitto non è caro, quindi ci accolliamo questa decadente dimora. C’ era un tempo in cui le stanze per studenti andavano a ruba. Ho personalizzato poco. C’è una poltrona nella mia stanza, utile come terra di mezzo per i vestiti che si possono rimettere anche il giorno dopo. In velluto beige, goffa, ingombrante, massiccia. Qualche ritocco nel tempo è stato fatto. Il piano cottura, ad esempio, ha l’accensione elettronica. C’è persino un microonde.

Un vecchio divano biposto a muro e un tavolo in legno con i cassetti e un buco centrale per il mattarello, arredano la cucina. Le sedie hanno le gambe sottili e la stessa mano che dipinse quella mattonella del bagno, ha rivivacizzato anche gli schienali. Da tempo, coltivo un desiderio improprio: nel silenzio della notte, dove accadono le cose che sono impossibili da realizzare alla luce del giorno, vorrei riversare dell’acqua in balcone, un po’ di sgrassatore e spazzare via unto e polvere con una vecchia scopa. Poi, sarà tempo di semi e terra, piante colorate e con un po’ di fortuna prezzemolo e basilico.

Qui ho imparato a discernere un po’ di me nel futuro. Vorrei due case un giorno, una fissa, piccola, rispettosa dell’ambiente, comoda, con i confort minimi, sul pendio di una montagnola o vicino al mare. Dinanzi uno spazio, meglio due: un piccolo giardino per i pomodori e uno sprazzo per le cene d’estate. So che sarà dove già è il mio posto, il mio mare. Poi, una mobile che sarà ovunque, altrove. Ovunque io desideri, là starò: fra le mura di una casa solide, in cui nessuno avrà riversato scarti inutili e offensivi. Ci metterò la frutta del mercato rionale e uno schiaccianoci. Farò la differenziata e per profumare mi farò consigliare da qualcuno. Per pulire, basterà solo l’acqua e una spazzola. Avrò un armadio per tutte le stagioni e nessun filo di polvere pendente.

Quanto in grande bisogna pensare per realizzare una casa piccola?

Annus horribilis

annus horribilis

Niente a confronto con il 2020 della Regina Elisabetta che tra la Megxit e lo scandalo Epstein alla veneranda età di 94 anni chiude un’annata nefasta. Che sia stato un anno di merda è notorio, non serve neanche ribadire le innumerevoli ragioni che tutt’oggi mi regalano fantastici sogni in cui ho paura di stringere la mano alla gente.Quindi, sarà più catartico ripercorrere una manciata di motivi per cui, nonostante tutto, posso dire che è stato bello esserci stata in questo annus horribilis.

A gennaio ho sottoscritto un abbonamento per la palestra e ci sono pure andata. Il miglior ricordo che conservo di quei bui pomeriggi in bici per raggiungere via Rapallo, è l’odore di grissini appena sfornati davanti alla fabbrica Pandea e una tabella che indicava 3 gradi centigradi netti. Percepiti nessuno, perché non avevo sensibilità tattile. Ne è rimasto un vaucher del valore complessivo di 77 giorni di ingressi da spendere entro maggio 2021. Ahaha!

A febbraio ho condotto la mia prima intervista dal vivo. Ero a Parma, ma ho dichiarato di trovarci a Palermo.

A marzo sono finita in quarantena per 20 giorni ma non avevo il Covid. Avevo però la vista sul mare e una bottiglia di vino che papà mi aveva lasciato dietro la porta.

Ad aprile ho aperto il mio blog, questo blog, e ho giurato a me stessa che non sarebbe stato un anno vano. Anche perché ho temuto il peggio per la mia salute mentale quando mi sono arrampicata sul tetto del terrazzo di casa e ho salutato energicamente i vicini due strade più su.

A maggio ho compiuto 28 anni e ho realizzato che avrei trascorso un’intera estate in paese, come non mi succedeva da anni. Poi, ho realizzato che avrei trascorso un’intera estate in paese…

A giugno mi sono improvvisata regista, podista e assaggiatrice di arancine in favore di camera. Ho iniziato a lavorare sodo per un progetto che non sapevo dove mi avrebbe portata. Per sicurezza, ho comunque sperimentato la schiarita naturale ai capelli…salvo buttarmi a mare dopo la piega. Perché sono così io, fruciuna.

A luglio mi sono tatuata un’ Araba fenice sulla schiena, ho avuto una vertigine su un albero ma ero imbracata, quindi non fu un brivido vero.

Ad agosto ho celebrato l’amicizia, quella di sempre e quella appena nata fra le mura in pietra troppo spesse di un vecchio pub. Ho passato tanto tempo sola tra gli scogli e il mare. Ho avuto paura, ho tenuto il fiato sospeso per ore e poi ho respirato di nuovo.

A settembre ho finto fosse ancora estate e ho remato a largo su una canoa biposto, con tanta incoscienza ma soprattutto mettendo a repentaglio la vita della mia amica Martina che non so perché mi ha assecondata in quello strano modo di restare a galla. Poi ho ripreso il microfono, stavolta ero nel posto giusto, al momento giusto e non ho mai sbagliato coordinate.

A ottobre ho accettato un invito a pranzo che non volevo accettare e tra il tofu e una strana cameriera stressata per le norme di contenimento, ho realizzato quanta vita era stata rimandata fino ad allora.

A novembre ho risalito la vetta di una montagna dell’Appennino tosco-emiliano, anche se credevo che non ce l’avrei fatta. Non è che ora posso dire che basta crederci, perché ho odiato la retorica della mia coscienza anche quel giorno, e mi sono maledetta continuamente per quell’impresa. La morale di quel giorno in montagna è che devi fare il cazzo che ti pare sempre, anche se poi te ne penti.

A dicembre ho scoperto di non soffrire più il freddo.

Le parole, questo Natale, me le ha suggerite il mare

mare natale

La mia lettera di Natale quest’anno è rivolta al mare. Babbo Natale è inflazionato, Gesù Bambino non mi sembra il caso di gravarlo di troppe responsabilità, al primo gemito. Il mare invece, è grande abbastanza per contenere dubbi, desideri, paure e gioie. Sa elaborare tutte le emozioni: si arrabbia, si stende, si colora (non è depresso), va e viene ma non è bipolare. Ha la sua motoria coerenza.

Insomma, caro mare…

Quest’anno vorrei che ti facessi grande per raccogliere tutto l’indefinito dei mesi appena trascorsi. Quello che non abbiamo saputo dove mettere, quello che abbiamo fermato, che è stato abortito, a cui abbiamo rinunciato, che abbiamo visto ridimensionato o del tutto sacrificato, vorrei lo prendessi in consegna e che ti tenessi pronto a restituircelo come sai fare tu, che riporti a riva ciò che in te non muore mai.

Vorrei che ti facessi bassa marea per chi è con l’acqua al collo. Adesso che sappiamo davvero cosa vogliamo quando invochiamo un sereno Natale e un Felice anno nuovo, ti chiedo di non cancellare i segni di questa scoperta. Che possa rimanerci ben impresso questo gran casino in cui siamo finiti.

Onestamente, era difficile anche gli altri anni gestire giornate come queste, che hanno il potere di sottolineare le mancanze e marcare a fuoco i limiti e le incomprensioni. Non ci serviva un’ aggravante. L’unica rima collettiva è la grande opera di castrazione sociale in corso. Natale ha solo complicato le cose: ha reso manifesto il nostro pregiudizio di conferma. Più ci viene detto cosa non fare, più ci incaponiamo nel farlo. Chiamaci stronzi…

Ma tant’è…Quando questo Grande Fratello finirà, dovremo fare i conti con le conseguenze di mesi instabili e irrequieti. Per cui, fin da ora, ti chiedo di non farti troppo mosso quando affolleremo le tue rive in cerca di iodio da respirare dopo tutta l’anidride carbonica che inaliamo usando le mascherine.

Se dovessimo dimenticarci come si nuota, non disperdere le boe a largo. Le boe servono per girarci intorno quando abbiamo raggiunto l’apice delle nostre trasformazioni e siamo pronti a lasciarci alle spalle la parte difficile del percorso per raggiungere finalmente il prossimo punto di arrivo. Anche se – penso – mi acciambellerò al sole finché autunno non ci separi.

Vorrei che portassi il tuo senso di libertà alle mie amiche donne, tutte, indistintamente. Noi, di libertà, abbiamo più bisogno di altri, perché partiamo svantaggiate. Mi accontento di continuare a tenere gli occhi aperti tanto così nei futuri ambienti di lavoro, per non essere sovrastata dalla consuetudine manipolatoria maschia, pur di avere in cambio la certezza che fiancheggiando le tue rive, ciascuna di noi intraveda la possibilità di riflettere interamente se stessa così com’è.

Mi preme un pensiero anche per i miei amici uomini. Che siano determinati come le onde che si infrangono sugli scogli: nelle scelte, nelle parole e per carità, nei sentimenti.

Francamente, sarebbe banale chiederti di inondare Palazzo Chigi, così da provvedere a un cambio di Governo. Ci proviamo da anni, ma la sensazione è sempre più quella di scavare un fosso che non smette di trovare profondità. Inizio a pensare che il vero problema non sta lì, e che forse siamo noi un po’ minchioni. Io so che la calma piatta della tua superficie di questi giorni, in combutta con il sole, è un piacevole inganno. Che stai combattendo la temperie dell’inverno come noi combattiamo la temperie culturale di questo secolo.

So che non sei attrezzato per invertire la rotta della polarizzazione dei media, per l’avvento delle tecnologie che favoriscono la diffusione virale delle stronzate, e per la disinformazione. Tuttavia, potresti sempre ospitare il bagno di umiltà e buon senso di chi fa un uso improprio dei mezzi.

Nonostante il disgusto che spesso mi abita, vorrei tanto che tutto questo finisse. Che le cose della vita possiamo tornare a misurarle per intensità: ridere, sputacchiare, litigare, condividere una cena, stare chiusi in una stanza, per Dio, persino ballare.

Senti, sul vaccino non dico nulla. E neanche per me ho troppe pretese. Ho comprato un libro che sa di scommessa e una collana che fa da promemoria, per i giorni in cui scordo di volermi bene. Anche se – lo ammetto – ti ho anche fotografato mentre eri nudo, e la sabbia conservava l’umido dell’ultima mareggiata. Non avere fretta di rivestirti, di tornare al tuo ruolo naturale. Sii amante indiscreto, travolgente. Sorreggi questo splendido tradimento di cui io e te, in silenzio, sappiamo godere.

Ci vediamo nei singhiozzi di tempo che ci è concesso.

Sempre tua.

Neve in Val Padana e gravidi pensieri

Ho chiesto alla mia coinquilina di Trento come la facesse sentire la neve, lei che la conosce. <<Come a te il sole, Sofi>>.

Il sole illumina, scalda – ho pensato ad alta voce – mi sembra che renda le giornate più piene. Anche la neve è così secondo lei. Finito di sciacquare la tazza della colazione, la poggia sul ripiano del lavandino a scolare, prende il canovaccio e incalza alle mie spalle, mentre cerco risposte oltre il vetro della cucina – fuori un tappeto bianco e gli alberi spogli. <<La neve è bella, guardala, non è come la pioggia, la pioggia fa schifo>>.

Credo che la neve sia semplicemente straordinaria. E non mi stupisce tutto questo clamore attorno, compreso il mio. La neve è un pretesto: per buttare un occhio al calendario e accorgersi che solo due mesi fa ero altrove, sentivo altre cose e i miei pensieri si accordavano a un coro diverso. Bauman dice che la costruzione dell’identità non è un processo cumulativo, piuttosto sembra un succedersi di nuovi inizi, ed è guidata dalla capacità di dimenticare, più che da quella di apprendere e memorizzare. Così, ciò che ho acquisito – a quanto pare – è solo temporaneo.

E oggi sono in un altro processo. Ad affrancarmi dalle videochiamate pressanti e deprivanti di questo tempo (non le sopporto più). A reggere con fatica lo sguardo di chi, come me, non sa che succederà dopo la concessione di un Natale in famiglia. Se sarà possibile programmare un rientro o se passeranno mesi come l’ultima volta. Se tra presente e futuro, toccherà ancora coniugare al tempo attendere. Neanche la neve mi ha restituito risposte, nonostante la sua straordinaria normalità.

Mentre facevo la ciaspolata per strada, avendo cura di non rompermi la faccia scivolando sul ghiaccio, mi riscoprivo nuova ancora una volta: così esperta di sole e luccichii sulla superficie del mare, mi ritrovo a selezionare outfit per l’inverno sconosciuto, rispolverando vecchi cappelli di lana e nuove sciarpe avvolgenti che sono incredibilmente calde e pertinenti a questo clima di città padana. Sullo stradello imbiancato ho trovato però un riflesso di paura accanto allo stupore. L’ho guardata in faccia sopraggiungere insieme all’abbondanza dei pensieri nuovi. E ho capito che siamo tutti parzialmente dislocati nel nostro qui e ora a convivere con la nostra personalità temporanea. La mia è gravida di pensieri, così gravida da non trovare abbastanza spazio nel mio ventre piccolo. E questo può essere destabilizzante o doloroso, o entrambi.

In ogni risata c’è una debole eco di paura. La speranza è che vi sia un accenno di riso in ogni moto di orrore.

Zygmunt Bauman

Chi non si sente insicuro in questo momento, del resto? Più progrediamo, più siamo sopraffatti da nuove insicurezze, è il prezzo da pagare per una vita in mutamento costante. Mi faccio domande sul mio lavoro, sull’esito dei miei studi, sulla pertinenza delle mie scelte e l’incertezza appare come l’unica certezza in una condizione che stranamente non è asfissiante, solo perché ho fede in me stessa. A torto o a ragione, non lo so. Ma una carezza (o una fetta di pandoro, o un cappotto nuovo) servono a ricordarmi che c’ero tutte le volte che ho sepolto identità defunte di morte naturale (o procurata). Ed è un bene scoprire di essere più liberi di quanto si pensasse di essere.

Doppio quesito (e abbozzi di risposta)

1. Claudio Marchisio con un post prende una posizione netta rispetto al caso della #maestra di Torino. Condanna decisa al gesto dell’ex fidanzato, che ha commesso un reato (revenge porn). Perché diventa notiziabile il post dell’ex calciatore della Juventus e della Nazionale? Perché il calcio è l’ambiente machista per eccellenza e una posizione chiara da quegli ambienti è necessaria. Ma attendo ancora che qualche giornale lo metta in evidenza.

2. Questa mattina il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha condannato (repostandolo su Facebook) il fotomontaggio che Priamo Bocchi (sempre su Facebook) aveva pubblicato, raffigurante un sedere mostrato in risposta alla discussione in Consiglio Comunale su una mozione contro le discriminazioni di genere e le violenze legate al sesso. Bocchi è il coordinatore di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, a Parma. E si è dimesso questa mattina (silurato verosimilmente da FdI), prima o dopo o durante – poco importa -, aver definito la sua idea un “esercizio di satira politica”. Il fotomontaggio pubblicato da Bocchi, che non è in Consiglio comunale, poi è stato rimosso. Gesto incommentabile, personaggio politico dubbio, ma ancora una domanda mi assilla: se togliessimo Facebook dall’equazione che riassume gli eventi, ci sarebbe un fatto increscioso di cui discutere? Sul piano dell’utilizzo dei propri profili social, non c’è appartenenza politica che tenga: l’ analfabetismo digitale è imperante.

Il video hot, la camminata della vergogna e due domande da farci

video maestra

Torino, 2018. Una ragazza di 22 anni, maestra d’asilo, intraprende una storia d’amore con un ragazzo. In un gioco sexy, invia immagini di nudo al compagno, e un video hot. Lui li condivide con i compagni di calcetto. Il materiale finisce tra le mani della moglie di uno di loro, che riconosce la donna in quanto maestra del figlio. È scandalo. Il video viene diffuso sui telefoni delle altre mamme e — stando alle accuse della Procura — una di loro arriva a minacciare la ventiduenne di mettere al corrente la direttrice scolastica se avesse sporto denuncia contro l’ex fidanzato. La maestra  non si lascia intimorire e presenta querela. La direttrice e la moglie «spiona» finiscono a processo per diffamazione. Nei guai anche l’ex fidanzato infedele, che ha potuto accedere alla messa alla prova: un anno di lavori socialmente utili.

WALK OF SHAME

Se dopo una serata finisci a casa di lui, si trascorre una notte di passione, il mattino seguente bisognerà pur tornare a darsi un tono prima di andare a lavoro. Specie se indossi ancora i tacchi dell’outfit da sera. Così, la strada verso casa, diventa la camminata della vergogna, pensi che tutti ti guardino e intuiscano dall’aspetto come hai trascorso le ore passate. E provi vergogna, anche se nessuno sta veramente facendo caso a te. 

Un’immagine topica, se vogliamo, rilanciata peraltro da uno dei personaggi femminili più amati degli ultimi anni: Cercei Lannister, protagonista del Trono di Spade. Punita dall’autorità religiosa di Approdo del Re, è costretta ad attraversare la città sotto gli insulti dei cittadini, sfinita e privata della sua femminilità, lercia e umiliata. La vicenda di Torino offre la versione virtuale dello stesso processo. Tralasciando il solito goliardico atto di imbecillità mascolina per cui se sei partecipe dell’intimità di quella che dovrebbe essere la tua donna, per qualche strana ragione, senti il desiderio di condividerne un pezzo con gli amici di merenda, si assiste poi all’azione di un tribunale tutt’altro che silenzioso: una donna colpevole di aver vissuto liberamente la sua sessualità, viene beffeggiata, giudicata e minacciata da altre donne, che la ritengono immorale nell’adempimento del suo ruolo di educatrice. L’autoritas, rappresentata dalla Direttrice Scolastica, donna anch’essa, interviene con il licenziamento, e la beffa: la pubblica denuncia del misfatto. E scommetto che c’è un esercito di donne là fuori pronte a dichiararsi d’accordo. Ma cosa si sta crocifiggendo? Perché l’espressione di un piacere diventa condanna? Il giudizio inferto ha veramente a che fare con il suo ruolo di insegnante?

Se fossi madre preferirei che mio figlio venisse educato da una persona libera dalle ragnatele costruite attorno all’identità dell’umano, piegato al dovere e alla sacralità, senza mai concedere spazio al desiderio. Nel frattempo, c’è una ragazza di 22 anni che ha affrontato due e più tribunali, uno dei quali però, alla fine, le ha restituito giustizia. Quanto questo le sia costato, sarebbe la suggestione da tenere bene a mente.

DUE DOMANDE DA FARCI

E tra le innumerevoli sfaccettature che la vicenda offre come spunti di riflessione (revenge porn, odio di genere, squilibri di potere: la vita sessuale di un dipendente che non infrange alcuna legge, è motivo sufficiente per deciderne l’allontanamento dal posto di lavoro?), sono due le domande che oggi mi pongo:

  1. Non sarebbe anche ora di riconoscere il problema atavico e primordiale che la nostra società ha con la sessualità
  2. L’uso degli strumenti tecnologici per la condivisione di materiale privato non è sicuro perché rimane fuori dal nostro controllo. La maestra non è colpevole di essersi concessa un gioco sessuale, ma paga l’ingenuità di averlo trasmesso in rete. L’uso della tecnologia e dei social network hanno dei rischi, occorre una nuova educazione digitale, lo abbiamo compreso?

Fisico & Politico

Fisico & Politico

Ero in debito di una storia. Del racconto di un tempo perfetto: questo sono state le settimane della campagna elettorale in paese da me. Tremila abitanti, il mare, il bosco, tetti e campanili. Cibo buono e odore di pulito, più macchine del necessario, alcuni motori elaborati di troppo, un gergo stretto, a tratti selvaggio e occhi disincantati. La gente. Trame contrapposte ma legate dal filo dell’appartenenza.

Cosa si insinua silenziosamente dietro lo scroscio di un applauso? Me lo sono chiesta per settimane, alla fine di ogni comizio, di ogni serata consumata al tavolo di un bar, mentre distendevamo la tensione per l’impegno che ci eravamo presi.

I ragazzi staccano da lavoro, bevono una birra, salutano la propria fidanzata. Lei si poggia sul petto di lui, che fuma una sigaretta anche se il cielo è nuvoloso e talvolta, pioviggina. Una volta rimasti tra noi, possiamo sorridere o ridere prepotentemente per tutte le cazzate che abbiamo ascoltato fino a quel momento.

Visioni distorte e visioni sopite, rinvigorite da un nuovo pretesto: le elezioni. Alle 11 puntuale il bando dell’ambulante si confonde con le musiche prescelte che capeggiano l’auto che annuncia il comizio: “Questa sera…” – è una voce determinata, a tratti esasperata. Un’altra si sovrappone, stavolta dall’auto si riproduce una canzonetta presuntuosa, retorica quantomai, “Viva la libertà…” – dice. E un tono pulito come quello degli annunci della pubblicità locale in un cinema di provincia, ripete: “Questa sera…”

E quella sera poi, la barista arriva con la scopa e inizia a pulire tutto intorno il marciapiede del bar. Si ferma a commentare l’ultimo intervento ascoltato in piazza, e quando le chiedi di dire qualcosa su di noi, sorvola. Spazza rumorosamente anche la strada ed il messaggio è chiaro: dobbiamo levare le tende. Saluto gli altri, sapendo che il giorno dopo il copione si sarebbe ripetuto ancora, identico.

Al bar siamo stati continuamente, per fare il punto, per rilassarci, per comunicarci le cose importanti con gli occhi. Un codice sconosciuto, che si decifra seguendo le idee che abbiamo scritto, riscritto, e sottoposto all’attenzione di tanti per anni, per almeno dieci anni, da quando – appena diciottenne – facevo panini con la salsiccia e a fine manifestazione mi rendevo conto di non aver fatto panini e basta; era stato buttato un seme da qualche parte, rimasto invisibile, insignificante nel tempo. Quando portavo a bordo della mia auto un gruppo di ragazzi spagnoli venuti fin qui per parlare di riciclo, anche allora stavo seminando.

Le elezioni in un paese come il mio sono le scenario ideale per la trama di un nuovo romanzo kafkiano: l’assurdo e l’incomprensibile delle situazioni in cui viene a trovarsi l’esistenza umana si dispiegano in un ritrovato quotidiano vivace e allegro. Personaggi noti e meno noti, poggiati al palo appena fuori il perimetro della piazza, ascoltano, sorridono, i più audaci registrano come se l’esibizionismo non fosse già insito nei palcoscenici in onda. Il diffidente si allontana prima che la musica segni la fine della manifestazione, lo ritrovi poco dopo su Facebook, a ingarbugliare un commento volutamente ambiguo. Lo scrutatore non votante – direbbe Bersani.

Non sceglie fino alla fine, quando si sarà fidato della sua pancia e avrà individuato il nome da scrivere. Torna a casa indisturbato. Poche ore dopo sarà deluso, nella peggiore delle ipotesi, se la compagine prescelta ha perso; oppure sorriderà su un solo lato della bocca, che vincere piace a tutti. Non so cosa si provi, in realtà: da quando ho facoltà di voto, ho sempre preso una delle parti. Non potrei votare e basta, a Pollina. Sarebbe quantomeno riduttivo: ci si perde il bello a non partecipare. La strategia, il gioco, la tattica. E ci si accolla anche il brutto, gli sbagli, gli alti e bassi di un umore da spogliatoio che deve saper leggere i vantaggi e le difficoltà della squadra.

Alcuni comizi si sono consumati sotto un cielo che minacciava la pioggia. Una sera, a Pollina, avrebbe potuto incarnarsi di fianco a me Pirandello richiamato dal clima impietosamente angoscioso e talora paradossale in cui ero finita. Alti e bassi. Azzardi e ritirate. Silenzi e, meno spesso, parole. Questo ho imparato. Se c’è una cosa che alla gente non serve quando si fa politica, sono le parole. Men che meno se urlate, sputate nel solito porcaio che diventano le campagne elettorali. La gente desidera spazio, visibilità. Le loro cause personali diventano merce per un baratto. Sono le loro storie a porsi al centro dell’attenzione, tesi che peraltro non chiedono mai risposte, piuttosto considerazione.

Mentre si dispiegava la trama della mia gente, tessevo anche le mie narrazioni personali. Le campagne elettorali sono esperienza d’amicizia. Sperimenti la via breve per la fedeltà a un compagno, impari a conoscerlo in fretta, ad apprezzarlo, a custodirne la motivazione che lo ha spinto lì, dove sei anche tu adesso. In campo si scende con forti alleati, storici, fidati, simili, pezzi della tua vita e con nuovi volti che si prendono tutto lo spazio rimasto. Insieme. Perché a vincere le battaglie è chi le comprende meglio.

Il mio blog da un Insight

il mio blog da un insight

Ci sono diverse ragioni per cui mi ritrovo a scrivere su un sito web che porta il mio nome.

  1. Partiamo dalla più ovvia. Ero stufa di regalare i miei contenuti a Facebook o Instagram. Amo i social (almeno il loro potenziale buono), ma amo ancora di più gli spazi che hanno memoria. I social sono tardi, favoriscono l’oblio, corrono veloci, troppo, e svuotano di senso ogni cosa che ci finisce dentro.
  2. Non so se una epidemia globale è il momento migliore per far nascere qualcosa, ma sicuramente so che è rimasta una linea molto sottile a dividere il mio spirito vitale dal baratro della tristezza, e questa linea, spezzata, aperta e spigolosa, vuole essere generativa.
  3. Qualcuno crede in me e nel mio progetto. Ho impiegato diversi anni a distinguere il modo in cui gli altri mi guardano da quello in cui io guardo me stessa. Ero solita perdermi nella loro idea di me, senza badare alle incongruenze che sapevo benissimo ci fossero. E ci sono ancora. Ma adesso quello scambio è possibile e mi riempie il cuore.
  4. Sono unica. Non nel senso di fantastica o inimitabile, sono semplicemente non replicabile. E mi occorre un luogo dove esprimere i miei tratti; così ho comprato casa con annesso garage – come mi spiegano dal reparto informatica – ed è in corso un trasloco. Invero, porto poche cose essenziali: le mie idee. Uno spirito critico che osserva alcune cose e ne ignora altre, ma per questo ho portato con me anche la curiosità e qualora servisse, la tolleranza. Ho la consapevolezza di non piacere a tutti, di essere utile anche a meno. Ma ho ego a sufficienza per stare sulla piazza.

A questo punto vale la pena spendere due parole sull’arredo scelto per il mio blog. Un insight è un’intuizione, la percezione netta di qualcosa dentro o fuori di me. Ha a che fare con consapevolezze ed emozioni, in generale con i movimenti che facciamo. Le forti limitazioni di queste settimane, unitamente all’ idea sempre più indefinita di futuro, mi provocano grande tristezza. Mestizia, ma non come quando ci si acquatta sul letto con ripresa della telecamera dall’alto e colori grigi. La mia tristezza è così subdola da inchiodarmi al vuoto mentre sto per abbassarmi per uno squat durante il mio allenamento giornaliero. Gli occhi si riempiono di lacrime, la vista si appanna, poi respiri, un piccione sbatte sulla tettoia e ti riconnetti bruscamente nel qui e ora.

In quel momento, l’incauta scelta della playlist Hit Italiane compiuta precedentemente, ti spara il ritornello di #E mi sono innamorata ma di tuo marito# e il Cristiano Malgioglio dentro di me si sprigiona, inizio ad ancheggiare, addirittura incrocio i passi come avrei voluto fare da sempre su una pista ed esulto gettando le mie lunghe braccia bianche all’aria, perché wow, il mondo va a rotoli ed io apro un blog. L’intuizione quindi, è oggi questa indecente compresenza della mia collera con la mia grande voglia di fare a modo mio.

Adesso non resta che visitare tutte le stanze. Fatevi un giro, sentitevi liberi di toccare e fatemi sapere che ve ne pare. C’è ancora qualcosa da sistemare, ma non ho fretta.

Benvenuti!