Non si parla abbastanza di guarigione

L’armadio della mia stanza in città è rotto. Lo è sempre stato, da ben prima che arrivassi disperatamente e scegliessi quella stanza perché era l’unica disponibile in una folle ricerca di un alloggio in un tempo folle scollato dalla realtà delle persone. Non è solo rotto, è proprio fragile, scarso, esile, leggero che un soffio di vento provocherebbe crepe sul pannello multistrato di betulla che non è altro.

Ha fatto il suo dovere per tre anni tuttavia, e del resto, avrei potuto comprarne uno nuovo e rivenderlo al prossimo inquilino quando quella stanza non sarà più la mia. Non l’ho fatto, perché l’assetto provvisorio della mia sistemazione è sempre stato l’onesto riflesso di un animo impegnato a cercarsi e guarirsi. Così, ho rivestito la vecchia poltrona in velluto, ho comprato una fragranza al bergamotto con bacchette di legno e presto, una lampada da terra che possa creare un’adeguata luce soffusa quando non è ancora notte, ma neanche più giorno.

Fa tutto parte di un processo. Negli ultimi mesi non sono mancate trasformazioni e le conseguenti ferite di chi scopre di essersi contaminato. La paura è come un insetto che impollina un fiore sempre diverso per trarne nutrimento. Si sposta. Molti sono passati dall’avere paura del virus, e così hanno cercato di evitarlo (restiamo a casa), alla paura di averlo contratto (mi faccio un tampone per sicurezza). D’accordo che la disperazione muove il mondo, ma a volte basterebbe darsi tempo per sanare un dolore. Anche le mie paure spostano il loro oggetto. Anche io ho avvertito a lungo il terrore che un’onda di diversità e alterità mi avesse contaminata in modo irreversibile. E in effetti, era accaduto.

Più riconoscevo nuovi aspetti della persona che stavo diventando, più crescevano i sintomi: la solitudine, la noia, la maleducazione, la tachicardia per un calice di troppo, interminabili nottate con l’addome gonfio e tante mattine di stitichezza. Poi ho compreso che la solitudine era il sentimento più conveniente per non affrontare la mia chiusura all’altro, che la noia era il paracadute della mia improduttività, e la maleducazione una palestra necessaria a un carattere forgiato ma non ancora collaudato. Certi altri sintomi – sono convinta – non mi abbandoneranno mai, sono un monito necessario a ricordarmi che lasciare andare ha un prezzo.

Guarire comporta fatica, dolore, costi. Ma anche comprensione, lenta accettazione e fioriture. Servono coraggio e amor proprio, rispetto infinito per le proprie crepe. Chi è ferito fatica anche a distinguere i soccorritori. Quello che mi spaventa ancora tanto, oggi, è la possibilità di tornare a essere invisibile. Ho capito che è molto improbabile che qualcuno possa colpirti intenzionalmente, spesso le parole sono l’esito improprio di una disabilità, un giudizio, una punta affilata che l’armato non sa neanche di aver uscito dal fodero. È più facile che siano i tuoi schemi a interpretare gravemente certe incursioni. Insomma, la partita più difficile è difenderci dagli inganni della propria testa, facendocela complice.

Sussurrando le verità, indirizzando lo sguardo nello sguardo nitido dell’altro. I miei amici mi hanno fatto dei regali. Le mie amiche mi hanno portato dei fiori. Sono stati scelti libri e gioielli per il mio essere donna e il mio essere e basta. Ho festeggiato in molti modi, tranne in quello che avevo previsto, perché chi è in via di guarigione ha bisogno di soccorritori, cerotti, garze e riposo. Non so se ho trasmesso loro la mia gratitudine, mi imbarazzo, abbasso gli occhi, sorrido irrigidendo gli zigomi e biascico dei grazie che sono rotti, ma sono i migliori in circolazione.

Grazie over the top.

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