Lampade da terra

lampade da terra

Sono entrati molti oggetti in questa casa, da quando ci ho portato dentro le cose della mia vita. Nel pavimento della camera da letto c’è ancora un angolo con un paio di scatole che non ho svuotato. Contengono cianfrusaglie accumulate in 18 mesi a Roma e roba nuova per sostituire quelle che si consumano, come le spugne da doccia – che ahimè, uso ancora – non avendo trovato una valida alternativa.

E prima di altri, quando non sapevo ancora bene come avrei disposto certi mobili in soggiorno, è entrata una lampada da terra, con doppio lume, uno fisso verso l’alto, e l’altro orientabile in più direzioni, più forte e intenso, adatto alla lettura o alle foto quando tento di sembrare pensierosa sui miei social. Atemporali, eterne, senza l’esigenza di seguire correnti architettoniche. Oggetti di Design che conservano un fascino costante. Color argento, minimal, non ho avuto grandi dubbi a sceglierla, mi serviva.

Mi tiene compagnia ogni sera da quasi cinque mesi ormai, mentre ceno, mentre sbrigo la burocrazia al pc, mentre scrollo Tik Tok, mentre leggo il libro mantra di questo ultimo periodo fitto ma tedioso. Se la spengo, è ora di andare a letto. Se la accendo, è arrivato il momento della giornata in cui mi riconnetto a me stessa, allo spazio che ho scelto per me, ai pensieri scroscianti come ruscelli nei boschi del centro Italia. E anche quando fa giorno, quella lampada rimane al suo posto, a presidiare l’angolo preferito di casa, il divano un po’ letto, un po’ scrivania, un po’ tavolo e un po’ ripiano, a volte, attaccapanni e persino poltronissima, quella sera che casa era piena di colleghi.

Essenziale. Come nel gioco, le regole. Fa luce quanto basta e quando serve – per tutto questo primo inverno, che per me doveva essere un inizio, e invece si è rivelato solo un prolungamento faticoso. Me ne sono accorta qualche giorno fa, nel pomeriggio di un mercoledì qualunque, mentre camminavo lungo Via Alessandro di Torlonia, in direzione Piazza Bologna, per raggiungere lo studio del mio medico di base, che avevo scelto per comodità, ai tempi, sotto casa. Così, ci sono tornata dopo un bel po’ in quel pezzo di città che mi ha reso le cose facili all’inizio, così viva e centrale, piena di tutti quei servizi utili, come l’estetista, il supermercato, il bar, l’edicola, la farmacia, e la metro, nel raggio di 200 metri. Le avevo provate tutte, le pizze a taglio di zona. E avevo smesso di usare il navigatore, da quelle parti. Maps è la misura del conosciuto, e dove non ti serve il navigatore a Roma, sei a casa. Vale anche per chi a Roma è cresciuto!

Mi è servito, come la mia lampada, a vedere chiaro che cosa era successo nel frattempo. Quelle sono state anche le strade e le case da cui allontanarmi il prima possibile, perché non aderivano più alle mie esigenze, evolute in poco tempo. Abitazioni vecchie e fatiscenti, appartamenti condivisi, regole non scelte e persone inabitabili. Così ho scelto un altro CAP, ben diverso, nel quadrante opposto, dove riscrivere un pezzo di storia per me. Perciò, ho caricato tutto sul furgone di Giammarco, sono salita a bordo anche io e abbiamo imboccato la tangenziale in direzione ovest. L’ho licenziato con 50 euro e una stretta di mano, perché avevo fretta di chiudere la porta.

Tuttavia, non è bastato a risolvere. Il cambiamento è un processo. Ha un inizio cieco e inconsapevole, prende campo da qualche parte e ti muove – poco a poco – dal punto in cui eri verso quello che non conosci ancora. Mi fanno notare alcuni amici, che il mio dire spesso ha pretesa di universalità. Forse un po’ hanno ragione. Non è presunzione, è quel dannato esercizio costante ad ascoltare, osservare, sentire le viscere, usare l’intuito e tenere sempre alte le difese. Se è come dico, allora, non c’è nulla da rimettere in discussione. Ma questo non mi salva dalle trappole. Non lo ha fatto quando i 16 metri quadrati di una stanza mi sembravano la scelta migliore per me, e invece sono diventati una prigione. Non lo ha fatto quando mi sono fidata di una, due, forse tre nuove conoscenze che irrompevano nella mia vita con forza, battendo i pugni per avere la mia attenzione. E poi, mi hanno scartata.

Com’è naturale che accada, quando si incrociano storie e caratteri. Il fascino dell’altro risiede proprio nel suo potenziale iniziale: rivelarsi in qualsiasi modo. Chiunque esso sia, infine, appare. Quale impatto avrà avuto nel frattempo sulla tua vita?
Irriverenti, sarcastici, dolci. Ma senza coraggio.
Pragmatici, brillanti e forti. Ma senza altruismo.
In ciascuno di questi aspetti, e in ogni momento, c’ero anche io. Non faccio mai eccezione. Più volte di quanto crediamo, l’altro siamo noi. E vestirne i panni è scomodo.
Siamo lampade da terra.

La isla bonita

C’è un’autostrada che percorre in circolo l’intera isola, come se fosse il grande raccordo anulare, a Gran Canaria. E ci sono centinaia di auto noleggiate da chi atterra all’aereoporto da mezza Europa, che risalgono la GP1 verso Nord, in direzione Las Palmas, la capitale, o verso Sud, nelle terre desertiche della rinomata Maspalomas. Ai lati si alternano zone commerciali e rurali, qualche multinazionale e molte piccole imprese del posto, forse nate dall’intuito di chi tra una fornitura e un servizio, ha scelto 27 gradi tutto l’anno per vivere.

Non lo so, a dire il vero, se la temperatura è davvero così stabile. Una barista cubana, cresciuta in Italia, e trasferita da otto anni nella più grande delle isole Canarie, ci ha raccontato che da giugno a inizio settembre i gradi diventano 40°-45°, e nei giorni di scirocco la percezione del calore è intollerabile e i termometri segnano 50°. Lo ha confermato anche la donna che gestisce un ristoro a San Aguimés, veneta, sposata con un canario da 23 anni. Si è stufata – dice – durante la sua pausa pranzo, mentre mangia paella, il piatto che propongono la domenica, ma la madre, che adesso è in pensione, ha scelto di trascorrerla lì, tra la sabbia e il fragore dell’oceano. A pochi passi, la spiaggia di San Aguilà ci aveva regalato frescura all’ombra delle foglie di palma e un’acqua fresca e pulita, nonostante le onde irruenti. Era l’ultimo di sette giorni in giro per l’isola, insieme con la mia amica Martina, fedele compagna di viaggio, esperta autista su strade che hanno almeno tre corsie, sensibile e amorevole gattara, e giudice spietata delle papas arrugadas.

Era il giorno della “saudage”, ma non mi sentivo triste per la fine del viaggio, o per il ritorno alle mie attività. Sentivo di avere dato, di avere preso, e che ogni chilometro dalle gomme della nostra Peugeot 208 ibrida fosse stato consumato con giustezza. E anche freni, frizioni e acceleratori. Abbiamo portato noi stesse in un’avventura continua e costante, potrei dire. Mi piacciono le avventure, molto più di quanto voglia ammettere, come quella durante la tratta di ritorno dal faro di Punta de Sardinas. Il navigatore ci aveva condotte sullo sterrato ma la strada a un certo punto finiva, lasciando spazio a fossi e fango. Nessuna segnaletica e nessun orizzonte – che è il colmo su un’isola – solo casupole di cemento e lo strapiombo sul mare. E’ stato buffo in quel momento ridurci al silenzio, calare il volume di Los40, e ricominciare dal nostro intuito – che uno in vacanza, delega un po’ tutto alla leggerezza, si solleva dall’obbligo di sapere sempre che cosa fare, finché non deve togliersi da un guaio.

Siamo tornate incolumi al nostro appartamento di Agaete, squisito borgo a nord dell’isola, il porto prescelto per salpare verso Tenerife e la località delle più suggestive piscinas naturales. Sono rimasta colpita, a tratti stordita, dalle possibili sfaccettature e incastri della natura: come una barriera posta all’oceano possa diventare un tranquillo bagno e come una lastra di marmo possa essere incastonata tra le rocce per diventare un balcone appeso sul vuoto, a destra e sinistra la montagna, sotto la scogliera, e tutto intorno vento, vento, vento. Abbiamo giocato, a Gran Canaria. Eravamo felici di essere lì, così ci siamo prestate alle pose più finte, pur di incastrarci anche noi su quelle rocce.

Potrei dire ancora che Las Palmas non ha nulla da invidiare alle nostre città costiere, che a Galdar è stato bello perdersi un pomeriggio, dopo aver trascorso diverse ore seminudi sulla spiaggia, noi, quella coppia anziana che faceva su e giù camminando, alcuni ragazzi con il loro cane e una donna magra e muscolosa, con le cuffie a filo e la visiera. Potrei dire anche dell’uomo da cui ho comprato alcuni souvenir a Mogàn, io intenta a prelevare per l’ennesima volta il portafoglio dalla tasca più recondita del mio zaino e lui a porgermi lusinghe che non percepivo, per via dello spagnolo. Martina allora, ha richiamato la mia attenzione, spiegandomi che l’uomo stava chiedendomi il numero. Ho voltato allora il mio sguardo su di lui, sorridente e speranzoso, e rigida come una colonna romana, tra tutte le opzioni di risposta, ho scelto di stringergli la mano. Il mio modo singolare per dire <<grazie, no, non dispiacerti però, non ritengo ammissibile per la mia persona emotivamente instabile una tale lusinga>> si è completamente frantumato il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, quando sono entrata in un market sperduto su un pezzo dimenticato di litorale. Varcato il primo corridoio alla ricerca di un panino da imbottire, mi imbatto – pur nel vuoto silenzioso di quella bottega buia – in un ragazzo superlativamente bello. Era ingessato dietro il banco dei salumi, alto, dalle spalle larghe e due braccia importanti, così classica la sua bellezza da sembrarmi impossibile che fosse lì, nel market di San Aguilà, ad affettare mortadella spagnola di domenica mattina.

Avrei voluto dirglielo, “sei bello” e forse sono stata pure sul punto di farlo, salvo sentirmi impropria. E timida. E stupida. E tuttavia, piena. La isla bonita ha visto poi monoliti, burroni, centri commerciali d’intrattenimento, feste sulla spiaggia, musica spagnoleggiante, parcheggi a pagamento, bungalow, pessimi caffè, ottime tapas, tanta crema solare, una quasi insolazione, un nuovo cappello, modi nuovi di conoscere Martina, la mia ansia preventiva per il trasloco che sarebbe arrivato, foto, pose, coloriti della pelle, l’ultima paella, decine di distrazioni, granelli di sabbia e vista sulle dune. Un ritorno, un ricordo, un abbraccio. Momenti di incomprensione e la più bella sintonia con me stessa, al contempo. Andateci, alle Canarie.

Giocare, a quest’età

giocare

Pare che il caldo anomalo di questi primi giorni di giugno lascerà il posto a una forte tendenza temporalesca a breve. La goccia fredda sarà un toccasana per i miei parziali equilibri corporei, impegnati a non cedere allo svenimento di un’estate in città da trascorrere con un lavoro full-time. Se ci mettiamo che la città in questione è Roma, il quadro si complica.

Roma incontenibile

Vivo nella capitale da due mesi, un tempo abbastanza lungo per comprendere che Roma non si può contenere: le possibilità d’azione che offre sono tante da sembrare illimitate e così tante da rendere necessaria una scelta, costante, su come gestire il mio tempo. La linea urbana 168 per esempio, è l’unico modo per rientrare a casa da lavoro prendendo un solo mezzo, ma anche quella che richiede un’ora o più per compiere il tragitto, quando il tram e un passo svelto mi consentono di essere sotto il getto della doccia dopo 40 minuti. Lo stesso lasso di tempo al mattino è l’unico che riesco a dedicare alle notizie del giorno, della settimana, alle cose del mondo che sembrano essersi dissolte nel mio quotidiano, come un ghiacciolo dimenticato fuori dal congelatore.

Il tempo è un concetto estremamente relativo.

Ne sanno qualcosa i miei fianchi, la pancetta ormai inarrestabile, la buccia d’arancia sulle mie gambe che meritano di più, ma non sono prioritarie. Tantomeno, lo diventano il venerdì sera, quando mi legittimo a staccare l’interruttore e mi nascondo dai nauseanti input delle stories degli altri su Instagram. Cene fuori e spiagge. I più intraprendenti vanno ai concerti, da qualche settimana poi, matrimoni ovunque. Invidiabile. Ieri, per tenere fede a un appuntamento per bere qualcosa con un amico ho bisticciato tra me e me per un’ora, prima di costringermi a raggiungerlo, nonostante il sonno. Ho fatto bene però, perché rimanere connessi con il mondo è l’unico modo per conoscere, di riflesso, chi siamo. Un buon motivo per fare qualcosa è ascoltare quanta voglia abbiamo di farla. Sono andata a prendere qualcosa da bere con un amico perché mi andava e non ho raggiunto il centro in bici come avevo ipotizzato di fare perché non ne avevo voglia.

Come la guerra la primavera

I ponti possono essere trascorsi a macinare una serie TV senza che nessun capoluogo di provincia si offenda per la mia assenza. Al mare? Quando mi depilerò e mi sentirò pronta a non badare alle mie forme. In fondo, la guerra è finita solo pochi mesi fa e tutto intorno è ancora un campo di battaglia. I grandi cambiamenti infatti, sono simili alle battaglie: richiedono una enorme accelerazione e di affrontare i propri limiti, compiere molte scelte in poco tempo, restare lucido e valutare nell’arco di venti giorni in quale zona della città prendere casa, se condividerla, quanto spendere, quali vincoli, quali vantaggi, quali rischi.

Nuove storie

E dopo, solo dopo la firma sul contratto, passato lo straccio pure sui muri che nessuno puliva da anni, compiuta la trasferta all’Ikea per acquistare ciò che non sapevi essere essenziale, un conto prosciugato, 30 anni suonati, e l’imperversare della stagione delle allergie, apri gli occhi la mattina e sei ancora viva, non ti sei fermata neanche un secondo, neanche un pianterello, non ti sei voltata indietro, non sei scappata e puoi vedere ora i tuoi giorni prendere forma, le persone iniziano ad avere volti, alcuni ti piacciono, altri no. Non basta dare un nome alle strade, alcune le riconoscerai per quell’aiuola gigante, per le mura di Porta Pia, o per la strettoia prima di arrivare sulla Salaria, il supermercato cento metri prima di Piazzale Ungheria ti ricorda dove devi scendere. Sul tram c’è sempre più spazio rispetto al 360, alla fermata di Lega Lombarda c’è una famiglia di ispanici che si muove verso Villa Borghese. Parlano velocemente, i toni sono alti, sorridono tra di loro; a volte, “mamà” è in ritardo e quella che presumo sia la figlia urla dalla banchina qualcosa che somiglia a “corri”. E quella corre. Non hanno mai perso un bus.

Tetti

La vista privilegiata di un ottavo piano ha di buono che dei palazzi ti si mostrano soprattutto tetti e mansarde. Delle case degli altri invidio però l’arredo di chi è lì non di passaggio. I mobili accennati di un soggiorno, una cornice d’argento, il televisore sui programmi quiz prima di cena sono segni inconfondibili della vita di chi possiede una dimora, vi risiede stabilmente e in un futuro lontano o vicino che sia, lascerà quella casa a un erede. Invecchiano così i palazzi, con le storie di chi ci vive dentro. Con l’afa anomala di questo lungo ponte ho bramato un terrazzo chiuso a cinta da piante e fronde, un tavolo, delle poltrone da esterni, le luci tutte intorno come ho visto solo sui tetti di Roma. Pensiamo gli spazi perché possano essere condivisi e li condividiamo per non sentirci soli. Si va a vivere insieme per contenere le spese, ma anche per trovare almeno un volto quando si torna la sera. E chi va a vivere da solo, si assicura che ci sia un divano-letto da aprire all’occorrenza.

Viste

Io non ho ancora abbastanza spazio neanche per i contenitori della differenziata, perciò non faccio testo, ma a Roma neanche la differenziata fa testo. Che dolore! Nel suo essere incontenibile, soprattutto le infrazioni non fanno eccezione. Accanto ai cassonetti trovi i tavoli di un ristorante e decine di persone dormono sui cartoni nei pressi delle metropolitane. Le stazioni hanno un doppio volto sempre: sorgono hub di ultima generazione tutto intorno, pieni di finestre a vetri e sui marciapiedi formicolano decine di perdigiorno, mascalzoni o solo poveracci. Forse, la metafora della città eterna è vera anche per quello che non è monumentale, forse è soprattutto chi ci sta a credere eterne queste strade, queste mura, e con esse le sue contraddizioni. Ho ancora un approccio timido a tutto questo, come se non mi riguardasse, come se fossi ospite qui e non avessi invece scelto di starci. Ho creduto fosse meglio rimanere trasparenti per un po’, ora però, mi sembra di avere in mano le chiavi di una porta da aprire. Non devo chiedere il permesso: quel poco che ho preso, è mio, senza ombra di dubbio.

Possibilità

Mio il lavoro, la stanza, miei i collegamenti fino a Settebagni, se serve. Miei sono i sì e i no, giocare, trovarmi e ritrovarmi in pensieri che non avevo mai fatto finora: voglio una casa con un balcone terrazzo e mobili che non siano degli anni ’60, persone ragionevoli a cui sottoporre un’istanza, un dialogo aperto sulle opzioni possibili, tenendo conto della possibilità di incontrare chi voglia fotterti, alleati e solitudini, paranoici e inflessibili, ma anche complici e compagni di pranzi o merende. Serve tempo, ma anche una domenica a letto, saltare la lezione di inglese almeno una volta, cucinare le polpette al sugo e non cucinare per giorni. Serve assecondarsi, per conoscersi, un intuito di cui fidarsi e tradirsi, a volte. Tradire le mie convinzioni, dare spazio al dolore che prova chi non riesce a darsi come vorrebbe, ascoltarlo fino a quello che sembrerà un altro colpo di teatro, ma non sarà stato scritto da un getto creativo della mia penna, non succederà per caso: sarà stato seminato con fatica, come ogni guerra è destinata a concludersi con la rinascita.

Un nuovo indirizzo a Roma

l'indirizzo ce l'ho

Ieri al parco – mentre i pollini congestionavano le mie vie respiratorie – a pochi metri da me scrivente, una donna anziana seduta su una panchina, parlava. Non c’era alcuna altra presenza umana o animale a cui potessi presumere si rivolgesse, non c’era un telefono all’orecchio, né auricolari. Posso dire con ostinata certezza che parlasse sola, ma sarebbe solo la mia verità. Avrà avuto il suo interlocutore, reale o fittizio o entrambi. Ho deciso di dare per buona anche la sua verità, in fondo, cosa poteva esserci di tanto diverso da me che appuntavo pensieri confusi su un taccuino?

Fine di questo prologo.

In queste intense settimane di preparativi ed enormi cambiamenti, ho avuto pure la fortuna di trovare dei giorni per decomprimere, qui, in quella che è stata la mia casa negli ultimi tre anni e che adesso sto lasciando (vado a Roma), compiendo dei piccoli riti di addio. Alcuni necessari, altri assolutamente superflui. Quando condividi l’appartamento con altre persone e impari a sentire tuo quel luogo, spazzarlo, arieggiarlo, ripulirlo, aggiustarne gli inevitabili segni di uso, diventa naturale a prescindere dagli obblighi contrattuali. Ora, il tema degli affitti è controverso, da qualsiasi lato lo si guardi: che tu sia il proprietario di un immobile da cui decidi di trarre profitto, o l’inquilino che per definizione è transitorio e dunque hai esigenze specifiche ma vivi anche un’insopprimibile condanna al compromesso. Non si può avere tutto se si decide di andare in affitto, altrimenti compreresti. E questa è la prima cosa che sento di aver compreso.

Nella mia esperienza, tutto sommato, le cose sono andate bene, direi, nella norma. Quando cercavo una sistemazione a Parma, dopo dodici notti in B&b e quattro ospite da un’amica, rispondevo tanto agli annunci sui gruppi Facebook, quanto a quelli sui siti dedicati: funzionano. Questo è un secondo suggerimento. Allora non avevo particolari esigenze e accettai la prima soluzione che mi si presentò: era settembre, arrivavamo in molti in città per studiare e la società non aveva ancora conosciuto la pandemia. Pianificando il mio trasferimento per un nuovo affitto a Roma, le coordinate sono state ben diverse. Sono diversa io: la prima cosa che ho sentito di chiarire a me stessa allora, è stato il mio desiderio, poi l’ho abbinato alle mie possibilità, e infine, ne ho tratto un compromesso. Prendere molte piccole decisioni e tutte in fretta, allena il senso pratico ma aumenta anche il rischio di “pijare na sola” – per addentrarci nel clima capitale.

Perché mi segna così tanto questo tema affitti?

Non sono la prima, non sono la sola, non sarò l’ultima. Ma sono anche una grande egocentrica del cazzo, perciò allego di seguito alcune ponderate (e meno ponderate) cose che ho vissuto e compreso:

  1. L’affitto non c’entra assolutamente niente. Se vai in affitto, stai per apportare un qualche cambiamento significativo nella tua vita, fosse anche solo il bisogno di ripensare il tuo spazio quotidiano. E questo spaventa. Spostarsi implica una messa in discussione del vecchio che viene così riconsiderato alla luce di nuove esigenze, nuovi modi di essere, un nuovo te.
  2. Lo sgombero obbliga a riportare alla memoria cose che avevi accantonato, rivelandosi adesso soprattutto inutili, per quanto tenere o importanti siano state. Così i ricordi hanno smesso di avere un solido legame con il presente, fosse anche solo per il bisogno che sento di alleggerirmi. I ricordi spesso sono persone, adesso nel loro nudo significato: quando le esperienze volgono al termine, ne comprendi il senso più profondo. A non mutare è l’affetto, immateriale e per fortuna, tascabile. A un certo punto prevale la voglia di costruire nuovi ricordi con quelle persone, o lasciarle lì, nel cerchio più distante da te. E va bene.
  3. Una fottuta paura di quello che sarà è solo camuffata dalle tante cose da fare, ma c’è, è lì e ti corrode se non la lasci venire fuori. Dirsi spaventati e dare un nome a quella paura è faticoso, ti mette spalle al muro e fa da contrasto al tuo enorme e puro desiderio di vita che in fondo, a quel cambiamento ti ha portato. Ho voluto un nuovo lavoro, una vita altrove e a un livello più complesso, come complessa è una grande città. Ma mi sto cagando addosso, it’s true.
  4. I costi riflettono spesso un significato simbolico. E quando si va in affitto, i costi sono sempre alti. C’è una prima silurata di denaro che serve a garantirti e che tu garantisca, ci sono molteplici spese, non sempre contenibili. Non è facile dare valore a quello che stai acquisendo, essendo all’inizio di un’esperienza che porterà frutto – se tutto va bene – solo tra un po’. Non sono fatalista: non penso che tutto andrà bene perché è più comodo pensarlo rispetto al contrario. Penso che dipenda da me fino a un certo punto, entro il quale bisogna spendersi, dare, impegnarsi, mostrarsi e dare respiro al proprio ostinato percorso. I soldi vanno e vengono (ok, vanno soprattutto), ma sono fatti per modellare i passaggi di vita e corroborarti rispetto alle difficoltà. Sono solo la misura. Questo lo sento ancora vero nonostante il periodo critico economicamente che stiamo vivendo e di cui si iniziano a vedere gli effetti.

Dov’è l’Italia

Ci sarebbero poi tutte le questioni relative legate al fatto che la regolamentazione degli affitti non è univoca, non è scontata e non è, soprattutto, il riflesso della società che muta: i fuori sede restano imbrigliati nella frammentata burocrazia regionale, che pensa l’Italia a porzioni, forse più facile da gestire, ma anche scoordinata rispetto al mercato della formazione e del lavoro che invece è capitalizzato e per definizione, stretto nei confini: posso lavorare e studiare ovunque, ma non ho le stesse agevolazioni del mio territorio di residenza. Posso allora spostare la mia identità civica, ma richiede un tempo che non combacia con i tempi del precariato. Perché l’Italia non è ancora una? Posso tentare di sfidare l’entropia che è connaturata a questa realtà, ma ci sarà sempre un inghippo burocratico a ricondurre al disordine.

Una prospettiva da correggere

Ho un’araba fenice tatuata sulla schiena. Ho scelto di farla quando avevo incontrato e sperimento il desiderio, la morte, la rinascita. Cambiamo quando mandiamo a morire ciò che non sentiamo più vero e determinante; nasciamo quando relativizziamo le nostre certezze e abbandoniamo ogni possibile definizione, lasciando che ciò che vogliamo prenda parola. Non siamo soli in questo meccanismo vitale: siamo limitati a noi stessi, ma lasciamo che la porosità dei nostri confini ci avvicini all’altro. Si chiamano relazioni e magari non sono una esperta sul tema o lo sono a modo mio, ma anche a riguardo qualcosa vado capendo ultimamente. Ho vagabondato di recente, succede quando passi da una vecchia casa a una nuova. Sono stata ospitata e accolta, ho potuto chiamare casa la casa di altri. Questo mi commuove e al contempo, mi rende grata. C’è una bellezza unica nell’amicizia, a volte mi sfugge, poi d’un tratto, ritorna nitida: è lo spazio in cui prendersi e lasciarsi senza esaurirsi, stimolarsi e competere, rendere possibile e godibile il confronto, giocare alla pari, fidarsi dello sguardo dell’altro, quando il nostro si mette nella prospettiva peggiore. Ci si arrabbia e ci si inganna. Senza cattiveria, né egoismi: solo inciampi. Prospettive da correggere.

Pronostico della finale di Sanremo

Sanremo

Come finirà Sanremo lo sapremo stanotte verso l’una e mezza. Qua si divaga su quello che è stato e perciò sarà.

Insomma, stasera il televoto incoronerà Mahmood e Blanco, senza molte sorprese, Morandi a furor di popolo salirà sul podio per secondo ed Elisa si classificherà terza, invero senza fatica né assi nella manica (come lo è stato Jovanotti per Morandi). E questa sarà stata la gara, che poi finisce sempre per passare in secondo piano durante la settimana di Sanremo che non è solo un concorso canoro, ma uno show, con regole, imprevisti e un enorme peso istituzionale.

La saga di Amadeus a Sanremo

Aveva vacillato ultimamente, forzando la comicità dei suoi super ospiti (me lo ricordo quante polemiche su Crozza, Benigni e compagnia). La saga di Amadeus pareva essere destinata alla riproposizione maniacale della retorica dell’amicizia che ci aveva stufato fin da principio, due anni fa. Quest’anno se l’è scrollata di dosso quanto basta per restituirci una scaletta scorrevole, e gli abbiamo perdonato pure i 25 cantanti in gara – di alcuni avremmo fatto volentieri a meno. Ma c’è una insolita insistenza da parte del direttore artistico su questi concetti qua: la musica e l’amicizia. Quest’anno sono sembrati meno stucchevoli e sono diventati ogni giorno più credibili. 

Oltre la paura

L’ha detto Sabrina Ferilli oggi in conferenza stampa: ognuno porta sul palco quello che è. Sarà che di palco sentivano un po’ tutti la mancanza, sarà che i baci, gli abbracci, i duetti a un palmo dal naso ricordano immagini d’altri tempi, sarà che non c’era più una paura da esorcizzare e così, è rimasto solo l’accordo emotivo che ognuno ricerca su quel palco. Come se, sprovvisti di rabbia, ansie e – ultimamente anche di pudori – tutti, conduttore, co-conduttrici, cantanti e ospiti,  non hanno potuto fare altro che offrire uno bello spettacolo. 

Premio della critica a Truppi?

La leggerezza si è presa quasi tutto lo spazio, ci ha distratti dalla canzone di Giovanni Truppi, che torneremo ad ascoltare puntualmente domani, magari in cuffia, per capire perché “Tuo padre, mia madre, Lucia” ha meritato il Premio della Critica. Tuttavia, non sarebbe Sanremo senza qualche flop. La matrice, a volerci pensare, è la stessa: l’emozione. Dieci milioni di italiani assistono alla kermesse, twittano, commentano, elaborano esilaranti meme da puntellare nell’immaginario collettivo; ognuno sceglie il proprio aforismo, fa il tifo, televota (in Rai fa ancora con l’sms e si pagano 0,51 cent).

Sanremo: i flop

Perché…perché Sanremo è uno di quei momenti in cui le anime vibrano all’unisono, diventa un rito e si sedimenta come cultura. Non fa male, è innocuo, non ha a che fare con certe narrazioni tossiche che contaminano il cervello se cambi canale. Ciò non basta a renderlo educativo, altrimenti…altrimenti distingueremmo l’ironia da uno sberleffo e avremmo evitato di assistere alla derisione di Gianluca Grignani, un’artista in evidente difficoltà umana. Praticamente, il vero flop è stato il pubblico.

Messaggi universali

C’è da dire poi, che del buffet accettiamo tutti la varietà, ma gira che ti rigira prendiamo sempre il crudités, «perché non lo mangio mai». Francamente, delle polemiche del giorno dopo non ce ne frega niente: Sanremo ha i minuti contati e, in questa settimana, ognuno si prende quello che desidera. A me, per esempio, è piaciuta Noemi, perché «Ti amo non te lo so dire» ha messo insieme due o tre pensieri che per ora mi rivoltano da dentro. Ho adorato Drusilla Foer perché le parole inclusive sono quelle universali, perché essere rappresentativi significa saper parlare a tutti, perché la libertà non conosce conservazione ma è la costante e continua riformulazione di se stessi.

Sanremo sul divano

Mi è piaciuta la freschezza artistica dei cantanti, il fascino da pubere di Matteo Romano, la dannazione di Moro, la poesia di Elisa, il dolore urlato di Irama che racconta la separazione, il concentrato Indie che LRDL ha portato sul palco chiamando Cosmo, Ginevra e Margherita Vicario. I costumi di Michele Bravi e i suoi teneri, indulgenti versi. Mi è piaciuto poter condividere le serate insieme a chi poteva filtrare lo stesso racconto in modo completamente diverso dal mio, per finire comunque a cantare debolmente insieme durante l’omaggio a Battiato e sentirsi liberi di commuoversi un po’ al risuonare di quelle parole che parevano averci letto il cuore: «Amarti è credere che…che quello che sarò, sarà con te».

Il Fantasanremo influenza le performance degli artisti in gara all’Ariston

Un game per divertirsi con gli amici durante la settimana di Sanremo ma anche qualcosa di più: il Fantasanremo determina alcuni gesti dei cantanti in gara. Ecco come un media influenza un altro media.

Si chiama transmedialità. Sul palco di Sanremo ieri sera abbiamo assistito a piccole stranezze, alcune forse sono passate inosservate, ma gli addetti ai lavori – invero oltre 500 mila utenti – avranno fatto caso al batti cinque di Morandi ad Amadeus, all’apparente insensato urlo di Bravi “Papalina!” e che i due cantanti in gara hanno citato il Fantasanremo.

Fantasanremo, cos’è

Si tratta del fantagiuoco riguardante il Festivàl di Sanremo consistente nell’organizzare e gestire squadre virtuali formate dagli artisti in gara. Un sistema di punteggi (bonus e malus) determinerà la classifica finale. Ci sono un sito web o un’app, entrambi gratuiti, dove era possibile iscriversi fino alle mezzanotte dell’ 1 febbraio scegliendo i cinque membri della propria squadra, un nome per il team e nominando un capitano.Come il fantacalcio, e per chi c’era come il Fanta Game of Thrones, che ebbe grande successo in concomitanza con l’ultima stagione della straordinaria serie televisiva dove scegliere accuratamente chi non sarebbe morto. Sono iniziative dal basso, spesso nascono in sordina, un gioco fra amici (quelli del Fantasanremo di riuniscono presso il bar Corva di Papalina per seguire la kermesse) che non immaginano di sviluppare un piccolo fenomeno mediatico.

Sanremo rivive sui social

Che i social media (anche un game) avessero restituito linfa vitale al Festival di Sanremo lo avevamo appurato da anni, ma è interessante notare come stavolta non si tratta più soltanto di una reazione o un commento dentro una bolla nazionale. Il game ha invece un’influenza diretta su ciò che accadrà sul palco: i cantanti scelgono di fare qualcosa in virtù delle regole di un altro gioco. Michele Bravi ha un milione di fan su Instagram, una fan base notevole nel sistema che decreterà la classifica finale (il Televoto avrà un peso soprattutto sabato per la finale). Perché non ingraziarsi ulteriormente chi lo ha messo in squadra nel Fantasanremo? O magari, è solo divertente.

Basterà?

La vera domanda è come sta cambiando il Festival nelle edizioni recenti, che invece per certi aspetti continua a zoppicare. A che serve questo riempitivo di donne annunciate con grande pathos e poi consegnate all’anonimato sul palco, a ribadire sinuosamente quanto è stata magnifica la loro carriera accanto ai grandi uomini del cinema (vedasi Ornella Muti). Oggi è pure morta Monica Vitti, come a fare uno sgarbo a tutti noi.

Non si parla abbastanza di guarigione

L’armadio della mia stanza in città è rotto. Lo è sempre stato, da ben prima che arrivassi disperatamente e scegliessi quella stanza perché era l’unica disponibile in una folle ricerca di un alloggio in un tempo folle scollato dalla realtà delle persone. Non è solo rotto, è proprio fragile, scarso, esile, leggero che un soffio di vento provocherebbe crepe sul pannello multistrato di betulla che non è altro.

Ha fatto il suo dovere per tre anni tuttavia, e del resto, avrei potuto comprarne uno nuovo e rivenderlo al prossimo inquilino quando quella stanza non sarà più la mia. Non l’ho fatto, perché l’assetto provvisorio della mia sistemazione è sempre stato l’onesto riflesso di un animo impegnato a cercarsi e guarirsi. Così, ho rivestito la vecchia poltrona in velluto, ho comprato una fragranza al bergamotto con bacchette di legno e presto, una lampada da terra che possa creare un’adeguata luce soffusa quando non è ancora notte, ma neanche più giorno.

Fa tutto parte di un processo. Negli ultimi mesi non sono mancate trasformazioni e le conseguenti ferite di chi scopre di essersi contaminato. La paura è come un insetto che impollina un fiore sempre diverso per trarne nutrimento. Si sposta. Molti sono passati dall’avere paura del virus, e così hanno cercato di evitarlo (restiamo a casa), alla paura di averlo contratto (mi faccio un tampone per sicurezza). D’accordo che la disperazione muove il mondo, ma a volte basterebbe darsi tempo per sanare un dolore. Anche le mie paure spostano il loro oggetto. Anche io ho avvertito a lungo il terrore che un’onda di diversità e alterità mi avesse contaminata in modo irreversibile. E in effetti, era accaduto.

Più riconoscevo nuovi aspetti della persona che stavo diventando, più crescevano i sintomi: la solitudine, la noia, la maleducazione, la tachicardia per un calice di troppo, interminabili nottate con l’addome gonfio e tante mattine di stitichezza. Poi ho compreso che la solitudine era il sentimento più conveniente per non affrontare la mia chiusura all’altro, che la noia era il paracadute della mia improduttività, e la maleducazione una palestra necessaria a un carattere forgiato ma non ancora collaudato. Certi altri sintomi – sono convinta – non mi abbandoneranno mai, sono un monito necessario a ricordarmi che lasciare andare ha un prezzo.

Guarire comporta fatica, dolore, costi. Ma anche comprensione, lenta accettazione e fioriture. Servono coraggio e amor proprio, rispetto infinito per le proprie crepe. Chi è ferito fatica anche a distinguere i soccorritori. Quello che mi spaventa ancora tanto, oggi, è la possibilità di tornare a essere invisibile. Ho capito che è molto improbabile che qualcuno possa colpirti intenzionalmente, spesso le parole sono l’esito improprio di una disabilità, un giudizio, una punta affilata che l’armato non sa neanche di aver uscito dal fodero. È più facile che siano i tuoi schemi a interpretare gravemente certe incursioni. Insomma, la partita più difficile è difenderci dagli inganni della propria testa, facendocela complice.

Sussurrando le verità, indirizzando lo sguardo nello sguardo nitido dell’altro. I miei amici mi hanno fatto dei regali. Le mie amiche mi hanno portato dei fiori. Sono stati scelti libri e gioielli per il mio essere donna e il mio essere e basta. Ho festeggiato in molti modi, tranne in quello che avevo previsto, perché chi è in via di guarigione ha bisogno di soccorritori, cerotti, garze e riposo. Non so se ho trasmesso loro la mia gratitudine, mi imbarazzo, abbasso gli occhi, sorrido irrigidendo gli zigomi e biascico dei grazie che sono rotti, ma sono i migliori in circolazione.

Grazie over the top.

Come ho imparato a nuotare senza annegare

Mi è tornato in mente come ho imparato a nuotare. Non avevo paura dell’acqua, né delle pietre sul fondale. Eravamo piccoli, ma nessun elemento mistico mi lega al mare, esserci nata e cresciuta non ha fatto di me una esperta in stile dorso. Ci buttavano in acqua, tutto qui. Quando eravamo alti abbastanza, papà o chi per lui, ci sorreggeva in orizzontale sulla superficie, teneva una mano salda sulla pancia e diceva: “Muovi braccia e gambe!”. Si beccava l’acqua in faccia pronto ad attuare il suo vile inganno. Mentre urlava “ti tengo, ti tengo!” levava la mano. Non è mai annegato nessuno, abbiamo bevuto parecchia acqua salata ma, togli oggi, togli domani, abbiamo capito in fretta che sbattere le gambe ti dava la forza necessaria a rimanere a galla e agitare le braccia ti portava qualche metro più in là, a urlare “Guarda! Guarda!” e “So nuotare!”.

Ad avere fiducia si impara con fatica

In spiaggia ci avvolgevano nel telo tremolanti, con gli occhi rossi e le labbra viola, poi ci mettevano in mano mezzo panino col prosciutto e ricominciava la lotta, stavolta con le vespe. E con la stanchezza di chi adesso poteva fare capriole a largo. Ad avere fiducia si impara con fatica. Mi è tornato in mente perché l’inganno è sempre il rischio che si corre a fidarsi. Anche quando dinanzi hai la bellezza del mare, che sia d’onde o un mare di opportunità. Pare funzioni così anche nel lavoro, sto scoprendo. Quel famigerato mondo che ho conosciuto tramite i racconti degli altri come il più fumoso, dubbio, infelice aspetto della esistenza. Fino a questo momento era stato per me un proverbiale passatempo. Di quelli che ti appassionano certo, ma iniziano e finiscono, come una partita a scacchi, un puzzle, l’uncinetto, un torneo di bocce.

Curriculum vitae

Ho dato ripetizioni a lungo, anche se la prima volta che qualcuno mi diede 50 euro fu perché avevo organizzato dei giochi per strada e non avevo nemmeno 18 anni. Per due settimane ho accompagnato in auto un’anziana signora dal fisioterapista tutti i giorni. Poi, c’è stato quel periodo commovente in cui una testata giornalistica mi pagava 5 euro lordi a pezzo. I miei primi solidi guadagnati scrivendo. Nonché la prima volta che ho visto un CUD nella mia vita. Devo molto a quella testata. Forse è stata l’unica volta in cui mi sono sentita a posto con me stessa. Di certo non potevo esserlo durante i mesi del glorioso Servizio Civile, la mia prima reale fonte di guadagno con la quale riuscivo a pagarmi una stanza in centro a Palermo e fare shopping senza senso di colpa. Ma del senso del lavoro comunemente inteso, quell’esperienza ha avuto poco.

Legittimarsi

Nonostante questo invidiabile nonché non dichiarabile curriculum vitae che sprizza nero da tutte le parti, solo ultimamente ho intuito cosa mi stava da sempre impedendo di vivere davvero il lavoro per quello che è: valore. Certo è più facile quando a fine giornata hai messo insieme 100 mattonelle, quando hai chiamato al telefono 30 persone registrandone le risposte, se hai venduto 10 o 20 chili di frutta, o se hai timbrato il tesserino. Lo avrai conteggiato. Non c’è niente di più empirico di ciò che è misurabile. Facile quando hai smesso di chiederti cosa fai per vivere, perché sono trascorsi cinque o dieci anni da quando hai iniziato a farlo: non c’è niente di più empirico di ciò che è ripetibile. E a un certo punto sarà così anche per me, anzi lo è già. Il primo giorno in una redazione – ovvero alla scrivania della mia stanza d’infanzia – il peraltro direttore della testata con cui avevo iniziato a collaborare mi chiamò al telefono dopo aver letto una mia bozza, non avevo mai parlato con lui prima, e mi disse: “Sofia? Allora, innanzitutto la consecutio temporum“. [Ciao Peppe].

Professione giornalista

Volevo sprofondare. Rinunciare per sempre anche solo all’idea di…posso dirlo. Ora posso dirlo. Diventare giornalista. Ci ho messo un po’, direi soprattutto righe su righe su righe, plugin, ricerche per immagini, telefonate al punto blu di Buonfornello per chiedere cosa fosse successo sulla A1 direzione Palermo. A un certo punto sul mio telefono alla voce “sindaco” seguivano tutti i comuni delle Madonie. Gmail non aveva segreti. Un giorno in redazione ci siamo detti di lasciare perdere l’informazione locale, che se un pezzo era ben fatto, poteva perfino sfidare il ranking di Google. Allora mi misero a lavoro sui NEET (Neither in Employment or in Education or Training), i ragazzi che non studiano né lavorano. Doveva venirne fuori un editoriale, ma ho fatto una fatica enorme ad arrivare a trenta righe.

Salvavita

Poi ci sono state le batoste, le parole che non ho capito, poi ho studiato tanto. Tanto, tanto, tanto. E scrivevo, e studiavo. Ho fatto cose. Sono diventata adulta. Come tutti, ho incontrato persone, formato associazioni, conosciuto la politica attiva, aperto questo blog, scritto di cose che non sapevo potessero mai intercettare il mio interesse. E mentre venivano al pettine tanti nodi di me stessa, comprendevo dove stava quel valore. La scrittura mi ha salvato per un lungo, lunghissimo tempo, forse dalla terza elementare. Era l’unico luogo in cui poter riporre il mio sentire più autentico. Era ingarbugliata, ambigua a volte, una scrittura criptica: stavo iniziando a decifrare me stessa. Ancora adesso, quando qualcosa mi turba, scrivo alle mie amiche. Qualsiasi altro, sconvolto, chiamerebbe al telefono. Io no, io scrivo. Il mio rifugio è fatto di cornici alfabetiche. Le frasi sono i lampadari. I testi sono le finestre. Questo è il mio bunker salva vita.

Questione di fiducia

Ma è stato solo quando le becere retoriche del mondo del lavoro si sono riversate anche su di me, rivelandomi quella dimensione distorta che è la vita del tirocinante, che ho definitivamente legittimato a me stessa il mio valore. E l’ho capito quando l’eco di certe parole anziché ferirmi, rafforzavano l’idea che valevo molto di più di una paghetta. Quando le maglie subdole della burocrazia si sono interposte al lavoro sotto forma del sorriso antipatico di una passacarte che ti considerava poco più di una pratica da sbrigare. Insomma, anche ad avercela una carta, un’abilitazione o due, anche a provare a raccontare la tua esperienza, probabilmente non basterà. Non subito. Ne devi mangiare di cereali sotto marca. L’altro sarà sempre più interessato a una negoziazione del tuo lavoro, con la promessa aurea della formazione a compensare quello che non si sa o non si vuole riconoscere, un potenziale. Non siamo fatti per tutti i lavori per cui ci candidiamo, così come tutti i lavori per cui ci candidiamo non sono fatti per noi. Dietro un’apparente brutta esperienza – ho imparato – c’è un mancato incontro.

Nessuna magia

E c’è la pochezza di una società in cui conta solo ottimizzare, produrre, abbattendo i costi e se ti va bene, tu sei il costo. Un peso, un prezzo da pagare per un progetto in cui forse nemmeno credi. Ho questo brutto vizio di pensare che se qualcosa non funziona, sono io l’ingranaggio che non ha fatto il suo dovere. Spesso significa solo che concorriamo ad auto-sabotarci, facendo venir meno la fiducia in noi stessi, nella capacità di distinguere uno stronzo da uno che ti vuole bene, e un’occasione da un tempo perso. Non era la mano di qualcuno a sorreggermi e non era il suo venir meno a mettermi a rischio, sono sempre stata io a scegliere di muovere le gambe, rimanendo più forte della paura e più desiderosa di nuotare nel mare, anziché guardarlo dalla spiaggia. Non sono arrivata da nessuna parte, ma non sono neanche al punto di partenza. Le cose sono cominciate a succedere senza dire grazie a nessuna dote innata, a Dio o al parente che ha un amico che conosce qualcuno. Sto imparando a fidarmi e qualcuno inizia a fidarsi di me.

E infine, spegnersi

Ho fatto un sogno di recente. Stavo per prendere possesso del mio nuovo monolocale, ed ero molto felice. Finalmente, un primo passo vero verso l’indipendenza, con un’abitazione non condivisa. Il monolocale è tipo l’ambizione dei nuovi trentenni, quelli che non hanno uno stipendio, né un mutuo, né certezza. L’ambizione dei precari. La cosa curiosa è che aveva mobili nuovissimi, ma pareti ancora imperfette, senza intonaco, grezze. E poi, di tutti i luoghi in cui il mio inconscio poteva prendere casa, ha scelto comunque Via Parini, dove vivono i miei. Non sia mai che faccia un passo troppo lungo, lontano dall’elemento noto. Che ci sia una porta e un civico però, è già una grande conquista.

Fuori, vecchi amici erano pronti a portarmi un regalo per la casa nuova.

E’ così che si fa, no? Si celebrano le arcinote vittorie dettate dalla società. Mentre ci affanniamo a rincorrere un riconoscimento. Vi dirò, nel sogno la casa va a fuoco – in fiamme letteralmente – colonne di fumo nero, polveri e scintille. In strada, quel pover’uomo di mio padre, non esita a spegnere l’incendio, mi guarda e mi dice “Stai tranquilla”. Si consuma così, nel mio inconscio, la battaglia in atto fra le corde del mio cuore e le bombe della mia testa. Sarà per questo periodo definitorio, di ricerca, di studio, di rivelazione e di appropriazione di un pensiero che non ha più nulla di convenzionale o accademico. Tra le righe della bibliografia, traspare anche la mia posizione in merito alle cose. Dovrò modulare la rabbia, e condirla di riferimenti accademici, per dare validità al mio pensiero.

Mi sembra però che chi prende parola per lo più si siede in punta di sedia, pronto a scattare.

Ci provo. Mi arrabatto. Metto in discussione il mio inglese sgrammaticato ogni giorno, in ufficio, quando accolgo gli studenti che arrivano da Spagna, Belgio, Turchia, Pakistan, è passato persino un brasiliano altissimo e biondissimo. “Hi! Have you found an accomodation to stay?” – gli chiedo – e poi capto pezzi di risposte che comunicano molto meno dei loro occhi preoccupati perché è davvero impossibile trovare una stanza in città. Chi si mette alla ricerca di qualcosa rischia lo smarrimento, delusione e continua allerta. Quando sei in una posizione di svantaggio, è più facile pensare di non essere all’altezza. E smetti di darti valore. L’ufficio in cui opero, ha un nome equivoco, che potrebbe facilmente essere scambiato per una portineria. Così, sovente accade che mi ritrovo a dare indicazioni per raggiungere le aule o lo sportello di counselling psicologico (popolatissimo, il che mi rallegra, ma mi fa anche riflettere su quanto i disagi possano essere numerosi fra gli studenti).

Fra una telefonata e un questionario di gradimento, oggi, ho appreso della morte di nonna.

Un evento prevedibile. Quando partii la prima volta per Parma, ricordo, andai appositamente in paese per salutarla. Era settembre e al successivo Natale mancavano molti mesi per me, ma pareva pochi per lei. Sono trascorsi altri due anni. Un Highlander, senza dubbio. Una scorza dura che fa ben sperare in termini di genetica. Solo che nonna era via da anni. Le è toccato uno dei mali più beffardi, che ti toglie piano piano ogni facoltà cognitiva. Così piano che il tempo smette di essere un fattore di riferimento, il giorno e la notte, il buio e la luce, il pranzo e la cena, Natale indistinguibile da un comunissimo giorno di febbraio. Silenziosa, pressoché immobile, lo sguardo tutto intorno entro le mura di casa. Quando arrivavamo la domenica, eravamo un vespaio tutti intorno a rimbalzare i nostri discorsi vicino alla sua poltrona. Stimolavamo brandelli di memoria, pensando forse, di aiutarla.

Stava seduta su una bella poltrona, col suo sguardo perso di qua e di là.

Se la guardavi a lungo, ti ricambiava un sorriso, altrimenti, si girava e continua a cercare, cercare. Fino a un paio di anni fa, Eva si autoreggeva già sul bracciolo di quella poltrona, teneva le gambine in avanti e riversava su di lei i suoi occhioni:<<Nonnina, nonnina>> la chiamava. E quella sorrideva, a volte un po’ di più, fino a quando non le si bagnavano gli occhi, non di commozione: era ilarità senza contenimento. Allora, Eva appoggiava il palloncino tra le sue mani e attendeva che glielo passasse indietro, altrimenti, se lo prendeva da sola. <<Nonnina, nonnina>>, non rispondeva, ma nascondeva il labbro superiore dentro quello inferiore e indagava, indagava. Avrebbero potuto andare avanti per ore. E forse agli occhi di Eva, che all’epoca aveva due anni, era proprio così: la nonnina era piccola, e sempre più piccola diventava dentro quella poltrona. Poi, piegata, rinsecchita e, quindi, minuscola.

Il tempo che passa, cara nonna, può essere un dolore.

Fortunato chi ti piange perché ti ha persa, fortunato perché ti ha avuta. Nei soleggiati pomeriggi sul balcone, lungo le scale verticali di quella casa con le imposte di legno, c’è stata un’infanzia indistinguibile da quella dei miei cugini, fratelli. Eravamo il vespaio che metteva a soqquadro quello scuro soggiorno pieno di dipinti incomprensibili e bambole di porcellana. Eravamo le impronte di dita sul tavolo, abbellito dal centrino all’uncinetto. Il posto a tavola all’angolo, pur di entrarci tutti. Ti dirò, guardavo con sospetto a quel porta biscotti in latta in cui conservavi i bigodini e mi insospettiva l’immagine di te mansueta, a forzare quei ricci in testa. Cose che avrei dovuto dire, per innescare un rapporto con te, che in fondo sei stata mia nonna, ma non ce lo siamo mai detto. Così, mi sembra di piangere senza motivo, ma il tempo che passa è un dolore anche per me, che ti saluto da lontano. Solo che è un dolore diverso, non convenzionale, non di chi ti ha persa, ma di chi non ti ha avuto abbastanza.

In vacanza, ma anche domani

La vacanza è il momento in cui sollevarsi dall’incarico, quale esso sia. Aprire una casa al mare per avere un luogo in cui consentire allo spirito di distendersi, espandersi, e ricoprire lo spazio esterno di teli colorati. La sabbia è l’unico souvenir: tra le dita dei piedi, dentro la borsa e per quanto mi riguarda, tra i denti. Ci sono voluti tre treni, un aereo e un autobus, per arrivare al mare. Ore congelate dal silenzio – ho aperto bocca per parlare con qualcuno solo a sera – assorta com’ero dall’andatura del treno sui binari, il sole scaldava dal finestrino contrastando il gelo provocato dall’aria condizionata; poi, le solite stazioni fredde e meccaniche. Quando sono scesa a Punta Raisi me la stavo facendo di sopra, così ho raggiunto il primo bagno pubblico, ancora nei pressi del binario. Mi mancava pure pisciare in posizione di squat talmente ho provato piacere a partire, levandomi di torno per un po’.

Movimento

Qualche tempo morto, spezzato dal momento snack troppo costoso al gate, i soliti pensieri in coda per imbarcarsi: famiglie con l’accento romano, una coppia innervosita dalla compagnia che li aveva costretti a caricare in stiva il bagaglio, nonostante avessero pagato la priorità, ragazzi di rientro da una vacanza in Sicilia e chissà…forse madri snaturate, ladri, disperati, nessuno troppo ricco ma tutti soggiogati dalle nuove politiche di Rayanair che zitta zitta quatta quatta, mentre in molti pensavamo a esibire il Green Pass (mai richiesto) – ci ha imposto di scegliere il posto in volo acquistandolo alla cifra minima di 3, 3.50, 4, o 6 euro (se è il posto meno sfigato). Ma si sa: quando parti per le ferie sei disposto a pagare qualcosa in più, pur di stare rilassato. Nessuna grande meta, date le circostanze, perciò ho deciso di raggiungere un’amica al mare. L’ urgenza di andare lontano da casa vanifica il valore della destinazione, per questo una provincia vale l’altra se intraprendi un viaggio, un litorale rimane indistinto da un altro, e ogni comparazione è superflua.

Foce verde

Così, sono finita in un residence a un chilometro dal litorale laziale nella provincia di Latina. Isolato abbastanza da far perdere la ricezione al telefono – aspetto niente affatto disagevole -, e far sembrare i camion dello scarico merci del negozio davanti casa un lontano ricordo. Ci si abitua in fretta allo stare bene, anche se la vista è disturbata da una chiesa di recente costruzione in aperta campagna. Leggo online trattarsi di architettura moderna, che si ispira al santuario di Lourdes, solo con un nome meno evocativo – rifletto. Stella Maris è il nome della parrocchia, riconosco la devozione alla Madonna tipica dei borghi di mare. Ci sono meno di un centinaio di recensioni su Google rispetto al luogo, recitano tutte all’incirca il solito elogio senza impegno: “Bella, spettacolare!”. Inevitabilmente, se 99 commenti sono positivi, l’occhio cadrà sull’unico severo ma giusto: “Un fungo spuntato in mezzo al nulla!”.

Agro Pontino

“Sticazzi – diremo – Sto in vacanza!”. In realtà, lo dirà Martina. A me sono servite alcune ore di assestamento prima di abituarmi a non fare una mazza tutto il giorno, se non tenere il culo poggiato sulla sabbia, mangiare, tenere il culo poggiato sulla sdraio, mangiare, guardare i papà costruire castelli di sabbia con i figli, programmare cosa mangiare il giorno dopo. C’è stato spazio anche per un po’ di sapere storico, che da queste parti si riflette molto sull’aspetto urbano: Sabaudia fu fondata nel 1933, e fu pensata da alcuni architetti che la immaginarono predisposta per divenire un importante centro sportivo, in particolare per ospitare gare nautiche sul lago di Paola. Divenne espressione del movimento architettonico del razionalismo. Per dire, il centro postale della città compare sui libri d’arte. Per coltivare i campi agricoli nati dopo possenti opere di bonifiche durante gli anni del fascismo, Mussolini richiamò direttamente coloni veneti per avviare le produzioni. Le insegne sono rimaste quelle degli anni del boom edilizio che hanno portato al popolamento della città, oggi rinomata meta turistica grazie a una spiaggia di 20 chilometri e alle dune di sabbia che in primavera si tingono di rosa.

Le storie degli altri

Ai miei occhi ha acquisito senso però, solo nel momento in cui la storia del luogo si è arricchita delle storie personali di chi in quel luogo è nato. Quando i luoghi sono i luoghi della vita di altri e le storie trovano il modo di intrecciarsi e rimanere solide, iniziano a somigliare alle leggende. Cosa le rende impermeabili al tempo è la loro capacità di perpetuare bellezza. Non ci fu modo per Circe di stregare Ulisse, e da quell’uomo diverso, curioso, prese l’amore e da amore fu ricambiata, in un valzer di vita intenso per quanto finito. Nessun inganno, solo il procedere delle cose. Sotto il Monte Circeo, che abbraccia uno dei parchi nazionali naturalistici più grandi d’Italia, si consuma ancora oggi quella storia di fascino e capelli intrecciati. La suggestione vuole che il monte assuma proprio la forma della maga, distesa con il volto in su, di cui appare il profilo, a osservarlo bene. Per altri, la sagoma richiama Ulisse dormiente, nella sua permanenza nell’isola di Eea, nome che un tempo aveva probabilmente il promontorio, quando era interamente circondato dall’acqua, in compagnia delle isole di Ponza, Palmarola e Ventotene, l’arcipelago delle Pontine a largo del litorale.

La lucciola

Se tanto mi da tanto, questo può valere anche per ciascuno di noi, che in fondo di miti ci nutriamo ancora adesso. Una sera, dopo cena, eravamo convinte di stare tornando all’auto per avviarci verso casa. Ci siamo accorte di aver sbagliato direzione solo dopo aver trascorso un’ora intera tracannando birra sulle note di Gloria, abbozzata da uno scarsissimo animatore da Piano Bar, con l’unica competenza necessaria: la cafonaggine. Quella bonaria, s’intende. La stessa del gestore che ci aveva viste esitare sulla soglia del locale, dal nome evocativo, “La Lucciola”. <<Volete entrà?>>, <<Ma c’abbiamo la sabbia ai piedi>> – aveva ribattuto Martina. Quello, con una invidiabile pace interiore, l’ha guardata negli occhi, ha portato la mano alla bocca, ha abbassato la mascherina e sorridendo ha sentenziato: <<E sti cazzi!>>.

La lucciola apparve immediatamente come il posto più bello del mondo. L’attimo dopo cantavamo a squarciagola tutto il repertorio italiano dagli anni ’60 ai Duemila, senza continuità logica. Non eri manco nato quando erano in voga, ma le sai tutte. Quella sera, Piccola stella senza cielo divenne un coro da stadio. I nostri discorsi – pochi, evidentemente impegnate a ondeggiare sulla sedia sulle note di Rewind – servirono a riconsiderare gli uomini pelati, ingiustamente esclusi a priori spesso dai nostri interessi in fatto di fisicità.

Roma Bene

Per non farci mancare nulla, un paio di sere dopo, ci siamo misurate con l’universo parallelo dei fighettini in camicia di lino e mocassino anche in spiaggia. Non avevo ancora visto uno stabilimento balneare completo di area relax, parrucchiera, e docce calde. Il sole aveva fatto a botte con le nuvole per tutta la mattina, alla fine l’ha spuntata, cedendo solo al maestrale, ma proponendo una golden hour da paura. Nessuno dei presenti sembrava troppo preoccupato del meteo in realtà. Ho imparato che al mare si mantiene sempre un certo stile, lasciando i capelli sciolti, prediligendo i pareo agli shorts. Bandite la Havajanas: la ciabatta è eleganza. Non avevo granché da condividere con quel contesto, perciò l’ho presa come un gioco: ho smesso di fare caso a cosa avevo intorno e mi ci sono infilata dentro. Per un paio d’ore, sono tornata ad avere 18 anni: ingenua, ma piena di risorse. Via l’elastico ai capelli, matita, rossetto, ho insaccato un vestito e quanto al profumo, bastava l’essenza della crema solare. Che manca? Una complice, certo. Ce l’avevo.

Lucertole

Martina ed io non facciamo altro che cambiare pelle, come lucertole, adattandoci a quello che il momento richiede, assecondando desideri legittimi, imbrogliando la nostra testa e giocando fino allo sfinimento, quando una confessa all’altra che non ne ha più. Un pezzo di pizza appena sfornata, un concerto rock in piazza, l’incedere lento dei vacanzieri per le strade, i negozi aperti fino a tarda sera, quaranta persone in fila per prendere le bombe da Ciccio, e la strada di ritorno verso casa, costeggiando il bosco. Quello è il mio momento preferito, quando la conversazione si fa lenta, i pensieri arrivano piano, si dà voce ai segreti e si mettono sul piatto le verità che non sempre sai raccontare a te stesso. Una spalla serve, per riabilitare i pelati e girare a vuoto per il vicinato sperando di rivedere i tipi carini che avevamo salutato quella mattina. Ci siamo rivelate l’una a l’altra, e ancora a noi stesse: testarde, fragili, generose, sciocche, ribelli, adulte, se è il caso pure cafone. Siamo una pasta pecorino, pancetta e cozze. Senza che questo desti alcuno scandalo. E siamo il pollo con le verdure prima di un approfondimento notturno su Kabul. Non siamo simili, ma simile è il nostro desiderio di vita, in vacanza ma anche domani, quando l’una ricorderà all’altra che merita tutta la bellezza possibile.