Cose che ho imparato da fuori sede

fuori sede

Il mio piatto di spaghetti con le zucchine fritte aveva un non so che di distopico oggi a pranzo. Mi è sembrato l’ultimo atto di un futuro che avevo immaginato diverso, e soprattutto altrove. Oggi avrei terminato la mia sessione di esami estiva a Parma, sarei tornata a casa, magari con la valigia pronta sul letto e prima di chiudere tutto, avrei svuotato il frigo con l’ultima genovese sintetica comprata al supermercato Panorama a 500 metri da casa.

La pandemia ha avuto un effetto sliding doors, per certi versi. Una sola variabile è in grado di generare due futuri paralleli, con una me che contempla il tramonto al mare mentre l’altra risale la ciclabile di via La Spezia. Entrambe opzioni possibili, entrambe vere e sovrapponibili, perché convivono in me l’una e l’altra in un ciclo infinito che si ripete (sì, ho visto Dark di recente).

Se il futuro somiglia a un bivio biforcuto e diabolico, alle 13.23 oggi, attorcigliando quegli spaghetti, mi è stata chiara una cosa, sempre vera e sempre stata: c’è una costante nella mia storia, come in quella di ciascuno, e siamo proprio noi, artefici, attori, protagonisti e perfino antagonisti di noi stessi. Siamo la sorte che ci siamo dati e che influenza le vite degli altri, si intreccia con essa, scatta come una scintilla al contatto, a volte può perfino esplodere. O chiedere “Tutto bene per il resto?”. Si concludeva così la mail di un docente che mi avvertiva della pubblicazione di un pezzo che avevo scritto mesi fa.

Mi ha riportato lì, a quelle ore di biblioteca impiegate a cercare, intercettare, curiosare, ipotizzare storie. Ho iniziato con un gruppo di volontari che nel reparto di neonatologia dell’Ospedale di Parma si prende cura dei piccoli facendogli le coccole, ho cercato di capire perché trovare una stanza in affitto per gli studenti delle città del nord è diventato sempre più proibitivo, ho incontrato Marina Burani, Giuseppe Milano, e il Rettore dell’Università. E per ogni pezzo che alla fine ne veniva fuori c’erano dieci, cento cose che avevo imparato nel mio primo anno da fuori sede.

Quando guardavo lo scontrino della spesa e studiavo i volantini delle offerte, ho capito che non vorrei mai che i soldi rappresentassero un limite, ma anche che è necessario dare un prezzo alle cose che vogliamo, per esercitare la virtù della scelta, sempre, e se necessario rinunciare. Così ho rinunciato all’estetista, ma poi ho trovato una studentessa che se la cavava con le cerette e l’ho contattata. Una ceretta a buon mercato – ho imparato – può appagare il bisogno di sentirsi a posto con se stessi.

Ho scoperto di avere ancora 19 anni quella sera che il corridoio di casa divenne il campo di battaglia e noi, il bersaglio del gioco delle freccette. Ho sentito per la prima volta la nostalgia così come mi è chiaro adesso il motivo di ogni ripartenza. Che se perdo l’ultimo autobus delle 20, in Via Pellico posso tornarci a piedi, anche se è febbraio e fanno tre gradi. Ma non mi sono pesate quelle insolite temperature nei momenti in cui era più importante rimanere fuori, che tornare nella mia stanza.

Ho trovato più storie in un parco che nel centro storico della città, e ho capito che i docenti non sono solo l’ostacolo da superare prima di passare al prossimo esame. Ma opportunità, o anche no. Non per forza. Le persone sono stimoli, oppure rotture di balle. Difficilmente trovo una via di mezzo quando si tratta di altri.

Ho imparato che una compagnia non necessariamente è l’antidoto alla solitudine e che persino avere paura fa bene. Ho imparato a mangiare i ceci e le barbabietole, e a non crucciarmi se il limone non emana l’odore dell’orto. Che so fare il risotto, ma anche Just Eat va bene. Che posso darmi tregua e non devo per forza rimanere fregata se abbasso la guardia.

Ho imparato a chiedere aiuto se ho bisogno e a saltare su un treno per Roma, se serve un’amica a cui non devi spiegare chi sei prima di piangere sulla sua spalla. Ho imparato che se non metti il nome sul citofono, il corriere non ti trova e che mai, mai, mai bisogna fidarsi di chi parla troppo velocemente. Ho imparato che i dipendenti pubblici sono un sacco meridionali e che alcuni del nord pensano che i meridionali siamo scansafatiche che sanno cucinare bene.

Un anno fa decidevo di andarmene. Studiare era il modo più semplice per farlo, di studiare avevo bisogno; così, l’ho fatto e lo rifarò di nuovo, presto. Ho imparato che il fuori sede è un fuggitivo, un sognatore, un viziato, un pazzo, un avventuriero e un piagnone. Che farsi degli amici è difficile solo se scordi te stesso a casa per paura di perderlo. E che se ti esprimi, forse, allora, ti sembrerà di non essere neanche più te stesso, ma di amici probabilmente ne avrai…e anche di soddisfazioni.

Selvaggi

selvaggi

Eravamo tutti un po’ selvaggi da piccoli.I nostri genitori a lavoro e niente motorini. C’era un via vai di accompagnatori e Phantom che si immolavano per tutti. Passavano di fratello in fratello, con le marmitte scassate e un fracasso incredibile. Ma ci portavano fin qui, a Torre Conca.

La chiamavamo solo Valtur, per via dello storico villaggio da cui ci separava un cordone grosso e un limite tutto mentale. In spiaggia si consumavano i nostri pomeriggi. Giocavamo. Ci abbronzavamo per inerzia, uscivamo dall’acqua solo dopo che il pallone era finito per cinque o sei volte sui tipi che ci guardavano storto. E sulle tovaglie squadrate, sovrapposte, umidicce, appallottolate c’era tempo solo per una partita a scopone. Risalivamo verso sera, prima del tramonto, boccheggiando per la salita ripida.

Non lo sapevamo allora, ma eravamo sul pezzo sempre. A 16 anni ti senti padrone del mondo, anche se non hai manco cinque euro nel portafoglio: hai la libertà. Non ci sono sovrastrutture, si procede per impatti. Simpatico/antipatico, di qua/di fuori, pallavolista o mani di ricotta. A Torre Conca se il mare si incazza, le onde toccano anche i due metri. Ma io ricordo che stavamo al mare pure in quei giorni lì, a guardarle da lontano, a scappare dalla battigia, a sfidare unicamente il rinculo dell’acqua.

Adesso cerchiamo l’orizzonte al tramonto per fantasticare sulle nostre evasioni, ci tranquillizziamo in questo posto che sa farci ritrovare con noi stessi e con le persone intoccabili della nostra vita. Ora ci sono i parcheggi per i residenti, ma sempre una doccia sola. Ci portiamo la frutta perché il bibitaro non passa più. Fotografiamo i tramonti perché nessuno porta le carte. Conserviamo però un po’ di quella spavalda libertà, perché a Torre Conca, sulle pietre piatte ci poggi la schiena per guardare il cielo se l’orizzonte dovesse portarti troppo lontano, poggi i piedi sulla tovaglia dell’altro per sussurrargli qualcosa di importante e fai il bagno quando cessano gli schiamazzi. Gli occhi accompagnano il pellegrinaggio di chi risale, così speri sempre di essere l’ultimo, in qualche modo sei convinto sia giusto così.

Selvaggi.

Meglio saperlo

meglio saperlo

Ho chiacchierato con un’amica di scrittura, comunicazione e social, guardando indietro ai mesi difficili della quarantena.

Senza una fuga, senza paura, senza tristezza, oggi non ci sarebbero tante nuove consapevolezze, ma anche una grande e riscoperta libertà: le zavorre più insopportabili spesso sono i giudizi che ci portiamo dietro.

Martina dice che sono un tutt’uno con la mia scrittura. Sì, è vero: è il mio vanto più grande. Soprattutto perché mi ricorda costantemente che ci sarà sempre un altro modo per guardare le cose, conoscerle e scegliere che farne.

Ho una mia formazione, un mio credo rispetto alla vita che sono prontissima a smussare, e poi ho un po’ di volontà. Ma anche tanta, tantissima voglia, di lasciarmi solamente investire a volte dalle cose dell’esistenza e vedere che succede. Pare che non sia un caso: che più costruisco un palazzo moderno, innovativo, come piace a me, più qualcosa sfugge al mio controllo e il palazzo crolla.

Questo è il tenore dei miei sogni. Raccontano le mie più profonde contraddizioni che pure racchiudono la chiave per il mio prossimo upgrade. La vetta da cui tornare a vedere la realtà che mi circonda profondamente in modo diverso. Come Finale, dove vivo per ora. Sono ripiombata nei problemi dell’anonima provincia, dove l’orgoglio cresce proporzionalmente con il poco che questo posto ha da offrire. Almeno, è così per me.

Qui ho scoperto di essere uno spirito collettivo quanto disincantato, feroce solo quando è il momento di mettersi in mezzo. Tutti i difetti umani qui sono stilizzati in un’opera di pirandelliana memoria. Come il Fu Mattia Pascal che mentre in treno escogita un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo necrologio. La straordinaria opportunità di una nuova vita nei panni di Adriano Meis, si rivela ben presto però fallace, per quanto necessaria. Non solo morire, ma anche rinascere deve accadere nel luogo del delitto.

Tutto questo per rispondere a Martina che incautamente mi ha chiesto “Come stai?” prima del nostro vaneggiamento serale su temi che mi stanno molto a cuore. E alla fine una piccola sfida: condividere una notizia tanto importante quanto passata in sordina, per selezionare in mezzo a tante informazioni qualcosa che è meglio sapere.

Che fine ha fatto Dio nelle canzoni?

dio canzoni

Me lo sono chiesta oggi, quando è partita la traccia di un vecchio cd di Ligabue che abbiamo in auto.

“Hai un momento, Dio?”, singolo dall’album “Buon Compleanno, Elvis”, uscì nel 1995. Un’altra epoca. Riascoltandola viene fuori tutta la rabbia e la frustrazione di chi alza gli occhi al cielo in cerca di risposte che altrimenti non si hanno, non si trovano.

Luciano canta spesso il cielo, in realtà. C’è un costante richiamo al senso della vita e ai sentimenti puri, anche quando sono brutali e devastanti, perché i duri hanno due cuori, sempre. E il cantautore emiliano non è certo un credente. Molti hanno cantato dio: atei, praticanti, agnostici e strafottenti. Il punto sta altrove, sta dove si poggia lo sguardo.

Ed era, quasi sempre, fuori da sé. E Dio è l’Altro da sé per eccellenza, quello col gilet. L’onnipotente, di fronte al quale ci sentiamo invisibili. Possiamo sfidarlo quanto ci pare,

Non bevi niente e io non ti sento com’è?
Perché?
Perché ho qualche cosa in cui credere
Perché non riesco mica a ricordare bene che cos’è

Lo so che l’avete cantato. Ma tant’è, è storia passata, anacronistica. Di Dio, le canzoni hanno smesso di parlare da anni. Figli del nostro tempo, i testi della nuova generazione di cantautori hanno spostato nettamente lo sguardo altrove. Da quando siamo diventati tutti Figli di Pitagora e siamo saliti a bordo di una Vespa 50, qualcosa è cambiato drasticamente. Di stagione in stagione, di disco in disco, l’iperrealismo ha preso il posto dei versi celesti e i moti rivoluzionari si sono rivolti all’interno. Le canzoni guardano adesso a noi stessi. Chi si ferma ai Comunisti col Rolex e alle ragazze con il grilletto facile e chi invece, si inoltra così tanto da scrutare l’abisso.

Oggi la musica canta la merda di ognuno. Le guerre uterine, la deriva dei sensi, gli scherzi della psiche, con la stessa rabbia e frustrazione forse, ma tutta totalmente, inesorabilmente, individuale.

Che nessuna parola sia parola vuota

che nessuna parola sia parola vuota

Nelle interviste a carattere istituzionale bisogna saper leggere tra le righe. A settembre – pare – riprenderemo la vita universitaria con parziale normalità. Credo sia importante, più di ogni altra cosa, che la dimensione della vita universitaria non venga pregiudicata nei suoi aspetti relazionali. Che gli studenti possano ancora coltivare un rapporto con la città e le sue realtà.Che non sia interdetto in alcun modo non tanto l’apprendimento quanto il processo di formazione che si attua quando si vive l’università, che è largamente trasversale.

Quest’anno ho scoperto più cose fissando il tetto a vetri della Biblioteca dei Paolotti che in aula.Nei giorni degli esami, la strada fino a Borgo Carissimi – prima e soprattutto dopo le prove – sapeva di processione solenne.L’unico bar dove il caffè costa solo 70 cent e i telefoni non prendono, l’ho scoperto troppo tardi.Il sole che anticipa il prossimo solstizio d’estate forse inizia a stordire e a inebriare della bella stagione i nostri pensieri. Ma è questo il tempo in cui verranno prese le decisioni definitive per disegnare il nostro prossimo futuro. Perciò tra le righe ho fatto il nodo a tutti gli impegni che l’Università si sta prendendo, e che io mi sto prendendo. Che nessuna parola, sia parola vuota.

Ecco quanto discusso con il Rettore dell’Università di Parma – la mia università – Paolo Andrei. –> Leggi l’intervista

Interismi

interismi

Avevo appena compiuto 18 anni e in quel periodo avevo ben poche preoccupazioni. Passavo da una festa all’altra, da un vestito all’altro, da una cerimonia a un comizio in piazza. Tutto sapeva di possibile, ogni cosa aveva l’aria del cambiamento e della assoluta novità. Ero infarcita di ideali e credevo fortissimamente in quella storia del cambiamento dal basso, della goccia nell’oceano, e di fari che da soli potevano dare luce alla notte.

L’Inter vinceva il campionato incessantemente dal 2006; l’avversaria più importante per diversi stagioni era stata la Roma. Un altro paradigma del Calcio si era imposto dopo l’annosa vicenda Calciopoli. La Juve ai tempi era come quei personaggi delle serie TV che escono di scena perché la produzione non trova l’accordo con l’attore e il contratto va in fumo. Gli sceneggiatori si inventano così un’uscita dalla storia spettacolare, come in effetti fu la revoca del titolo e la retrocessione in B dopo la stagione 2004-2005 e la serie va avanti, rinvigorita da nuovi protagonisti.

Insomma, quanto all’Inter, nel 2010, ero tranquilla. Conquistare la finale di Champions quell’anno a noi non parse un evento impossibile, era la nostra Inter, forte, compatta, veloce. Non avevo dubbi sulla possibilità che la squadra, quel 22 maggio a Madrid, potesse alzare la Coppa dalle grandi orecchie. Ho un solo rimpianto: una coincidenza di eventi mi impedì di seguire il match come avrei voluto e come sempre siamo soliti fare mio padre ed io. Senza troppo fracasso, ci ritiriamo in soggiorno, prendiamo posizione sul divano e ci sottoponiamo a 90 minuti di fibrillazione. La calma all’esterno è una bugia.

Tifare Inter è un trattamento continuo per imparare a sopportare la sofferenza. Sappiamo tacere quando perdiamo e vinciamo senza far rumore. Certamente, da tifosa mi sento parte di un noi che non passa la palla, ma vive nel circolo emotivo di una sfida calcistica che mai come oggi sarebbe balsamo sulle ferite della pandemia. E questo prescinde ogni valutazione sull’opportunità che la Serie A possa riprendere e le squadre tornare in campo. Non sono immune al vortice del calcio. Lo amo, almeno quanto le Serie TV. Così ricordo la notte del 22 maggio come un finale di stagione previsto dai fan. Che diciamo, se fosse stata la resa dei conti nell’infinito triangolo Dawson -Joey- Pacey, avrebbe visto finire insieme il logorroico aspirante regista con la rompipalle moralista da tutti amata.

L’Inter non è la squadra più amata, come non lo erano Dawson e Joey, non mette d’accordo le parti e non vedrà mai tutti esultare per la conquista del più importante trofeo europeo. Al punto che esserci riuscita quell’anno non la rende degna – per molti, specie per quelli che la Champions non riescono proprio a prenderla – di encomio. Insomma, per molti sarebbe preferibile l’oblio alle notizie che oggi si rincorrono, tutte rigorosamente nerazzurre. E allora che farcene di quel 22 maggio?

Trovo sia presto per l’amarcord. Oggi mi rende molto più nostalgica la foto di Gigi Simoni accanto al ‘fenomeno’ Ronaldo sul campo d’allenamento nel ’98. Dieci anni non sono tanti, né pochi: abbastanza per accarezzare il ricordo vivido di una me maggiorenne e adolescentissima, che quella notte andò a letto piena di soddisfazione, di sogni al posto giusto e onnipotenti trame in perfetta sintonia con gli autori della storia.

Era normale che l’Inter vincesse.

Metamorfosi di Compleanno

compleanno pandemico

In tutto questo macello ci eravamo scordati di loro, ma non se ne sono mai andati. Anzi, si sono adattati e reinventati. Stamattina mi ha scritto una Testimone di Geova su Messenger. Con un link mi avvisava di una Biblioteca online dove consultare le Scritture del giorno e reperire testi. È stato in qualche modo rassicurante. Per niente invasivo, non mi sono dovuta neanche alzare per rispondere al citofono e improvvisare risposte a domande un sacco difficili. Ammiro chi si spende per ciò in cui crede. Tra l’altro, oggi era importante sentirmi fiduciosa. Fiduciosa come un Testimone di Geova. Anche quando si è alzato di nuovo lo Scirocco, mandando a rotoli – tanto per cambiare – qualsiasi programma esterno alle mura domestiche. Ma la fiducia, oggi, non me l’avrebbe tolta neanche l’ultimo DPCM che si preannunciava sbalorditivo. Poi arriva, lo leggi, lo capisci ma prima di uscire sbirci comunque dal balcone per capire che aria tira, come butta là fuori e quante volte ti sarai messo mano in viso dopo aver toccato qualsiasi superficie circostante.

Mi sentivo così fiduciosa da lasciare che ciascuno facesse del mio compleanno ciò che voleva: non ho scelto né il dolce, né il ritrovo dei congiunti a pranzo o a cena, né il croissant mattutino su cui mettere la candela…una, per simbolo, che i numeri sono dettagli. Zero aspettative e un mare di affetto. Ovviamente anche io mi sono presa le medesime libertà, così quando in casa sono diventati tutti troppo chiassosi e frettolosi, mi sono avvalsa della facoltà genetliaca di non permanere oltre la soglia di sopportazione delle convivenze familiari in caso di quarantena durante una pandemia.

La conversazione più fiduciosa è stata sicuramente quella con Giulio. Abbiamo chattato su WhatsApp per stabilire che ci saremmo visti presto, addirittura domani, per andare al mare. Alla stessa maniera mi ha rassicurato sentire i miei amici al telefono. Quelli che in corcostanze normali avrei assembrato, dando appuntamento in una qualsiasi piazza della città. Chi viene, viene. Si brinda, si sta insieme.

Giulio, 6 anni, multitasking

I mei compleanni, negli anni, hanno avuto sempre questo di caratteristico: ho messo insieme gente che tra loro non c’entrava, amici dell’ultima ora e quelli più intimi. Per i miei 18 anni ci fu un mix di prossimità tale che qualcuno pensò fosse giusto liberare pure il maiale dallo stabbiolo. Per questo ha sempre avuto senso per me festeggiare: per avere la scusa di condividere con tutti la spensieratezza (magari col porco no).

Quest’anno non ho convocato nessuna assemblea, perché ognuno ha un lutto da cui riprendersi. Di recente, ho fatto i conti con i miei e ne è venuto fuori che sono pronta. Pronta ad essere un tutt’uno con quelle parti di me scomode, distratte, imperfette, antipatiche, ingenerose forse. Ma anche disciplinate, ligie e pure. Alla luce dei miei vent**** anni, possiamo anche sprigionare con forza tutte le nostre contraddizioni senza paura di sembrare lunatici o diversi. Sono cambiati i connotati di questo maggio da sempre prezioso: non ci sono più messaggi lunghi e lacrimevoli; palloncini o carte colorate. E nonostante questo ho passato una delle migliori giornate dopo tanto, tanto tempo. Perché ero qui, con me. Nel nuovo ombelico della mia esistenza, che non ha per forza le fattezze di fuga lontana, ma i colori inevitabili delle mie origini. È tutto il resto che cambia.

Il bene che ci facciamo

il bene che ci facciamo

Si trattava di svelarne il segreto forse, oppure aveva ragione mio nonno a sostenere con placida naturalezza che lo scalino più alto è quello della porta. Portava in seno una verità questo 4 maggio, la prima delle tante che man mano andremo verificando.

Di fatto, 65 giorni di quarantena hanno lasciato una ferita eccome, se adesso il nemico è l’aria che respiriamo. Se parliamo come le hostess nei teatri, a distanza di un ingresso dall’altro, se stamattina ho urtato contro l’ottimismo della mia amica Rachele, che mi richiamava alla fiducia, come un soldato alla guerra. Ci sentiamo ingessati, confusi, disorientati, anche se conosciamo i comma di tutti i decreti dal 4 marzo a oggi. Abbiamo cercato risposte nei FAQ (NB. redatti da Rocco Casalino), nella stampa che fa quel che può, nei video selfie dei sindaci dei nostri paesi che ribadiscono in un unico coro “Non è un liberi tutti” – sempre meglio comunque di quando dicevano “Il mostro è alle spalle”.

E non abbiamo torto. C’è confusione, spaesamento e paura. Ma la paura non produce nulla di buono, mai. Poi, mio fratello è arrivato a casa e la paura di colpo, è cessata.

Piegata dall’incertezza del domani, stavo per perdermi la forza dirompente di oggi. E avevo sottovalutato più di ogni altra cosa l’altro. Il bene che mi fa capirmi con lo sguardo con la mia amica Giusy, il gesticolare pieno di sensi, poter fare tesoro di tutto il vissuto che ci riguarda e che la reclusione aveva lasciato sospeso. Il bene che mi fa sorridere con gli occhi, che se ridevo per davvero saltava l’elastico della mascherina. Il bene che mi fanno i silenzi pieni di tutto se sto con le persone della mia vita, che non sono congiunti ma congiunzioni. I miei se, le mie e, i miei ma. Anche se – se ci impegniamo – una parentela al sesto grado la troviamo tutti qua.

il bene che ci facciamo
Runner su Piazzale Torre – Finale (PA)

Rischiavo di smarrire il di più di trovarmi qui, anche se nel momento peggiore. A fare i conti con la pandemia certo, ma dalla posizione privilegiata di chi può godere della combinazione perfetta di sole e mare, anche da un pontile andato distrutto. Perciò le concessioni sono preziose e vanno celebrate; perciò ho sentito il calore dell’abbraccio di chi oggi si è ritrovato. L’artificio di un provvedimento lascia fuori tanto, troppo, ma l’errore peggiore che si può commettere oggi è rimanere inibiti dalla paura. Le regole servono in virtù di un patto che stipuliamo, le regole ci salvano. Ma è l’onestà dei sentimenti a tenerci in vita. Perciò tiro un sospiro di sollievo perché rischiavamo di perdere tutto il bene che ci facciamo.

Il mio blog da un Insight

il mio blog da un insight

Ci sono diverse ragioni per cui mi ritrovo a scrivere su un sito web che porta il mio nome.

  1. Partiamo dalla più ovvia. Ero stufa di regalare i miei contenuti a Facebook o Instagram. Amo i social (almeno il loro potenziale buono), ma amo ancora di più gli spazi che hanno memoria. I social sono tardi, favoriscono l’oblio, corrono veloci, troppo, e svuotano di senso ogni cosa che ci finisce dentro.
  2. Non so se una epidemia globale è il momento migliore per far nascere qualcosa, ma sicuramente so che è rimasta una linea molto sottile a dividere il mio spirito vitale dal baratro della tristezza, e questa linea, spezzata, aperta e spigolosa, vuole essere generativa.
  3. Qualcuno crede in me e nel mio progetto. Ho impiegato diversi anni a distinguere il modo in cui gli altri mi guardano da quello in cui io guardo me stessa. Ero solita perdermi nella loro idea di me, senza badare alle incongruenze che sapevo benissimo ci fossero. E ci sono ancora. Ma adesso quello scambio è possibile e mi riempie il cuore.
  4. Sono unica. Non nel senso di fantastica o inimitabile, sono semplicemente non replicabile. E mi occorre un luogo dove esprimere i miei tratti; così ho comprato casa con annesso garage – come mi spiegano dal reparto informatica – ed è in corso un trasloco. Invero, porto poche cose essenziali: le mie idee. Uno spirito critico che osserva alcune cose e ne ignora altre, ma per questo ho portato con me anche la curiosità e qualora servisse, la tolleranza. Ho la consapevolezza di non piacere a tutti, di essere utile anche a meno. Ma ho ego a sufficienza per stare sulla piazza.

A questo punto vale la pena spendere due parole sull’arredo scelto per il mio blog. Un insight è un’intuizione, la percezione netta di qualcosa dentro o fuori di me. Ha a che fare con consapevolezze ed emozioni, in generale con i movimenti che facciamo. Le forti limitazioni di queste settimane, unitamente all’ idea sempre più indefinita di futuro, mi provocano grande tristezza. Mestizia, ma non come quando ci si acquatta sul letto con ripresa della telecamera dall’alto e colori grigi. La mia tristezza è così subdola da inchiodarmi al vuoto mentre sto per abbassarmi per uno squat durante il mio allenamento giornaliero. Gli occhi si riempiono di lacrime, la vista si appanna, poi respiri, un piccione sbatte sulla tettoia e ti riconnetti bruscamente nel qui e ora.

In quel momento, l’incauta scelta della playlist Hit Italiane compiuta precedentemente, ti spara il ritornello di #E mi sono innamorata ma di tuo marito# e il Cristiano Malgioglio dentro di me si sprigiona, inizio ad ancheggiare, addirittura incrocio i passi come avrei voluto fare da sempre su una pista ed esulto gettando le mie lunghe braccia bianche all’aria, perché wow, il mondo va a rotoli ed io apro un blog. L’intuizione quindi, è oggi questa indecente compresenza della mia collera con la mia grande voglia di fare a modo mio.

Adesso non resta che visitare tutte le stanze. Fatevi un giro, sentitevi liberi di toccare e fatemi sapere che ve ne pare. C’è ancora qualcosa da sistemare, ma non ho fretta.

Benvenuti!