La isla bonita

C’è un’autostrada che percorre in circolo l’intera isola, come se fosse il grande raccordo anulare, a Gran Canaria. E ci sono centinaia di auto noleggiate da chi atterra all’aereoporto da mezza Europa, che risalgono la GP1 verso Nord, in direzione Las Palmas, la capitale, o verso Sud, nelle terre desertiche della rinomata Maspalomas. Ai lati si alternano zone commerciali e rurali, qualche multinazionale e molte piccole imprese del posto, forse nate dall’intuito di chi tra una fornitura e un servizio, ha scelto 27 gradi tutto l’anno per vivere.

Non lo so, a dire il vero, se la temperatura è davvero così stabile. Una barista cubana, cresciuta in Italia, e trasferita da otto anni nella più grande delle isole Canarie, ci ha raccontato che da giugno a inizio settembre i gradi diventano 40°-45°, e nei giorni di scirocco la percezione del calore è intollerabile e i termometri segnano 50°. Lo ha confermato anche la donna che gestisce un ristoro a San Aguimés, veneta, sposata con un canario da 23 anni. Si è stufata – dice – durante la sua pausa pranzo, mentre mangia paella, il piatto che propongono la domenica, ma la madre, che adesso è in pensione, ha scelto di trascorrerla lì, tra la sabbia e il fragore dell’oceano. A pochi passi, la spiaggia di San Aguilà ci aveva regalato frescura all’ombra delle foglie di palma e un’acqua fresca e pulita, nonostante le onde irruenti. Era l’ultimo di sette giorni in giro per l’isola, insieme con la mia amica Martina, fedele compagna di viaggio, esperta autista su strade che hanno almeno tre corsie, sensibile e amorevole gattara, e giudice spietata delle papas arrugadas.

Era il giorno della “saudage”, ma non mi sentivo triste per la fine del viaggio, o per il ritorno alle mie attività. Sentivo di avere dato, di avere preso, e che ogni chilometro dalle gomme della nostra Peugeot 208 ibrida fosse stato consumato con giustezza. E anche freni, frizioni e acceleratori. Abbiamo portato noi stesse in un’avventura continua e costante, potrei dire. Mi piacciono le avventure, molto più di quanto voglia ammettere, come quella durante la tratta di ritorno dal faro di Punta de Sardinas. Il navigatore ci aveva condotte sullo sterrato ma la strada a un certo punto finiva, lasciando spazio a fossi e fango. Nessuna segnaletica e nessun orizzonte – che è il colmo su un’isola – solo casupole di cemento e lo strapiombo sul mare. E’ stato buffo in quel momento ridurci al silenzio, calare il volume di Los40, e ricominciare dal nostro intuito – che uno in vacanza, delega un po’ tutto alla leggerezza, si solleva dall’obbligo di sapere sempre che cosa fare, finché non deve togliersi da un guaio.

Siamo tornate incolumi al nostro appartamento di Agaete, squisito borgo a nord dell’isola, il porto prescelto per salpare verso Tenerife e la località delle più suggestive piscinas naturales. Sono rimasta colpita, a tratti stordita, dalle possibili sfaccettature e incastri della natura: come una barriera posta all’oceano possa diventare un tranquillo bagno e come una lastra di marmo possa essere incastonata tra le rocce per diventare un balcone appeso sul vuoto, a destra e sinistra la montagna, sotto la scogliera, e tutto intorno vento, vento, vento. Abbiamo giocato, a Gran Canaria. Eravamo felici di essere lì, così ci siamo prestate alle pose più finte, pur di incastrarci anche noi su quelle rocce.

Potrei dire ancora che Las Palmas non ha nulla da invidiare alle nostre città costiere, che a Galdar è stato bello perdersi un pomeriggio, dopo aver trascorso diverse ore seminudi sulla spiaggia, noi, quella coppia anziana che faceva su e giù camminando, alcuni ragazzi con il loro cane e una donna magra e muscolosa, con le cuffie a filo e la visiera. Potrei dire anche dell’uomo da cui ho comprato alcuni souvenir a Mogàn, io intenta a prelevare per l’ennesima volta il portafoglio dalla tasca più recondita del mio zaino e lui a porgermi lusinghe che non percepivo, per via dello spagnolo. Martina allora, ha richiamato la mia attenzione, spiegandomi che l’uomo stava chiedendomi il numero. Ho voltato allora il mio sguardo su di lui, sorridente e speranzoso, e rigida come una colonna romana, tra tutte le opzioni di risposta, ho scelto di stringergli la mano. Il mio modo singolare per dire <<grazie, no, non dispiacerti però, non ritengo ammissibile per la mia persona emotivamente instabile una tale lusinga>> si è completamente frantumato il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, quando sono entrata in un market sperduto su un pezzo dimenticato di litorale. Varcato il primo corridoio alla ricerca di un panino da imbottire, mi imbatto – pur nel vuoto silenzioso di quella bottega buia – in un ragazzo superlativamente bello. Era ingessato dietro il banco dei salumi, alto, dalle spalle larghe e due braccia importanti, così classica la sua bellezza da sembrarmi impossibile che fosse lì, nel market di San Aguilà, ad affettare mortadella spagnola di domenica mattina.

Avrei voluto dirglielo, “sei bello” e forse sono stata pure sul punto di farlo, salvo sentirmi impropria. E timida. E stupida. E tuttavia, piena. La isla bonita ha visto poi monoliti, burroni, centri commerciali d’intrattenimento, feste sulla spiaggia, musica spagnoleggiante, parcheggi a pagamento, bungalow, pessimi caffè, ottime tapas, tanta crema solare, una quasi insolazione, un nuovo cappello, modi nuovi di conoscere Martina, la mia ansia preventiva per il trasloco che sarebbe arrivato, foto, pose, coloriti della pelle, l’ultima paella, decine di distrazioni, granelli di sabbia e vista sulle dune. Un ritorno, un ricordo, un abbraccio. Momenti di incomprensione e la più bella sintonia con me stessa, al contempo. Andateci, alle Canarie.

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