Funziona ancora

Sono tornata in analisi. L’ho deciso un venerdì, credo. Ricordo quale maglia indossavo, ce l’ho almeno dal 2018, smanicata, con il colletto e dei bottoni, di colore blu scuro e con dei piccoli fiori bianchi a fantasia. Ne ho tre identiche come modello, passate, passatissime, come se il 2018 fosse remoto. Invece, sono solo sei anni fa. Stavo per laurearmi in comunicazione, avevo trascinato la mia famiglia a Roma per la proclamazione, stavo risolvendo un po’ di problemi paralizzanti come l’ansia e pesavo 51 chili. Fu un momento tanto complesso quanto entusiasmante.

Anna mi aveva regalato un completo intimo per il compleanno, un mese prima. Oggi è logoro, ma il ricordo di quel pomeriggio sul lungomare di Cefalù nitidissimo. Era il giorno del mio compleanno ma piangevo a dirotto, ero spaventata a morte per tutto quello che stavo capendo e per tutto quello che avrei vissuto di lì a poco. L’idea di indossare un bel completo ed esporre il mio lavoro per poi festeggiare mi sembrava impossibile. Davvero, mi sembrava impossibile. Raccontavo le mie paranoie al telefono a Martina, come il terrore di stare male fisicamente, di dover correre all’improvviso in bagno – ricordo alla perfezione anche quella telefonata, ero seduta sul divano giallo ocra della cucina di casa, fuori il primo caldo; lei mi rispose, ironica: “Anche nel Lazio abbiamo i bagni!”. Trovai geniale quella risposta. Mi sollevò. Non ero la sola a vedere quanto spavento provavo, e – mi fu chiaro solo molto dopo – non ero mai stata tanto al sicuro come nel periodo della psicoterapia.

Insomma, qualche mese fa, un venerdì di giugno, mi ero buttata sul divano al rientro dall’ufficio, derogando la cena, la doccia, tutto (sempre a me stessa, ma alla me del futuro)…e avevo iniziato a piangere a dirotto.
Singhiozzavo, avevo male alla testa e agli occhi dopo pochi secondi. L’angoscia mi stava divorando. Per cosa? Pensavo e vedevo lucidamente che tutto quello che sentivo mio, che avevo costruito alla velocità della luce, e da zero e X, almeno due vite diverse, due città che non erano la mia, un’altra laurea, un lavoro soddisfacente, l’indipendenza economica, una metropoli – quella in cui vivo attualmente – con decine di possibilità, nuove relazioni, nuovi incontri…puff: tutto fine a se stesso. Cui prodest?

L’insignificanza. Ero assalita da un senso di nulla tremendo, avevo toccato appena un nuovo inquietante indizio di vita, che faceva calare una nebbia fitta su tutte quelle strutture abilmente issate negli ultimi due anni. Le domande che erano sorte non potevo ignorarle più. Questioni diverse, di una persona diversa, non priva di strumenti, ma non paga abbastanza. In mezzo, gli eventi. Le relazioni, le ferite aperte, l’indifferenza, i miei perché e i come, che mi spingono, mi orientano, e talvolta, mi fanno cadere. Non posso biasimarmi: se appena mettiamo il naso oltre le nostre incessanti routine, il caos è totale. Solo per citare alcune preoccupazioni di questo tempo: difficoltà di accesso all’ acquisto di una casa di proprietà, e di contro, elevato costo degli affitti, precarietà lavorativa, clima politico e sociale incerto, crisi climatica, crisi relazionale.

Stavolta il divano è quello della casa in affitto a Roma. L’ho scelto io, come il letto, il tavolo, altri mobili. Ci ho passato gli ultimi tre pomeriggi a rimuginare su ponti pendenti che continuano a comparirmi in sogno. Spesso, mi sono sorpresa a sospirare rumorosamente: sulla strada verso la palestra, mentre pulivo il bagno. Ho cucinato in modo sproporzionato alla mia fame e alla mia necessità (qualcuno vuole polpette in umido con i piselli?). L’ansia non se ne è mai andata veramente, torna quando serve. Lo so come funziona. Con la grande differenza che l’ansia non è più il punto. L’età adulta mi ha reso più pragmatica, mi spinge costantemente verso soluzioni alle cose. Sto per prendere un’automobile, finalmente, posso caricare una cassa d’acqua nel cofano senza piegarmi per strada. Posso anche andare a cena senza dover rimanere a dormire dagli ospiti. Posso portarmi al mare. E devo fare i conti con il terrore di essere schiacciata dall’insolenza di questa città, di cui il traffico è la rappresentazione plastica.

Le questioni su cui mi interrogo adesso mi divertono anche: perché non mi sono più inserita in comitive? Perché non ascolto musica rap? Perché non ho mai fatto teatro? Perché non provo un corso di cucina amatoriale? A cosa credevo quando credevo in un ideale? Ho ideali? Perché ho questo incessante e inesauribile bisogno di essere vista e riconosciuta? Perché mi sento sola e voglio al contempo preservare il mio essere spaiata? Perché mi mostro così trasparente e al contempo così enigmatica?

Così, ho scelto di dare dignità di parola a tutti questi pensieri, li ho incartati e li riconsegno a me stessa, ad alta voce, vedendogli mutare forma, sfumare, o al contrario, addensarsi moltissimo. “Vediamo dove andiamo…” – mi è stato detto. E magari, funzionerà ancora.

Insomma, quel capello bianco

Fate mai caso ai nei sul vostro corpo?
A meno che non sia richiesto da una visita in particolare, o qualche strana macchia che appare dove prima non c’era, i nei che stanno lì pressoché da sempre, che fanno parte della nostra figura, non attirano l’attenzione e, al contrario, ci caratterizzano.

Il mio primo capello bianco invece, no. L’ho notato eccome, spuntato non so bene da dove, solo et pensoso, in cima al cuoio capelluto, che verte a destra e si spana come una vite che ha girato e rigirato su se stessa disallineandosi poco per volta. Bianco, inequivocabilmente, tra le centinaia di sfumature che raffreddano il mio colore biondo cenere. Nel bagno dell’ufficio, qualche settimana fa, complice la luce forte, l’ho guardato per bene, spostando le ciocche. Poi, ho chiesto conferma a qualche collega se fosse proprio bianco o se avessi visto male. M’ha fatto effetto. Non è un problema, ma lì per ì l’ho vissuta male. Poco dopo, l’ho scordato. E poi, ho compiuto gli anni. 32, per la precisione. Non 30, che uno svolta e celebra, non 31 che uno si è appena ambientato in città e sboccia una sera in un locale. 32, arrivati piano, cadenzati dalle settimane di questa primavera guasta. Mi hanno suggerito “Celebra!” – e ho abbozzato una festa che per pigrizia ho completato solo a metà.

Almeno, così credevo, fino a quando non sono rimasta sul divano di casa con alcuni amici che si erano intrattenuti ancora un po’ e – come spesso accade – ho solo realizzato che le cose che preferisco non sono mai veramente articolate o complesse. Scelgo solo strade tortuose per realizzarle. Stiamo insieme, mangiamo qualcosa di buono che preparo io, beviamo quello che piace a tutti e mette allegria, stiamo all’aperto. Se ti va, proponi un gioco, se vuoi parlare con qualcuno in particolare, cercalo. Ringrazia, se hai dubbi chiedi, se hai un’idea, proponila. E mi gratifica, in questi casi, l’accoglimento.

Alle 13.30 pioveva. Il tavolo del giardino era già bagnato dall’acqua, eccetto la parte che avevo ricoperto con un telo di plastica. Man mano che gli amici e i colleghi arrivavano, suonavano il citofono, e salivano dentro casa, riorganizzata in extremis per effettuare il pranzo al coperto. Alle 15 il cielo era di nuovo aperto, ma non ci avevamo fatto caso, finché non ho invitato tutti a scendere, e infine, a portar via le cose da gettare ci abbiamo pensato tutti. Semplice, bello. Neanche troppo sporcato dall’immancabile ansia del giorno: ero convinta che se non avessi occupato per tempo il tavolo che preferivo del giardino, i soliti condomini che ogni giorno trascorrono delle ore in cortile, l’avrebbero monopolizzato. E non avevo voglia di contraddire qualche vecchietto rincuorato dalle proprie abitudini. Quel che è certo, è che oggi, li abbiamo impegnati tantissimo: “Chi sono? Chi di loro abita qui? Avranno lasciato pulito?”.

Non ho contezza, al contrario, delle tematiche che potrebbero coinvolgerli tra loro, se si reputano amici, o se si giudicano, se si fanno i conti in tasca o si stimano. Gli ho sorriso come avrei sorriso ai ragazzetti che giocavano a palla più in là, con l’approccio identico sempre. Gli ho sorriso perché – loro non lo sanno – ma stavo realizzando un mio desiderio. Stavo bene e sentivo che tutto era in ordine – eccetto la maniglia della mia stanza, ma questa è un’altra storia. Chissà come stanno loro, con tutti i capelli bianchi sulla testa. Quanti desideri avranno espresso sulle candele che hanno soffiato? Di che parlano i loro sogni? Sognano ancora?

Ho scoperto tardi che desiderare è una pratica umana sana e importante. Non mi ricordo nemmeno cosa sono stati i miei compleanni prima che iniziassi io a scegliere per me. Hanno iniziato dei buoni amici, prima ancora che da sola, a certificare con i loro gesti che andava celebrato ciò che ero, e che si poteva protendere a ciò che desideravo essere senza giudizio o paura. Ricordo quel biglietto di un concerto, il completo intimo del 2018 che conservo ancora, orecchini in argento, quadri, anelli, lampade e viaggi.

Perciò, grazie per i bei regali pensati, non dovevate. Una delle cose che preferisco provare nella mia vita è essere vista, quale che sia l’ambito, l’interlocutore, la circostanza, se mi riconosco, possiamo avere una qualche relazione. Ed è una sensazione davvero, davvero commovente. Questo vale per ciascuno dei gesti che ho ricevuto per il mio compleanno, incluse le chiamate tardive, che bello è, volersi dire bene a tutti i costi. Grazie, ancora! Ci tengo, in particolare, che questo grazie vi restituisca anche qualcosa. Qualche settimana fa, al concerto di Vasco Brondi, tra una canzone e l’altra, lui si è preso un paio di minuti per proclamare questa poesia che mi ha colpita, almeno per due ragioni: per quello che evoca e perché ha scelto di proclamarla lì, in quel modo, mettendosi ancora più a nudo, più di quanto un cantautore faccia già portando sul palco le sue canzoni. Credo che poche altre cose mettano a nudo l’anima come le parole. Ci rivelano, ci raccontano, le parole che scegliamo siamo noi stessi, nelle nostre molteplici versioni. Avrei dovuto proclamarla oggi, forse, sotto la pioggia magari, sicuro, voglio condividerla:

Ti offro strade difficili, tramonti disperati,
la luna di squallide periferie.
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.

Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto,
avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.

Ti offro qualsiasi intuizione sia
nei miei libri, qualsiasi virilità o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.

Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato, in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
nè coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.

Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te.
Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta. – Borges

Lampade da terra

lampade da terra

Sono entrati molti oggetti in questa casa, da quando ci ho portato dentro le cose della mia vita. Nel pavimento della camera da letto c’è ancora un angolo con un paio di scatole che non ho svuotato. Contengono cianfrusaglie accumulate in 18 mesi a Roma e roba nuova per sostituire quelle che si consumano, come le spugne da doccia – che ahimè, uso ancora – non avendo trovato una valida alternativa.

E prima di altri, quando non sapevo ancora bene come avrei disposto certi mobili in soggiorno, è entrata una lampada da terra, con doppio lume, uno fisso verso l’alto, e l’altro orientabile in più direzioni, più forte e intenso, adatto alla lettura o alle foto quando tento di sembrare pensierosa sui miei social. Atemporali, eterne, senza l’esigenza di seguire correnti architettoniche. Oggetti di Design che conservano un fascino costante. Color argento, minimal, non ho avuto grandi dubbi a sceglierla, mi serviva.

Mi tiene compagnia ogni sera da quasi cinque mesi ormai, mentre ceno, mentre sbrigo la burocrazia al pc, mentre scrollo Tik Tok, mentre leggo il libro mantra di questo ultimo periodo fitto ma tedioso. Se la spengo, è ora di andare a letto. Se la accendo, è arrivato il momento della giornata in cui mi riconnetto a me stessa, allo spazio che ho scelto per me, ai pensieri scroscianti come ruscelli nei boschi del centro Italia. E anche quando fa giorno, quella lampada rimane al suo posto, a presidiare l’angolo preferito di casa, il divano un po’ letto, un po’ scrivania, un po’ tavolo e un po’ ripiano, a volte, attaccapanni e persino poltronissima, quella sera che casa era piena di colleghi.

Essenziale. Come nel gioco, le regole. Fa luce quanto basta e quando serve – per tutto questo primo inverno, che per me doveva essere un inizio, e invece si è rivelato solo un prolungamento faticoso. Me ne sono accorta qualche giorno fa, nel pomeriggio di un mercoledì qualunque, mentre camminavo lungo Via Alessandro di Torlonia, in direzione Piazza Bologna, per raggiungere lo studio del mio medico di base, che avevo scelto per comodità, ai tempi, sotto casa. Così, ci sono tornata dopo un bel po’ in quel pezzo di città che mi ha reso le cose facili all’inizio, così viva e centrale, piena di tutti quei servizi utili, come l’estetista, il supermercato, il bar, l’edicola, la farmacia, e la metro, nel raggio di 200 metri. Le avevo provate tutte, le pizze a taglio di zona. E avevo smesso di usare il navigatore, da quelle parti. Maps è la misura del conosciuto, e dove non ti serve il navigatore a Roma, sei a casa. Vale anche per chi a Roma è cresciuto!

Mi è servito, come la mia lampada, a vedere chiaro che cosa era successo nel frattempo. Quelle sono state anche le strade e le case da cui allontanarmi il prima possibile, perché non aderivano più alle mie esigenze, evolute in poco tempo. Abitazioni vecchie e fatiscenti, appartamenti condivisi, regole non scelte e persone inabitabili. Così ho scelto un altro CAP, ben diverso, nel quadrante opposto, dove riscrivere un pezzo di storia per me. Perciò, ho caricato tutto sul furgone di Giammarco, sono salita a bordo anche io e abbiamo imboccato la tangenziale in direzione ovest. L’ho licenziato con 50 euro e una stretta di mano, perché avevo fretta di chiudere la porta.

Tuttavia, non è bastato a risolvere. Il cambiamento è un processo. Ha un inizio cieco e inconsapevole, prende campo da qualche parte e ti muove – poco a poco – dal punto in cui eri verso quello che non conosci ancora. Mi fanno notare alcuni amici, che il mio dire spesso ha pretesa di universalità. Forse un po’ hanno ragione. Non è presunzione, è quel dannato esercizio costante ad ascoltare, osservare, sentire le viscere, usare l’intuito e tenere sempre alte le difese. Se è come dico, allora, non c’è nulla da rimettere in discussione. Ma questo non mi salva dalle trappole. Non lo ha fatto quando i 16 metri quadrati di una stanza mi sembravano la scelta migliore per me, e invece sono diventati una prigione. Non lo ha fatto quando mi sono fidata di una, due, forse tre nuove conoscenze che irrompevano nella mia vita con forza, battendo i pugni per avere la mia attenzione. E poi, mi hanno scartata.

Com’è naturale che accada, quando si incrociano storie e caratteri. Il fascino dell’altro risiede proprio nel suo potenziale iniziale: rivelarsi in qualsiasi modo. Chiunque esso sia, infine, appare. Quale impatto avrà avuto nel frattempo sulla tua vita?
Irriverenti, sarcastici, dolci. Ma senza coraggio.
Pragmatici, brillanti e forti. Ma senza altruismo.
In ciascuno di questi aspetti, e in ogni momento, c’ero anche io. Non faccio mai eccezione. Più volte di quanto crediamo, l’altro siamo noi. E vestirne i panni è scomodo.
Siamo lampade da terra.

La isla bonita

C’è un’autostrada che percorre in circolo l’intera isola, come se fosse il grande raccordo anulare, a Gran Canaria. E ci sono centinaia di auto noleggiate da chi atterra all’aereoporto da mezza Europa, che risalgono la GP1 verso Nord, in direzione Las Palmas, la capitale, o verso Sud, nelle terre desertiche della rinomata Maspalomas. Ai lati si alternano zone commerciali e rurali, qualche multinazionale e molte piccole imprese del posto, forse nate dall’intuito di chi tra una fornitura e un servizio, ha scelto 27 gradi tutto l’anno per vivere.

Non lo so, a dire il vero, se la temperatura è davvero così stabile. Una barista cubana, cresciuta in Italia, e trasferita da otto anni nella più grande delle isole Canarie, ci ha raccontato che da giugno a inizio settembre i gradi diventano 40°-45°, e nei giorni di scirocco la percezione del calore è intollerabile e i termometri segnano 50°. Lo ha confermato anche la donna che gestisce un ristoro a San Aguimés, veneta, sposata con un canario da 23 anni. Si è stufata – dice – durante la sua pausa pranzo, mentre mangia paella, il piatto che propongono la domenica, ma la madre, che adesso è in pensione, ha scelto di trascorrerla lì, tra la sabbia e il fragore dell’oceano. A pochi passi, la spiaggia di San Aguilà ci aveva regalato frescura all’ombra delle foglie di palma e un’acqua fresca e pulita, nonostante le onde irruenti. Era l’ultimo di sette giorni in giro per l’isola, insieme con la mia amica Martina, fedele compagna di viaggio, esperta autista su strade che hanno almeno tre corsie, sensibile e amorevole gattara, e giudice spietata delle papas arrugadas.

Era il giorno della “saudage”, ma non mi sentivo triste per la fine del viaggio, o per il ritorno alle mie attività. Sentivo di avere dato, di avere preso, e che ogni chilometro dalle gomme della nostra Peugeot 208 ibrida fosse stato consumato con giustezza. E anche freni, frizioni e acceleratori. Abbiamo portato noi stesse in un’avventura continua e costante, potrei dire. Mi piacciono le avventure, molto più di quanto voglia ammettere, come quella durante la tratta di ritorno dal faro di Punta de Sardinas. Il navigatore ci aveva condotte sullo sterrato ma la strada a un certo punto finiva, lasciando spazio a fossi e fango. Nessuna segnaletica e nessun orizzonte – che è il colmo su un’isola – solo casupole di cemento e lo strapiombo sul mare. E’ stato buffo in quel momento ridurci al silenzio, calare il volume di Los40, e ricominciare dal nostro intuito – che uno in vacanza, delega un po’ tutto alla leggerezza, si solleva dall’obbligo di sapere sempre che cosa fare, finché non deve togliersi da un guaio.

Siamo tornate incolumi al nostro appartamento di Agaete, squisito borgo a nord dell’isola, il porto prescelto per salpare verso Tenerife e la località delle più suggestive piscinas naturales. Sono rimasta colpita, a tratti stordita, dalle possibili sfaccettature e incastri della natura: come una barriera posta all’oceano possa diventare un tranquillo bagno e come una lastra di marmo possa essere incastonata tra le rocce per diventare un balcone appeso sul vuoto, a destra e sinistra la montagna, sotto la scogliera, e tutto intorno vento, vento, vento. Abbiamo giocato, a Gran Canaria. Eravamo felici di essere lì, così ci siamo prestate alle pose più finte, pur di incastrarci anche noi su quelle rocce.

Potrei dire ancora che Las Palmas non ha nulla da invidiare alle nostre città costiere, che a Galdar è stato bello perdersi un pomeriggio, dopo aver trascorso diverse ore seminudi sulla spiaggia, noi, quella coppia anziana che faceva su e giù camminando, alcuni ragazzi con il loro cane e una donna magra e muscolosa, con le cuffie a filo e la visiera. Potrei dire anche dell’uomo da cui ho comprato alcuni souvenir a Mogàn, io intenta a prelevare per l’ennesima volta il portafoglio dalla tasca più recondita del mio zaino e lui a porgermi lusinghe che non percepivo, per via dello spagnolo. Martina allora, ha richiamato la mia attenzione, spiegandomi che l’uomo stava chiedendomi il numero. Ho voltato allora il mio sguardo su di lui, sorridente e speranzoso, e rigida come una colonna romana, tra tutte le opzioni di risposta, ho scelto di stringergli la mano. Il mio modo singolare per dire <<grazie, no, non dispiacerti però, non ritengo ammissibile per la mia persona emotivamente instabile una tale lusinga>> si è completamente frantumato il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, quando sono entrata in un market sperduto su un pezzo dimenticato di litorale. Varcato il primo corridoio alla ricerca di un panino da imbottire, mi imbatto – pur nel vuoto silenzioso di quella bottega buia – in un ragazzo superlativamente bello. Era ingessato dietro il banco dei salumi, alto, dalle spalle larghe e due braccia importanti, così classica la sua bellezza da sembrarmi impossibile che fosse lì, nel market di San Aguilà, ad affettare mortadella spagnola di domenica mattina.

Avrei voluto dirglielo, “sei bello” e forse sono stata pure sul punto di farlo, salvo sentirmi impropria. E timida. E stupida. E tuttavia, piena. La isla bonita ha visto poi monoliti, burroni, centri commerciali d’intrattenimento, feste sulla spiaggia, musica spagnoleggiante, parcheggi a pagamento, bungalow, pessimi caffè, ottime tapas, tanta crema solare, una quasi insolazione, un nuovo cappello, modi nuovi di conoscere Martina, la mia ansia preventiva per il trasloco che sarebbe arrivato, foto, pose, coloriti della pelle, l’ultima paella, decine di distrazioni, granelli di sabbia e vista sulle dune. Un ritorno, un ricordo, un abbraccio. Momenti di incomprensione e la più bella sintonia con me stessa, al contempo. Andateci, alle Canarie.

Giocare, a quest’età

giocare

Pare che il caldo anomalo di questi primi giorni di giugno lascerà il posto a una forte tendenza temporalesca a breve. La goccia fredda sarà un toccasana per i miei parziali equilibri corporei, impegnati a non cedere allo svenimento di un’estate in città da trascorrere con un lavoro full-time. Se ci mettiamo che la città in questione è Roma, il quadro si complica.

Roma incontenibile

Vivo nella capitale da due mesi, un tempo abbastanza lungo per comprendere che Roma non si può contenere: le possibilità d’azione che offre sono tante da sembrare illimitate e così tante da rendere necessaria una scelta, costante, su come gestire il mio tempo. La linea urbana 168 per esempio, è l’unico modo per rientrare a casa da lavoro prendendo un solo mezzo, ma anche quella che richiede un’ora o più per compiere il tragitto, quando il tram e un passo svelto mi consentono di essere sotto il getto della doccia dopo 40 minuti. Lo stesso lasso di tempo al mattino è l’unico che riesco a dedicare alle notizie del giorno, della settimana, alle cose del mondo che sembrano essersi dissolte nel mio quotidiano, come un ghiacciolo dimenticato fuori dal congelatore.

Il tempo è un concetto estremamente relativo.

Ne sanno qualcosa i miei fianchi, la pancetta ormai inarrestabile, la buccia d’arancia sulle mie gambe che meritano di più, ma non sono prioritarie. Tantomeno, lo diventano il venerdì sera, quando mi legittimo a staccare l’interruttore e mi nascondo dai nauseanti input delle stories degli altri su Instagram. Cene fuori e spiagge. I più intraprendenti vanno ai concerti, da qualche settimana poi, matrimoni ovunque. Invidiabile. Ieri, per tenere fede a un appuntamento per bere qualcosa con un amico ho bisticciato tra me e me per un’ora, prima di costringermi a raggiungerlo, nonostante il sonno. Ho fatto bene però, perché rimanere connessi con il mondo è l’unico modo per conoscere, di riflesso, chi siamo. Un buon motivo per fare qualcosa è ascoltare quanta voglia abbiamo di farla. Sono andata a prendere qualcosa da bere con un amico perché mi andava e non ho raggiunto il centro in bici come avevo ipotizzato di fare perché non ne avevo voglia.

Come la guerra la primavera

I ponti possono essere trascorsi a macinare una serie TV senza che nessun capoluogo di provincia si offenda per la mia assenza. Al mare? Quando mi depilerò e mi sentirò pronta a non badare alle mie forme. In fondo, la guerra è finita solo pochi mesi fa e tutto intorno è ancora un campo di battaglia. I grandi cambiamenti infatti, sono simili alle battaglie: richiedono una enorme accelerazione e di affrontare i propri limiti, compiere molte scelte in poco tempo, restare lucido e valutare nell’arco di venti giorni in quale zona della città prendere casa, se condividerla, quanto spendere, quali vincoli, quali vantaggi, quali rischi.

Nuove storie

E dopo, solo dopo la firma sul contratto, passato lo straccio pure sui muri che nessuno puliva da anni, compiuta la trasferta all’Ikea per acquistare ciò che non sapevi essere essenziale, un conto prosciugato, 30 anni suonati, e l’imperversare della stagione delle allergie, apri gli occhi la mattina e sei ancora viva, non ti sei fermata neanche un secondo, neanche un pianterello, non ti sei voltata indietro, non sei scappata e puoi vedere ora i tuoi giorni prendere forma, le persone iniziano ad avere volti, alcuni ti piacciono, altri no. Non basta dare un nome alle strade, alcune le riconoscerai per quell’aiuola gigante, per le mura di Porta Pia, o per la strettoia prima di arrivare sulla Salaria, il supermercato cento metri prima di Piazzale Ungheria ti ricorda dove devi scendere. Sul tram c’è sempre più spazio rispetto al 360, alla fermata di Lega Lombarda c’è una famiglia di ispanici che si muove verso Villa Borghese. Parlano velocemente, i toni sono alti, sorridono tra di loro; a volte, “mamà” è in ritardo e quella che presumo sia la figlia urla dalla banchina qualcosa che somiglia a “corri”. E quella corre. Non hanno mai perso un bus.

Tetti

La vista privilegiata di un ottavo piano ha di buono che dei palazzi ti si mostrano soprattutto tetti e mansarde. Delle case degli altri invidio però l’arredo di chi è lì non di passaggio. I mobili accennati di un soggiorno, una cornice d’argento, il televisore sui programmi quiz prima di cena sono segni inconfondibili della vita di chi possiede una dimora, vi risiede stabilmente e in un futuro lontano o vicino che sia, lascerà quella casa a un erede. Invecchiano così i palazzi, con le storie di chi ci vive dentro. Con l’afa anomala di questo lungo ponte ho bramato un terrazzo chiuso a cinta da piante e fronde, un tavolo, delle poltrone da esterni, le luci tutte intorno come ho visto solo sui tetti di Roma. Pensiamo gli spazi perché possano essere condivisi e li condividiamo per non sentirci soli. Si va a vivere insieme per contenere le spese, ma anche per trovare almeno un volto quando si torna la sera. E chi va a vivere da solo, si assicura che ci sia un divano-letto da aprire all’occorrenza.

Viste

Io non ho ancora abbastanza spazio neanche per i contenitori della differenziata, perciò non faccio testo, ma a Roma neanche la differenziata fa testo. Che dolore! Nel suo essere incontenibile, soprattutto le infrazioni non fanno eccezione. Accanto ai cassonetti trovi i tavoli di un ristorante e decine di persone dormono sui cartoni nei pressi delle metropolitane. Le stazioni hanno un doppio volto sempre: sorgono hub di ultima generazione tutto intorno, pieni di finestre a vetri e sui marciapiedi formicolano decine di perdigiorno, mascalzoni o solo poveracci. Forse, la metafora della città eterna è vera anche per quello che non è monumentale, forse è soprattutto chi ci sta a credere eterne queste strade, queste mura, e con esse le sue contraddizioni. Ho ancora un approccio timido a tutto questo, come se non mi riguardasse, come se fossi ospite qui e non avessi invece scelto di starci. Ho creduto fosse meglio rimanere trasparenti per un po’, ora però, mi sembra di avere in mano le chiavi di una porta da aprire. Non devo chiedere il permesso: quel poco che ho preso, è mio, senza ombra di dubbio.

Possibilità

Mio il lavoro, la stanza, miei i collegamenti fino a Settebagni, se serve. Miei sono i sì e i no, giocare, trovarmi e ritrovarmi in pensieri che non avevo mai fatto finora: voglio una casa con un balcone terrazzo e mobili che non siano degli anni ’60, persone ragionevoli a cui sottoporre un’istanza, un dialogo aperto sulle opzioni possibili, tenendo conto della possibilità di incontrare chi voglia fotterti, alleati e solitudini, paranoici e inflessibili, ma anche complici e compagni di pranzi o merende. Serve tempo, ma anche una domenica a letto, saltare la lezione di inglese almeno una volta, cucinare le polpette al sugo e non cucinare per giorni. Serve assecondarsi, per conoscersi, un intuito di cui fidarsi e tradirsi, a volte. Tradire le mie convinzioni, dare spazio al dolore che prova chi non riesce a darsi come vorrebbe, ascoltarlo fino a quello che sembrerà un altro colpo di teatro, ma non sarà stato scritto da un getto creativo della mia penna, non succederà per caso: sarà stato seminato con fatica, come ogni guerra è destinata a concludersi con la rinascita.

Un nuovo indirizzo a Roma

l'indirizzo ce l'ho

Ieri al parco – mentre i pollini congestionavano le mie vie respiratorie – a pochi metri da me scrivente, una donna anziana seduta su una panchina, parlava. Non c’era alcuna altra presenza umana o animale a cui potessi presumere si rivolgesse, non c’era un telefono all’orecchio, né auricolari. Posso dire con ostinata certezza che parlasse sola, ma sarebbe solo la mia verità. Avrà avuto il suo interlocutore, reale o fittizio o entrambi. Ho deciso di dare per buona anche la sua verità, in fondo, cosa poteva esserci di tanto diverso da me che appuntavo pensieri confusi su un taccuino?

Fine di questo prologo.

In queste intense settimane di preparativi ed enormi cambiamenti, ho avuto pure la fortuna di trovare dei giorni per decomprimere, qui, in quella che è stata la mia casa negli ultimi tre anni e che adesso sto lasciando (vado a Roma), compiendo dei piccoli riti di addio. Alcuni necessari, altri assolutamente superflui. Quando condividi l’appartamento con altre persone e impari a sentire tuo quel luogo, spazzarlo, arieggiarlo, ripulirlo, aggiustarne gli inevitabili segni di uso, diventa naturale a prescindere dagli obblighi contrattuali. Ora, il tema degli affitti è controverso, da qualsiasi lato lo si guardi: che tu sia il proprietario di un immobile da cui decidi di trarre profitto, o l’inquilino che per definizione è transitorio e dunque hai esigenze specifiche ma vivi anche un’insopprimibile condanna al compromesso. Non si può avere tutto se si decide di andare in affitto, altrimenti compreresti. E questa è la prima cosa che sento di aver compreso.

Nella mia esperienza, tutto sommato, le cose sono andate bene, direi, nella norma. Quando cercavo una sistemazione a Parma, dopo dodici notti in B&b e quattro ospite da un’amica, rispondevo tanto agli annunci sui gruppi Facebook, quanto a quelli sui siti dedicati: funzionano. Questo è un secondo suggerimento. Allora non avevo particolari esigenze e accettai la prima soluzione che mi si presentò: era settembre, arrivavamo in molti in città per studiare e la società non aveva ancora conosciuto la pandemia. Pianificando il mio trasferimento per un nuovo affitto a Roma, le coordinate sono state ben diverse. Sono diversa io: la prima cosa che ho sentito di chiarire a me stessa allora, è stato il mio desiderio, poi l’ho abbinato alle mie possibilità, e infine, ne ho tratto un compromesso. Prendere molte piccole decisioni e tutte in fretta, allena il senso pratico ma aumenta anche il rischio di “pijare na sola” – per addentrarci nel clima capitale.

Perché mi segna così tanto questo tema affitti?

Non sono la prima, non sono la sola, non sarò l’ultima. Ma sono anche una grande egocentrica del cazzo, perciò allego di seguito alcune ponderate (e meno ponderate) cose che ho vissuto e compreso:

  1. L’affitto non c’entra assolutamente niente. Se vai in affitto, stai per apportare un qualche cambiamento significativo nella tua vita, fosse anche solo il bisogno di ripensare il tuo spazio quotidiano. E questo spaventa. Spostarsi implica una messa in discussione del vecchio che viene così riconsiderato alla luce di nuove esigenze, nuovi modi di essere, un nuovo te.
  2. Lo sgombero obbliga a riportare alla memoria cose che avevi accantonato, rivelandosi adesso soprattutto inutili, per quanto tenere o importanti siano state. Così i ricordi hanno smesso di avere un solido legame con il presente, fosse anche solo per il bisogno che sento di alleggerirmi. I ricordi spesso sono persone, adesso nel loro nudo significato: quando le esperienze volgono al termine, ne comprendi il senso più profondo. A non mutare è l’affetto, immateriale e per fortuna, tascabile. A un certo punto prevale la voglia di costruire nuovi ricordi con quelle persone, o lasciarle lì, nel cerchio più distante da te. E va bene.
  3. Una fottuta paura di quello che sarà è solo camuffata dalle tante cose da fare, ma c’è, è lì e ti corrode se non la lasci venire fuori. Dirsi spaventati e dare un nome a quella paura è faticoso, ti mette spalle al muro e fa da contrasto al tuo enorme e puro desiderio di vita che in fondo, a quel cambiamento ti ha portato. Ho voluto un nuovo lavoro, una vita altrove e a un livello più complesso, come complessa è una grande città. Ma mi sto cagando addosso, it’s true.
  4. I costi riflettono spesso un significato simbolico. E quando si va in affitto, i costi sono sempre alti. C’è una prima silurata di denaro che serve a garantirti e che tu garantisca, ci sono molteplici spese, non sempre contenibili. Non è facile dare valore a quello che stai acquisendo, essendo all’inizio di un’esperienza che porterà frutto – se tutto va bene – solo tra un po’. Non sono fatalista: non penso che tutto andrà bene perché è più comodo pensarlo rispetto al contrario. Penso che dipenda da me fino a un certo punto, entro il quale bisogna spendersi, dare, impegnarsi, mostrarsi e dare respiro al proprio ostinato percorso. I soldi vanno e vengono (ok, vanno soprattutto), ma sono fatti per modellare i passaggi di vita e corroborarti rispetto alle difficoltà. Sono solo la misura. Questo lo sento ancora vero nonostante il periodo critico economicamente che stiamo vivendo e di cui si iniziano a vedere gli effetti.

Dov’è l’Italia

Ci sarebbero poi tutte le questioni relative legate al fatto che la regolamentazione degli affitti non è univoca, non è scontata e non è, soprattutto, il riflesso della società che muta: i fuori sede restano imbrigliati nella frammentata burocrazia regionale, che pensa l’Italia a porzioni, forse più facile da gestire, ma anche scoordinata rispetto al mercato della formazione e del lavoro che invece è capitalizzato e per definizione, stretto nei confini: posso lavorare e studiare ovunque, ma non ho le stesse agevolazioni del mio territorio di residenza. Posso allora spostare la mia identità civica, ma richiede un tempo che non combacia con i tempi del precariato. Perché l’Italia non è ancora una? Posso tentare di sfidare l’entropia che è connaturata a questa realtà, ma ci sarà sempre un inghippo burocratico a ricondurre al disordine.

Una prospettiva da correggere

Ho un’araba fenice tatuata sulla schiena. Ho scelto di farla quando avevo incontrato e sperimento il desiderio, la morte, la rinascita. Cambiamo quando mandiamo a morire ciò che non sentiamo più vero e determinante; nasciamo quando relativizziamo le nostre certezze e abbandoniamo ogni possibile definizione, lasciando che ciò che vogliamo prenda parola. Non siamo soli in questo meccanismo vitale: siamo limitati a noi stessi, ma lasciamo che la porosità dei nostri confini ci avvicini all’altro. Si chiamano relazioni e magari non sono una esperta sul tema o lo sono a modo mio, ma anche a riguardo qualcosa vado capendo ultimamente. Ho vagabondato di recente, succede quando passi da una vecchia casa a una nuova. Sono stata ospitata e accolta, ho potuto chiamare casa la casa di altri. Questo mi commuove e al contempo, mi rende grata. C’è una bellezza unica nell’amicizia, a volte mi sfugge, poi d’un tratto, ritorna nitida: è lo spazio in cui prendersi e lasciarsi senza esaurirsi, stimolarsi e competere, rendere possibile e godibile il confronto, giocare alla pari, fidarsi dello sguardo dell’altro, quando il nostro si mette nella prospettiva peggiore. Ci si arrabbia e ci si inganna. Senza cattiveria, né egoismi: solo inciampi. Prospettive da correggere.

Farzad, Isa e noi: il senso della ricorrenza

ricorrenza

Questo è un messaggio di Farzad, un ricercatore iraniano da poco arrivato a Parma. Stamattina l’ho accolto nel mio appartamento perché è intenzionato a prendere una stanza. Quando Farzad è entrato ha iniziato a guardarsi intorno, attraversando con vivacità il corridoio e chiedendo di vedere ogni vano, la cucina, il bagno. Parlavamo in inglese e quando qualcosa non era chiaro, mi chiedeva di ripeterla vicino al suo traduttore.

Farzad

Con fare meticoloso, continuava a verificare il funzionamento della rubinetteria, degli stipiti, degli infissi. Osservando qualcosa di storto, commentava “no good”, e recependo qualcosa di buono diceva “good news”. Farzad mi ha chiesto se la proprietaria avesse problemi con gli studenti internazionali, insieme alle informazioni sul riscaldamento e sul lato della casa in cui il sole tramonta. La discriminazione insomma, è un fattore che mettono in conto, come i costi delle utenze.

Gli altri siamo noi


Abbiamo chiacchierato dei nostri progetti, mestieri e provenienze. Quando ha saputo che sono siciliana, ha detto che poteva così spiegarsi la mia esuberanza. Non mi sembrava il caso di approfondire i motivi di tanto vitalismo, così mi sono limitata a rispondere che sì, era proprio così, e che mi dispiaceva non sarebbe stato il mio nuovo coinquilino, dal momento che io come Farzad, ho scelto di andare. Il suo fare pragmatico e la certezza che gli ingegneri sono pignoli anche dall’altro lato del mondo, nonché la sua niente affatto attuale pettinatura “a spazzola”, erano elementi già sufficienti a lasciare il segno di un buon incontro, di un incontro intenso, come quelli che – di grazia – ho avuto in queste settimane.

Anche oggi


Accade tutte le volte che esco dai miei nascondigli e rifugi e mi apro alle possibilità della vita, complice un mondo in fermento che era intenzionato a risollevarsi dopo due anni di letargia. Sta succedendo, nonostante la morte ha bussato di nuovo nelle nostre giornate, portandosi appresso distruzione, dolore e miseria. Non so quale storia ha portato Fazhad qui, sicuramente una storia occidentale, come la guerra. Occidentale, come la ricorrenza odierna a cui non avevo ancora dedicato tempo e riflessione. Fazhad è stato l’unico a pormi un augurio denso di significato, “come giornalista, questo lavoro e questo giorno devono avere un significato speciale per te”.

Non c’è più un Occidente


Lo ha: è la nuova consapevolezza che “occidentale” ha smesso di significare qualcosa di veramente distintivo per me che sono donna, che sono immersa nelle contraddizioni sociali di questo tempo, che ho impiegato anni a recuperare un gap sociale di cui non avevo capito essere vittima (come ragazza meridionale e come persona cresciuta in un preciso contesto sociale provinciale, statico e giudicante), e che vittima non sono. Al netto di quelle contraddizioni tutte occidentali, oggi sono una privilegiata. Perché posso muovermi nel mondo, perché posso disubbidire senza rischiare l’arresto, perché posso dire no alle cose storte che intercetto nel mio cammino.

Isa


A pranzo, ho incontrato Isabella. Ha 20 anni e viene da Boston, le faccio da tutor per il suo periodo di soggiorno studio a Parma. Insieme, individuiamo delle storie che vale la pena raccontare, selezioniamo le fonti, contattiamo chi può darci qualche risposta, elementi, informazioni e – vedendoci sempre a orario di pranzo – consumiamo insieme il nostro pasto. Isa deve esercitare il suo italiano, io ne approfitto per il mio inglese. Oggi mi ha chiesto se in Italia effettivamente si regalano le mimose alle donne, era sua intenzione infatti, portarne qualcuna alla “signora” – come la chiama – che la ospita in questo periodo. Le ho detto che era una splendida idea, poi le ho spiegato che l’8 marzo è stato a lungo considerato un giorno di festa, alterando un senso più profondo e importante della ricorrenza, che ha a che fare invece con la possibilità di riflettere sul tema della parità di genere.

Riconoscersi

Le ho chiesto quindi cosa succede oggi in America. “Giorno di protesta”. In America vanno in piazza, non regalano mimose. Anche in Italia, da qualche tempo, c’è molta più critica a riguardo: meno pizze tra donne e più pensieri nitidi, ciascuno secondo il proprio ordine di cose. Poi, siamo andate dalla fioraia e Isa ha comprato le mimose, perché voleva essere riconoscente alla donna che la sta accudendo. Così, credo che nel riconoscere qualcuno, qualcosa, per quello che è, identificarlo nella sua fattezza essenziale, magari in rapporto a noi, sia un meraviglioso atto rivoluzionario. Distinguere e riconoscere, non discriminare.

Pronostico della finale di Sanremo

Sanremo

Come finirà Sanremo lo sapremo stanotte verso l’una e mezza. Qua si divaga su quello che è stato e perciò sarà.

Insomma, stasera il televoto incoronerà Mahmood e Blanco, senza molte sorprese, Morandi a furor di popolo salirà sul podio per secondo ed Elisa si classificherà terza, invero senza fatica né assi nella manica (come lo è stato Jovanotti per Morandi). E questa sarà stata la gara, che poi finisce sempre per passare in secondo piano durante la settimana di Sanremo che non è solo un concorso canoro, ma uno show, con regole, imprevisti e un enorme peso istituzionale.

La saga di Amadeus a Sanremo

Aveva vacillato ultimamente, forzando la comicità dei suoi super ospiti (me lo ricordo quante polemiche su Crozza, Benigni e compagnia). La saga di Amadeus pareva essere destinata alla riproposizione maniacale della retorica dell’amicizia che ci aveva stufato fin da principio, due anni fa. Quest’anno se l’è scrollata di dosso quanto basta per restituirci una scaletta scorrevole, e gli abbiamo perdonato pure i 25 cantanti in gara – di alcuni avremmo fatto volentieri a meno. Ma c’è una insolita insistenza da parte del direttore artistico su questi concetti qua: la musica e l’amicizia. Quest’anno sono sembrati meno stucchevoli e sono diventati ogni giorno più credibili. 

Oltre la paura

L’ha detto Sabrina Ferilli oggi in conferenza stampa: ognuno porta sul palco quello che è. Sarà che di palco sentivano un po’ tutti la mancanza, sarà che i baci, gli abbracci, i duetti a un palmo dal naso ricordano immagini d’altri tempi, sarà che non c’era più una paura da esorcizzare e così, è rimasto solo l’accordo emotivo che ognuno ricerca su quel palco. Come se, sprovvisti di rabbia, ansie e – ultimamente anche di pudori – tutti, conduttore, co-conduttrici, cantanti e ospiti,  non hanno potuto fare altro che offrire uno bello spettacolo. 

Premio della critica a Truppi?

La leggerezza si è presa quasi tutto lo spazio, ci ha distratti dalla canzone di Giovanni Truppi, che torneremo ad ascoltare puntualmente domani, magari in cuffia, per capire perché “Tuo padre, mia madre, Lucia” ha meritato il Premio della Critica. Tuttavia, non sarebbe Sanremo senza qualche flop. La matrice, a volerci pensare, è la stessa: l’emozione. Dieci milioni di italiani assistono alla kermesse, twittano, commentano, elaborano esilaranti meme da puntellare nell’immaginario collettivo; ognuno sceglie il proprio aforismo, fa il tifo, televota (in Rai fa ancora con l’sms e si pagano 0,51 cent).

Sanremo: i flop

Perché…perché Sanremo è uno di quei momenti in cui le anime vibrano all’unisono, diventa un rito e si sedimenta come cultura. Non fa male, è innocuo, non ha a che fare con certe narrazioni tossiche che contaminano il cervello se cambi canale. Ciò non basta a renderlo educativo, altrimenti…altrimenti distingueremmo l’ironia da uno sberleffo e avremmo evitato di assistere alla derisione di Gianluca Grignani, un’artista in evidente difficoltà umana. Praticamente, il vero flop è stato il pubblico.

Messaggi universali

C’è da dire poi, che del buffet accettiamo tutti la varietà, ma gira che ti rigira prendiamo sempre il crudités, «perché non lo mangio mai». Francamente, delle polemiche del giorno dopo non ce ne frega niente: Sanremo ha i minuti contati e, in questa settimana, ognuno si prende quello che desidera. A me, per esempio, è piaciuta Noemi, perché «Ti amo non te lo so dire» ha messo insieme due o tre pensieri che per ora mi rivoltano da dentro. Ho adorato Drusilla Foer perché le parole inclusive sono quelle universali, perché essere rappresentativi significa saper parlare a tutti, perché la libertà non conosce conservazione ma è la costante e continua riformulazione di se stessi.

Sanremo sul divano

Mi è piaciuta la freschezza artistica dei cantanti, il fascino da pubere di Matteo Romano, la dannazione di Moro, la poesia di Elisa, il dolore urlato di Irama che racconta la separazione, il concentrato Indie che LRDL ha portato sul palco chiamando Cosmo, Ginevra e Margherita Vicario. I costumi di Michele Bravi e i suoi teneri, indulgenti versi. Mi è piaciuto poter condividere le serate insieme a chi poteva filtrare lo stesso racconto in modo completamente diverso dal mio, per finire comunque a cantare debolmente insieme durante l’omaggio a Battiato e sentirsi liberi di commuoversi un po’ al risuonare di quelle parole che parevano averci letto il cuore: «Amarti è credere che…che quello che sarò, sarà con te».

Il Fantasanremo influenza le performance degli artisti in gara all’Ariston

Un game per divertirsi con gli amici durante la settimana di Sanremo ma anche qualcosa di più: il Fantasanremo determina alcuni gesti dei cantanti in gara. Ecco come un media influenza un altro media.

Si chiama transmedialità. Sul palco di Sanremo ieri sera abbiamo assistito a piccole stranezze, alcune forse sono passate inosservate, ma gli addetti ai lavori – invero oltre 500 mila utenti – avranno fatto caso al batti cinque di Morandi ad Amadeus, all’apparente insensato urlo di Bravi “Papalina!” e che i due cantanti in gara hanno citato il Fantasanremo.

Fantasanremo, cos’è

Si tratta del fantagiuoco riguardante il Festivàl di Sanremo consistente nell’organizzare e gestire squadre virtuali formate dagli artisti in gara. Un sistema di punteggi (bonus e malus) determinerà la classifica finale. Ci sono un sito web o un’app, entrambi gratuiti, dove era possibile iscriversi fino alle mezzanotte dell’ 1 febbraio scegliendo i cinque membri della propria squadra, un nome per il team e nominando un capitano.Come il fantacalcio, e per chi c’era come il Fanta Game of Thrones, che ebbe grande successo in concomitanza con l’ultima stagione della straordinaria serie televisiva dove scegliere accuratamente chi non sarebbe morto. Sono iniziative dal basso, spesso nascono in sordina, un gioco fra amici (quelli del Fantasanremo di riuniscono presso il bar Corva di Papalina per seguire la kermesse) che non immaginano di sviluppare un piccolo fenomeno mediatico.

Sanremo rivive sui social

Che i social media (anche un game) avessero restituito linfa vitale al Festival di Sanremo lo avevamo appurato da anni, ma è interessante notare come stavolta non si tratta più soltanto di una reazione o un commento dentro una bolla nazionale. Il game ha invece un’influenza diretta su ciò che accadrà sul palco: i cantanti scelgono di fare qualcosa in virtù delle regole di un altro gioco. Michele Bravi ha un milione di fan su Instagram, una fan base notevole nel sistema che decreterà la classifica finale (il Televoto avrà un peso soprattutto sabato per la finale). Perché non ingraziarsi ulteriormente chi lo ha messo in squadra nel Fantasanremo? O magari, è solo divertente.

Basterà?

La vera domanda è come sta cambiando il Festival nelle edizioni recenti, che invece per certi aspetti continua a zoppicare. A che serve questo riempitivo di donne annunciate con grande pathos e poi consegnate all’anonimato sul palco, a ribadire sinuosamente quanto è stata magnifica la loro carriera accanto ai grandi uomini del cinema (vedasi Ornella Muti). Oggi è pure morta Monica Vitti, come a fare uno sgarbo a tutti noi.

Non si parla abbastanza di guarigione

L’armadio della mia stanza in città è rotto. Lo è sempre stato, da ben prima che arrivassi disperatamente e scegliessi quella stanza perché era l’unica disponibile in una folle ricerca di un alloggio in un tempo folle scollato dalla realtà delle persone. Non è solo rotto, è proprio fragile, scarso, esile, leggero che un soffio di vento provocherebbe crepe sul pannello multistrato di betulla che non è altro.

Ha fatto il suo dovere per tre anni tuttavia, e del resto, avrei potuto comprarne uno nuovo e rivenderlo al prossimo inquilino quando quella stanza non sarà più la mia. Non l’ho fatto, perché l’assetto provvisorio della mia sistemazione è sempre stato l’onesto riflesso di un animo impegnato a cercarsi e guarirsi. Così, ho rivestito la vecchia poltrona in velluto, ho comprato una fragranza al bergamotto con bacchette di legno e presto, una lampada da terra che possa creare un’adeguata luce soffusa quando non è ancora notte, ma neanche più giorno.

Fa tutto parte di un processo. Negli ultimi mesi non sono mancate trasformazioni e le conseguenti ferite di chi scopre di essersi contaminato. La paura è come un insetto che impollina un fiore sempre diverso per trarne nutrimento. Si sposta. Molti sono passati dall’avere paura del virus, e così hanno cercato di evitarlo (restiamo a casa), alla paura di averlo contratto (mi faccio un tampone per sicurezza). D’accordo che la disperazione muove il mondo, ma a volte basterebbe darsi tempo per sanare un dolore. Anche le mie paure spostano il loro oggetto. Anche io ho avvertito a lungo il terrore che un’onda di diversità e alterità mi avesse contaminata in modo irreversibile. E in effetti, era accaduto.

Più riconoscevo nuovi aspetti della persona che stavo diventando, più crescevano i sintomi: la solitudine, la noia, la maleducazione, la tachicardia per un calice di troppo, interminabili nottate con l’addome gonfio e tante mattine di stitichezza. Poi ho compreso che la solitudine era il sentimento più conveniente per non affrontare la mia chiusura all’altro, che la noia era il paracadute della mia improduttività, e la maleducazione una palestra necessaria a un carattere forgiato ma non ancora collaudato. Certi altri sintomi – sono convinta – non mi abbandoneranno mai, sono un monito necessario a ricordarmi che lasciare andare ha un prezzo.

Guarire comporta fatica, dolore, costi. Ma anche comprensione, lenta accettazione e fioriture. Servono coraggio e amor proprio, rispetto infinito per le proprie crepe. Chi è ferito fatica anche a distinguere i soccorritori. Quello che mi spaventa ancora tanto, oggi, è la possibilità di tornare a essere invisibile. Ho capito che è molto improbabile che qualcuno possa colpirti intenzionalmente, spesso le parole sono l’esito improprio di una disabilità, un giudizio, una punta affilata che l’armato non sa neanche di aver uscito dal fodero. È più facile che siano i tuoi schemi a interpretare gravemente certe incursioni. Insomma, la partita più difficile è difenderci dagli inganni della propria testa, facendocela complice.

Sussurrando le verità, indirizzando lo sguardo nello sguardo nitido dell’altro. I miei amici mi hanno fatto dei regali. Le mie amiche mi hanno portato dei fiori. Sono stati scelti libri e gioielli per il mio essere donna e il mio essere e basta. Ho festeggiato in molti modi, tranne in quello che avevo previsto, perché chi è in via di guarigione ha bisogno di soccorritori, cerotti, garze e riposo. Non so se ho trasmesso loro la mia gratitudine, mi imbarazzo, abbasso gli occhi, sorrido irrigidendo gli zigomi e biascico dei grazie che sono rotti, ma sono i migliori in circolazione.

Grazie over the top.