Sono tornata in analisi. L’ho deciso un venerdì, credo. Ricordo quale maglia indossavo, ce l’ho almeno dal 2018, smanicata, con il colletto e dei bottoni, di colore blu scuro e con dei piccoli fiori bianchi a fantasia. Ne ho tre identiche come modello, passate, passatissime, come se il 2018 fosse remoto. Invece, sono solo sei anni fa. Stavo per laurearmi in comunicazione, avevo trascinato la mia famiglia a Roma per la proclamazione, stavo risolvendo un po’ di problemi paralizzanti come l’ansia e pesavo 51 chili. Fu un momento tanto complesso quanto entusiasmante.
Anna mi aveva regalato un completo intimo per il compleanno, un mese prima. Oggi è logoro, ma il ricordo di quel pomeriggio sul lungomare di Cefalù nitidissimo. Era il giorno del mio compleanno ma piangevo a dirotto, ero spaventata a morte per tutto quello che stavo capendo e per tutto quello che avrei vissuto di lì a poco. L’idea di indossare un bel completo ed esporre il mio lavoro per poi festeggiare mi sembrava impossibile. Davvero, mi sembrava impossibile. Raccontavo le mie paranoie al telefono a Martina, come il terrore di stare male fisicamente, di dover correre all’improvviso in bagno – ricordo alla perfezione anche quella telefonata, ero seduta sul divano giallo ocra della cucina di casa, fuori il primo caldo; lei mi rispose, ironica: “Anche nel Lazio abbiamo i bagni!”. Trovai geniale quella risposta. Mi sollevò. Non ero la sola a vedere quanto spavento provavo, e – mi fu chiaro solo molto dopo – non ero mai stata tanto al sicuro come nel periodo della psicoterapia.
Insomma, qualche mese fa, un venerdì di giugno, mi ero buttata sul divano al rientro dall’ufficio, derogando la cena, la doccia, tutto (sempre a me stessa, ma alla me del futuro)…e avevo iniziato a piangere a dirotto.
Singhiozzavo, avevo male alla testa e agli occhi dopo pochi secondi. L’angoscia mi stava divorando. Per cosa? Pensavo e vedevo lucidamente che tutto quello che sentivo mio, che avevo costruito alla velocità della luce, e da zero e X, almeno due vite diverse, due città che non erano la mia, un’altra laurea, un lavoro soddisfacente, l’indipendenza economica, una metropoli – quella in cui vivo attualmente – con decine di possibilità, nuove relazioni, nuovi incontri…puff: tutto fine a se stesso. Cui prodest?
L’insignificanza. Ero assalita da un senso di nulla tremendo, avevo toccato appena un nuovo inquietante indizio di vita, che faceva calare una nebbia fitta su tutte quelle strutture abilmente issate negli ultimi due anni. Le domande che erano sorte non potevo ignorarle più. Questioni diverse, di una persona diversa, non priva di strumenti, ma non paga abbastanza. In mezzo, gli eventi. Le relazioni, le ferite aperte, l’indifferenza, i miei perché e i come, che mi spingono, mi orientano, e talvolta, mi fanno cadere. Non posso biasimarmi: se appena mettiamo il naso oltre le nostre incessanti routine, il caos è totale. Solo per citare alcune preoccupazioni di questo tempo: difficoltà di accesso all’ acquisto di una casa di proprietà, e di contro, elevato costo degli affitti, precarietà lavorativa, clima politico e sociale incerto, crisi climatica, crisi relazionale.
Stavolta il divano è quello della casa in affitto a Roma. L’ho scelto io, come il letto, il tavolo, altri mobili. Ci ho passato gli ultimi tre pomeriggi a rimuginare su ponti pendenti che continuano a comparirmi in sogno. Spesso, mi sono sorpresa a sospirare rumorosamente: sulla strada verso la palestra, mentre pulivo il bagno. Ho cucinato in modo sproporzionato alla mia fame e alla mia necessità (qualcuno vuole polpette in umido con i piselli?). L’ansia non se ne è mai andata veramente, torna quando serve. Lo so come funziona. Con la grande differenza che l’ansia non è più il punto. L’età adulta mi ha reso più pragmatica, mi spinge costantemente verso soluzioni alle cose. Sto per prendere un’automobile, finalmente, posso caricare una cassa d’acqua nel cofano senza piegarmi per strada. Posso anche andare a cena senza dover rimanere a dormire dagli ospiti. Posso portarmi al mare. E devo fare i conti con il terrore di essere schiacciata dall’insolenza di questa città, di cui il traffico è la rappresentazione plastica.
Le questioni su cui mi interrogo adesso mi divertono anche: perché non mi sono più inserita in comitive? Perché non ascolto musica rap? Perché non ho mai fatto teatro? Perché non provo un corso di cucina amatoriale? A cosa credevo quando credevo in un ideale? Ho ideali? Perché ho questo incessante e inesauribile bisogno di essere vista e riconosciuta? Perché mi sento sola e voglio al contempo preservare il mio essere spaiata? Perché mi mostro così trasparente e al contempo così enigmatica?
Così, ho scelto di dare dignità di parola a tutti questi pensieri, li ho incartati e li riconsegno a me stessa, ad alta voce, vedendogli mutare forma, sfumare, o al contrario, addensarsi moltissimo. “Vediamo dove andiamo…” – mi è stato detto. E magari, funzionerà ancora.