Ieri al parco – mentre i pollini congestionavano le mie vie respiratorie – a pochi metri da me scrivente, una donna anziana seduta su una panchina, parlava. Non c’era alcuna altra presenza umana o animale a cui potessi presumere si rivolgesse, non c’era un telefono all’orecchio, né auricolari. Posso dire con ostinata certezza che parlasse sola, ma sarebbe solo la mia verità. Avrà avuto il suo interlocutore, reale o fittizio o entrambi. Ho deciso di dare per buona anche la sua verità, in fondo, cosa poteva esserci di tanto diverso da me che appuntavo pensieri confusi su un taccuino?
Fine di questo prologo.
In queste intense settimane di preparativi ed enormi cambiamenti, ho avuto pure la fortuna di trovare dei giorni per decomprimere, qui, in quella che è stata la mia casa negli ultimi tre anni e che adesso sto lasciando (vado a Roma), compiendo dei piccoli riti di addio. Alcuni necessari, altri assolutamente superflui. Quando condividi l’appartamento con altre persone e impari a sentire tuo quel luogo, spazzarlo, arieggiarlo, ripulirlo, aggiustarne gli inevitabili segni di uso, diventa naturale a prescindere dagli obblighi contrattuali. Ora, il tema degli affitti è controverso, da qualsiasi lato lo si guardi: che tu sia il proprietario di un immobile da cui decidi di trarre profitto, o l’inquilino che per definizione è transitorio e dunque hai esigenze specifiche ma vivi anche un’insopprimibile condanna al compromesso. Non si può avere tutto se si decide di andare in affitto, altrimenti compreresti. E questa è la prima cosa che sento di aver compreso.
Nella mia esperienza, tutto sommato, le cose sono andate bene, direi, nella norma. Quando cercavo una sistemazione a Parma, dopo dodici notti in B&b e quattro ospite da un’amica, rispondevo tanto agli annunci sui gruppi Facebook, quanto a quelli sui siti dedicati: funzionano. Questo è un secondo suggerimento. Allora non avevo particolari esigenze e accettai la prima soluzione che mi si presentò: era settembre, arrivavamo in molti in città per studiare e la società non aveva ancora conosciuto la pandemia. Pianificando il mio trasferimento per un nuovo affitto a Roma, le coordinate sono state ben diverse. Sono diversa io: la prima cosa che ho sentito di chiarire a me stessa allora, è stato il mio desiderio, poi l’ho abbinato alle mie possibilità, e infine, ne ho tratto un compromesso. Prendere molte piccole decisioni e tutte in fretta, allena il senso pratico ma aumenta anche il rischio di “pijare na sola” – per addentrarci nel clima capitale.
Perché mi segna così tanto questo tema affitti?
Non sono la prima, non sono la sola, non sarò l’ultima. Ma sono anche una grande egocentrica del cazzo, perciò allego di seguito alcune ponderate (e meno ponderate) cose che ho vissuto e compreso:
- L’affitto non c’entra assolutamente niente. Se vai in affitto, stai per apportare un qualche cambiamento significativo nella tua vita, fosse anche solo il bisogno di ripensare il tuo spazio quotidiano. E questo spaventa. Spostarsi implica una messa in discussione del vecchio che viene così riconsiderato alla luce di nuove esigenze, nuovi modi di essere, un nuovo te.
- Lo sgombero obbliga a riportare alla memoria cose che avevi accantonato, rivelandosi adesso soprattutto inutili, per quanto tenere o importanti siano state. Così i ricordi hanno smesso di avere un solido legame con il presente, fosse anche solo per il bisogno che sento di alleggerirmi. I ricordi spesso sono persone, adesso nel loro nudo significato: quando le esperienze volgono al termine, ne comprendi il senso più profondo. A non mutare è l’affetto, immateriale e per fortuna, tascabile. A un certo punto prevale la voglia di costruire nuovi ricordi con quelle persone, o lasciarle lì, nel cerchio più distante da te. E va bene.
- Una fottuta paura di quello che sarà è solo camuffata dalle tante cose da fare, ma c’è, è lì e ti corrode se non la lasci venire fuori. Dirsi spaventati e dare un nome a quella paura è faticoso, ti mette spalle al muro e fa da contrasto al tuo enorme e puro desiderio di vita che in fondo, a quel cambiamento ti ha portato. Ho voluto un nuovo lavoro, una vita altrove e a un livello più complesso, come complessa è una grande città. Ma mi sto cagando addosso, it’s true.
- I costi riflettono spesso un significato simbolico. E quando si va in affitto, i costi sono sempre alti. C’è una prima silurata di denaro che serve a garantirti e che tu garantisca, ci sono molteplici spese, non sempre contenibili. Non è facile dare valore a quello che stai acquisendo, essendo all’inizio di un’esperienza che porterà frutto – se tutto va bene – solo tra un po’. Non sono fatalista: non penso che tutto andrà bene perché è più comodo pensarlo rispetto al contrario. Penso che dipenda da me fino a un certo punto, entro il quale bisogna spendersi, dare, impegnarsi, mostrarsi e dare respiro al proprio ostinato percorso. I soldi vanno e vengono (ok, vanno soprattutto), ma sono fatti per modellare i passaggi di vita e corroborarti rispetto alle difficoltà. Sono solo la misura. Questo lo sento ancora vero nonostante il periodo critico economicamente che stiamo vivendo e di cui si iniziano a vedere gli effetti.
Dov’è l’Italia
Ci sarebbero poi tutte le questioni relative legate al fatto che la regolamentazione degli affitti non è univoca, non è scontata e non è, soprattutto, il riflesso della società che muta: i fuori sede restano imbrigliati nella frammentata burocrazia regionale, che pensa l’Italia a porzioni, forse più facile da gestire, ma anche scoordinata rispetto al mercato della formazione e del lavoro che invece è capitalizzato e per definizione, stretto nei confini: posso lavorare e studiare ovunque, ma non ho le stesse agevolazioni del mio territorio di residenza. Posso allora spostare la mia identità civica, ma richiede un tempo che non combacia con i tempi del precariato. Perché l’Italia non è ancora una? Posso tentare di sfidare l’entropia che è connaturata a questa realtà, ma ci sarà sempre un inghippo burocratico a ricondurre al disordine.
Una prospettiva da correggere
Ho un’araba fenice tatuata sulla schiena. Ho scelto di farla quando avevo incontrato e sperimento il desiderio, la morte, la rinascita. Cambiamo quando mandiamo a morire ciò che non sentiamo più vero e determinante; nasciamo quando relativizziamo le nostre certezze e abbandoniamo ogni possibile definizione, lasciando che ciò che vogliamo prenda parola. Non siamo soli in questo meccanismo vitale: siamo limitati a noi stessi, ma lasciamo che la porosità dei nostri confini ci avvicini all’altro. Si chiamano relazioni e magari non sono una esperta sul tema o lo sono a modo mio, ma anche a riguardo qualcosa vado capendo ultimamente. Ho vagabondato di recente, succede quando passi da una vecchia casa a una nuova. Sono stata ospitata e accolta, ho potuto chiamare casa la casa di altri. Questo mi commuove e al contempo, mi rende grata. C’è una bellezza unica nell’amicizia, a volte mi sfugge, poi d’un tratto, ritorna nitida: è lo spazio in cui prendersi e lasciarsi senza esaurirsi, stimolarsi e competere, rendere possibile e godibile il confronto, giocare alla pari, fidarsi dello sguardo dell’altro, quando il nostro si mette nella prospettiva peggiore. Ci si arrabbia e ci si inganna. Senza cattiveria, né egoismi: solo inciampi. Prospettive da correggere.
Che ne pensi?