Giocare, a quest’età

giocare

Pare che il caldo anomalo di questi primi giorni di giugno lascerà il posto a una forte tendenza temporalesca a breve. La goccia fredda sarà un toccasana per i miei parziali equilibri corporei, impegnati a non cedere allo svenimento di un’estate in città da trascorrere con un lavoro full-time. Se ci mettiamo che la città in questione è Roma, il quadro si complica.

Roma incontenibile

Vivo nella capitale da due mesi, un tempo abbastanza lungo per comprendere che Roma non si può contenere: le possibilità d’azione che offre sono tante da sembrare illimitate e così tante da rendere necessaria una scelta, costante, su come gestire il mio tempo. La linea urbana 168 per esempio, è l’unico modo per rientrare a casa da lavoro prendendo un solo mezzo, ma anche quella che richiede un’ora o più per compiere il tragitto, quando il tram e un passo svelto mi consentono di essere sotto il getto della doccia dopo 40 minuti. Lo stesso lasso di tempo al mattino è l’unico che riesco a dedicare alle notizie del giorno, della settimana, alle cose del mondo che sembrano essersi dissolte nel mio quotidiano, come un ghiacciolo dimenticato fuori dal congelatore.

Il tempo è un concetto estremamente relativo.

Ne sanno qualcosa i miei fianchi, la pancetta ormai inarrestabile, la buccia d’arancia sulle mie gambe che meritano di più, ma non sono prioritarie. Tantomeno, lo diventano il venerdì sera, quando mi legittimo a staccare l’interruttore e mi nascondo dai nauseanti input delle stories degli altri su Instagram. Cene fuori e spiagge. I più intraprendenti vanno ai concerti, da qualche settimana poi, matrimoni ovunque. Invidiabile. Ieri, per tenere fede a un appuntamento per bere qualcosa con un amico ho bisticciato tra me e me per un’ora, prima di costringermi a raggiungerlo, nonostante il sonno. Ho fatto bene però, perché rimanere connessi con il mondo è l’unico modo per conoscere, di riflesso, chi siamo. Un buon motivo per fare qualcosa è ascoltare quanta voglia abbiamo di farla. Sono andata a prendere qualcosa da bere con un amico perché mi andava e non ho raggiunto il centro in bici come avevo ipotizzato di fare perché non ne avevo voglia.

Come la guerra la primavera

I ponti possono essere trascorsi a macinare una serie TV senza che nessun capoluogo di provincia si offenda per la mia assenza. Al mare? Quando mi depilerò e mi sentirò pronta a non badare alle mie forme. In fondo, la guerra è finita solo pochi mesi fa e tutto intorno è ancora un campo di battaglia. I grandi cambiamenti infatti, sono simili alle battaglie: richiedono una enorme accelerazione e di affrontare i propri limiti, compiere molte scelte in poco tempo, restare lucido e valutare nell’arco di venti giorni in quale zona della città prendere casa, se condividerla, quanto spendere, quali vincoli, quali vantaggi, quali rischi.

Nuove storie

E dopo, solo dopo la firma sul contratto, passato lo straccio pure sui muri che nessuno puliva da anni, compiuta la trasferta all’Ikea per acquistare ciò che non sapevi essere essenziale, un conto prosciugato, 30 anni suonati, e l’imperversare della stagione delle allergie, apri gli occhi la mattina e sei ancora viva, non ti sei fermata neanche un secondo, neanche un pianterello, non ti sei voltata indietro, non sei scappata e puoi vedere ora i tuoi giorni prendere forma, le persone iniziano ad avere volti, alcuni ti piacciono, altri no. Non basta dare un nome alle strade, alcune le riconoscerai per quell’aiuola gigante, per le mura di Porta Pia, o per la strettoia prima di arrivare sulla Salaria, il supermercato cento metri prima di Piazzale Ungheria ti ricorda dove devi scendere. Sul tram c’è sempre più spazio rispetto al 360, alla fermata di Lega Lombarda c’è una famiglia di ispanici che si muove verso Villa Borghese. Parlano velocemente, i toni sono alti, sorridono tra di loro; a volte, “mamà” è in ritardo e quella che presumo sia la figlia urla dalla banchina qualcosa che somiglia a “corri”. E quella corre. Non hanno mai perso un bus.

Tetti

La vista privilegiata di un ottavo piano ha di buono che dei palazzi ti si mostrano soprattutto tetti e mansarde. Delle case degli altri invidio però l’arredo di chi è lì non di passaggio. I mobili accennati di un soggiorno, una cornice d’argento, il televisore sui programmi quiz prima di cena sono segni inconfondibili della vita di chi possiede una dimora, vi risiede stabilmente e in un futuro lontano o vicino che sia, lascerà quella casa a un erede. Invecchiano così i palazzi, con le storie di chi ci vive dentro. Con l’afa anomala di questo lungo ponte ho bramato un terrazzo chiuso a cinta da piante e fronde, un tavolo, delle poltrone da esterni, le luci tutte intorno come ho visto solo sui tetti di Roma. Pensiamo gli spazi perché possano essere condivisi e li condividiamo per non sentirci soli. Si va a vivere insieme per contenere le spese, ma anche per trovare almeno un volto quando si torna la sera. E chi va a vivere da solo, si assicura che ci sia un divano-letto da aprire all’occorrenza.

Viste

Io non ho ancora abbastanza spazio neanche per i contenitori della differenziata, perciò non faccio testo, ma a Roma neanche la differenziata fa testo. Che dolore! Nel suo essere incontenibile, soprattutto le infrazioni non fanno eccezione. Accanto ai cassonetti trovi i tavoli di un ristorante e decine di persone dormono sui cartoni nei pressi delle metropolitane. Le stazioni hanno un doppio volto sempre: sorgono hub di ultima generazione tutto intorno, pieni di finestre a vetri e sui marciapiedi formicolano decine di perdigiorno, mascalzoni o solo poveracci. Forse, la metafora della città eterna è vera anche per quello che non è monumentale, forse è soprattutto chi ci sta a credere eterne queste strade, queste mura, e con esse le sue contraddizioni. Ho ancora un approccio timido a tutto questo, come se non mi riguardasse, come se fossi ospite qui e non avessi invece scelto di starci. Ho creduto fosse meglio rimanere trasparenti per un po’, ora però, mi sembra di avere in mano le chiavi di una porta da aprire. Non devo chiedere il permesso: quel poco che ho preso, è mio, senza ombra di dubbio.

Possibilità

Mio il lavoro, la stanza, miei i collegamenti fino a Settebagni, se serve. Miei sono i sì e i no, giocare, trovarmi e ritrovarmi in pensieri che non avevo mai fatto finora: voglio una casa con un balcone terrazzo e mobili che non siano degli anni ’60, persone ragionevoli a cui sottoporre un’istanza, un dialogo aperto sulle opzioni possibili, tenendo conto della possibilità di incontrare chi voglia fotterti, alleati e solitudini, paranoici e inflessibili, ma anche complici e compagni di pranzi o merende. Serve tempo, ma anche una domenica a letto, saltare la lezione di inglese almeno una volta, cucinare le polpette al sugo e non cucinare per giorni. Serve assecondarsi, per conoscersi, un intuito di cui fidarsi e tradirsi, a volte. Tradire le mie convinzioni, dare spazio al dolore che prova chi non riesce a darsi come vorrebbe, ascoltarlo fino a quello che sembrerà un altro colpo di teatro, ma non sarà stato scritto da un getto creativo della mia penna, non succederà per caso: sarà stato seminato con fatica, come ogni guerra è destinata a concludersi con la rinascita.

Un nuovo indirizzo a Roma

l'indirizzo ce l'ho

Ieri al parco – mentre i pollini congestionavano le mie vie respiratorie – a pochi metri da me scrivente, una donna anziana seduta su una panchina, parlava. Non c’era alcuna altra presenza umana o animale a cui potessi presumere si rivolgesse, non c’era un telefono all’orecchio, né auricolari. Posso dire con ostinata certezza che parlasse sola, ma sarebbe solo la mia verità. Avrà avuto il suo interlocutore, reale o fittizio o entrambi. Ho deciso di dare per buona anche la sua verità, in fondo, cosa poteva esserci di tanto diverso da me che appuntavo pensieri confusi su un taccuino?

Fine di questo prologo.

In queste intense settimane di preparativi ed enormi cambiamenti, ho avuto pure la fortuna di trovare dei giorni per decomprimere, qui, in quella che è stata la mia casa negli ultimi tre anni e che adesso sto lasciando (vado a Roma), compiendo dei piccoli riti di addio. Alcuni necessari, altri assolutamente superflui. Quando condividi l’appartamento con altre persone e impari a sentire tuo quel luogo, spazzarlo, arieggiarlo, ripulirlo, aggiustarne gli inevitabili segni di uso, diventa naturale a prescindere dagli obblighi contrattuali. Ora, il tema degli affitti è controverso, da qualsiasi lato lo si guardi: che tu sia il proprietario di un immobile da cui decidi di trarre profitto, o l’inquilino che per definizione è transitorio e dunque hai esigenze specifiche ma vivi anche un’insopprimibile condanna al compromesso. Non si può avere tutto se si decide di andare in affitto, altrimenti compreresti. E questa è la prima cosa che sento di aver compreso.

Nella mia esperienza, tutto sommato, le cose sono andate bene, direi, nella norma. Quando cercavo una sistemazione a Parma, dopo dodici notti in B&b e quattro ospite da un’amica, rispondevo tanto agli annunci sui gruppi Facebook, quanto a quelli sui siti dedicati: funzionano. Questo è un secondo suggerimento. Allora non avevo particolari esigenze e accettai la prima soluzione che mi si presentò: era settembre, arrivavamo in molti in città per studiare e la società non aveva ancora conosciuto la pandemia. Pianificando il mio trasferimento per un nuovo affitto a Roma, le coordinate sono state ben diverse. Sono diversa io: la prima cosa che ho sentito di chiarire a me stessa allora, è stato il mio desiderio, poi l’ho abbinato alle mie possibilità, e infine, ne ho tratto un compromesso. Prendere molte piccole decisioni e tutte in fretta, allena il senso pratico ma aumenta anche il rischio di “pijare na sola” – per addentrarci nel clima capitale.

Perché mi segna così tanto questo tema affitti?

Non sono la prima, non sono la sola, non sarò l’ultima. Ma sono anche una grande egocentrica del cazzo, perciò allego di seguito alcune ponderate (e meno ponderate) cose che ho vissuto e compreso:

  1. L’affitto non c’entra assolutamente niente. Se vai in affitto, stai per apportare un qualche cambiamento significativo nella tua vita, fosse anche solo il bisogno di ripensare il tuo spazio quotidiano. E questo spaventa. Spostarsi implica una messa in discussione del vecchio che viene così riconsiderato alla luce di nuove esigenze, nuovi modi di essere, un nuovo te.
  2. Lo sgombero obbliga a riportare alla memoria cose che avevi accantonato, rivelandosi adesso soprattutto inutili, per quanto tenere o importanti siano state. Così i ricordi hanno smesso di avere un solido legame con il presente, fosse anche solo per il bisogno che sento di alleggerirmi. I ricordi spesso sono persone, adesso nel loro nudo significato: quando le esperienze volgono al termine, ne comprendi il senso più profondo. A non mutare è l’affetto, immateriale e per fortuna, tascabile. A un certo punto prevale la voglia di costruire nuovi ricordi con quelle persone, o lasciarle lì, nel cerchio più distante da te. E va bene.
  3. Una fottuta paura di quello che sarà è solo camuffata dalle tante cose da fare, ma c’è, è lì e ti corrode se non la lasci venire fuori. Dirsi spaventati e dare un nome a quella paura è faticoso, ti mette spalle al muro e fa da contrasto al tuo enorme e puro desiderio di vita che in fondo, a quel cambiamento ti ha portato. Ho voluto un nuovo lavoro, una vita altrove e a un livello più complesso, come complessa è una grande città. Ma mi sto cagando addosso, it’s true.
  4. I costi riflettono spesso un significato simbolico. E quando si va in affitto, i costi sono sempre alti. C’è una prima silurata di denaro che serve a garantirti e che tu garantisca, ci sono molteplici spese, non sempre contenibili. Non è facile dare valore a quello che stai acquisendo, essendo all’inizio di un’esperienza che porterà frutto – se tutto va bene – solo tra un po’. Non sono fatalista: non penso che tutto andrà bene perché è più comodo pensarlo rispetto al contrario. Penso che dipenda da me fino a un certo punto, entro il quale bisogna spendersi, dare, impegnarsi, mostrarsi e dare respiro al proprio ostinato percorso. I soldi vanno e vengono (ok, vanno soprattutto), ma sono fatti per modellare i passaggi di vita e corroborarti rispetto alle difficoltà. Sono solo la misura. Questo lo sento ancora vero nonostante il periodo critico economicamente che stiamo vivendo e di cui si iniziano a vedere gli effetti.

Dov’è l’Italia

Ci sarebbero poi tutte le questioni relative legate al fatto che la regolamentazione degli affitti non è univoca, non è scontata e non è, soprattutto, il riflesso della società che muta: i fuori sede restano imbrigliati nella frammentata burocrazia regionale, che pensa l’Italia a porzioni, forse più facile da gestire, ma anche scoordinata rispetto al mercato della formazione e del lavoro che invece è capitalizzato e per definizione, stretto nei confini: posso lavorare e studiare ovunque, ma non ho le stesse agevolazioni del mio territorio di residenza. Posso allora spostare la mia identità civica, ma richiede un tempo che non combacia con i tempi del precariato. Perché l’Italia non è ancora una? Posso tentare di sfidare l’entropia che è connaturata a questa realtà, ma ci sarà sempre un inghippo burocratico a ricondurre al disordine.

Una prospettiva da correggere

Ho un’araba fenice tatuata sulla schiena. Ho scelto di farla quando avevo incontrato e sperimento il desiderio, la morte, la rinascita. Cambiamo quando mandiamo a morire ciò che non sentiamo più vero e determinante; nasciamo quando relativizziamo le nostre certezze e abbandoniamo ogni possibile definizione, lasciando che ciò che vogliamo prenda parola. Non siamo soli in questo meccanismo vitale: siamo limitati a noi stessi, ma lasciamo che la porosità dei nostri confini ci avvicini all’altro. Si chiamano relazioni e magari non sono una esperta sul tema o lo sono a modo mio, ma anche a riguardo qualcosa vado capendo ultimamente. Ho vagabondato di recente, succede quando passi da una vecchia casa a una nuova. Sono stata ospitata e accolta, ho potuto chiamare casa la casa di altri. Questo mi commuove e al contempo, mi rende grata. C’è una bellezza unica nell’amicizia, a volte mi sfugge, poi d’un tratto, ritorna nitida: è lo spazio in cui prendersi e lasciarsi senza esaurirsi, stimolarsi e competere, rendere possibile e godibile il confronto, giocare alla pari, fidarsi dello sguardo dell’altro, quando il nostro si mette nella prospettiva peggiore. Ci si arrabbia e ci si inganna. Senza cattiveria, né egoismi: solo inciampi. Prospettive da correggere.