Interismi

Avevo appena compiuto 18 anni e in quel periodo avevo ben poche preoccupazioni. Passavo da una festa all’altra, da un vestito all’altro, da una cerimonia a un comizio in piazza. Tutto sapeva di possibile, ogni cosa aveva l’aria del cambiamento e della assoluta novità. Ero infarcita di ideali e credevo fortissimamente in quella storia del cambiamento dal basso, della goccia nell’oceano, e di fari che da soli potevano dare luce alla notte.

L’Inter vinceva il campionato incessantemente dal 2006; l’avversaria più importante per diversi stagioni era stata la Roma. Un altro paradigma del Calcio si era imposto dopo l’annosa vicenda Calciopoli. La Juve ai tempi era come quei personaggi delle serie TV che escono di scena perché la produzione non trova l’accordo con l’attore e il contratto va in fumo. Gli sceneggiatori si inventano così un’uscita dalla storia spettacolare, come in effetti fu la revoca del titolo e la retrocessione in B dopo la stagione 2004-2005 e la serie va avanti, rinvigorita da nuovi protagonisti.

Insomma, quanto all’Inter, nel 2010, ero tranquilla. Conquistare la finale di Champions quell’anno a noi non parse un evento impossibile, era la nostra Inter, forte, compatta, veloce. Non avevo dubbi sulla possibilità che la squadra, quel 22 maggio a Madrid, potesse alzare la Coppa dalle grandi orecchie. Ho un solo rimpianto: una coincidenza di eventi mi impedì di seguire il match come avrei voluto e come sempre siamo soliti fare mio padre ed io. Senza troppo fracasso, ci ritiriamo in soggiorno, prendiamo posizione sul divano e ci sottoponiamo a 90 minuti di fibrillazione. La calma all’esterno è una bugia.

Tifare Inter è un trattamento continuo per imparare a sopportare la sofferenza. Sappiamo tacere quando perdiamo e vinciamo senza far rumore. Certamente, da tifosa mi sento parte di un noi che non passa la palla, ma vive nel circolo emotivo di una sfida calcistica che mai come oggi sarebbe balsamo sulle ferite della pandemia. E questo prescinde ogni valutazione sull’opportunità che la Serie A possa riprendere e le squadre tornare in campo. Non sono immune al vortice del calcio. Lo amo, almeno quanto le Serie TV. Così ricordo la notte del 22 maggio come un finale di stagione previsto dai fan. Che diciamo, se fosse stata la resa dei conti nell’infinito triangolo Dawson -Joey- Pacey, avrebbe visto finire insieme il logorroico aspirante regista con la rompipalle moralista da tutti amata.

L’Inter non è la squadra più amata, come non lo erano Dawson e Joey, non mette d’accordo le parti e non vedrà mai tutti esultare per la conquista del più importante trofeo europeo. Al punto che esserci riuscita quell’anno non la rende degna – per molti, specie per quelli che la Champions non riescono proprio a prenderla – di encomio. Insomma, per molti sarebbe preferibile l’oblio alle notizie che oggi si rincorrono, tutte rigorosamente nerazzurre. E allora che farcene di quel 22 maggio?

Trovo sia presto per l’amarcord. Oggi mi rende molto più nostalgica la foto di Gigi Simoni accanto al ‘fenomeno’ Ronaldo sul campo d’allenamento nel ’98. Dieci anni non sono tanti, né pochi: abbastanza per accarezzare il ricordo vivido di una me maggiorenne e adolescentissima, che quella notte andò a letto piena di soddisfazione, di sogni al posto giusto e onnipotenti trame in perfetta sintonia con gli autori della storia.

Era normale che l’Inter vincesse.

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Sofia D'ArrigoRiccardo Recent comment authors
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Imparare a sopportare la sofferenza è proprio questo quello che noi interisti facciamo ogni week-end ed ogniqualvolta che l’Inter scende in campo. Tifare Inter significa amare i colori nerazzurri, il passato dei grandi campioni ed un futuro, che a volte, non sembrava così roseo. Siamo nella storia, non solo per i successi e lo storico triplete del 2010 bensì per una serie di valori che ci contraddistingue dalla massa.