Ho fatto un sogno di recente. Stavo per prendere possesso del mio nuovo monolocale, ed ero molto felice. Finalmente, un primo passo vero verso l’indipendenza, con un’abitazione non condivisa. Il monolocale è tipo l’ambizione dei nuovi trentenni, quelli che non hanno uno stipendio, né un mutuo, né certezza. L’ambizione dei precari. La cosa curiosa è che aveva mobili nuovissimi, ma pareti ancora imperfette, senza intonaco, grezze. E poi, di tutti i luoghi in cui il mio inconscio poteva prendere casa, ha scelto comunque Via Parini, dove vivono i miei. Non sia mai che faccia un passo troppo lungo, lontano dall’elemento noto. Che ci sia una porta e un civico però, è già una grande conquista.
Fuori, vecchi amici erano pronti a portarmi un regalo per la casa nuova.
E’ così che si fa, no? Si celebrano le arcinote vittorie dettate dalla società. Mentre ci affanniamo a rincorrere un riconoscimento. Vi dirò, nel sogno la casa va a fuoco – in fiamme letteralmente – colonne di fumo nero, polveri e scintille. In strada, quel pover’uomo di mio padre, non esita a spegnere l’incendio, mi guarda e mi dice “Stai tranquilla”. Si consuma così, nel mio inconscio, la battaglia in atto fra le corde del mio cuore e le bombe della mia testa. Sarà per questo periodo definitorio, di ricerca, di studio, di rivelazione e di appropriazione di un pensiero che non ha più nulla di convenzionale o accademico. Tra le righe della bibliografia, traspare anche la mia posizione in merito alle cose. Dovrò modulare la rabbia, e condirla di riferimenti accademici, per dare validità al mio pensiero.
Mi sembra però che chi prende parola per lo più si siede in punta di sedia, pronto a scattare.
Ci provo. Mi arrabatto. Metto in discussione il mio inglese sgrammaticato ogni giorno, in ufficio, quando accolgo gli studenti che arrivano da Spagna, Belgio, Turchia, Pakistan, è passato persino un brasiliano altissimo e biondissimo. “Hi! Have you found an accomodation to stay?” – gli chiedo – e poi capto pezzi di risposte che comunicano molto meno dei loro occhi preoccupati perché è davvero impossibile trovare una stanza in città. Chi si mette alla ricerca di qualcosa rischia lo smarrimento, delusione e continua allerta. Quando sei in una posizione di svantaggio, è più facile pensare di non essere all’altezza. E smetti di darti valore. L’ufficio in cui opero, ha un nome equivoco, che potrebbe facilmente essere scambiato per una portineria. Così, sovente accade che mi ritrovo a dare indicazioni per raggiungere le aule o lo sportello di counselling psicologico (popolatissimo, il che mi rallegra, ma mi fa anche riflettere su quanto i disagi possano essere numerosi fra gli studenti).
Fra una telefonata e un questionario di gradimento, oggi, ho appreso della morte di nonna.
Un evento prevedibile. Quando partii la prima volta per Parma, ricordo, andai appositamente in paese per salutarla. Era settembre e al successivo Natale mancavano molti mesi per me, ma pareva pochi per lei. Sono trascorsi altri due anni. Un Highlander, senza dubbio. Una scorza dura che fa ben sperare in termini di genetica. Solo che nonna era via da anni. Le è toccato uno dei mali più beffardi, che ti toglie piano piano ogni facoltà cognitiva. Così piano che il tempo smette di essere un fattore di riferimento, il giorno e la notte, il buio e la luce, il pranzo e la cena, Natale indistinguibile da un comunissimo giorno di febbraio. Silenziosa, pressoché immobile, lo sguardo tutto intorno entro le mura di casa. Quando arrivavamo la domenica, eravamo un vespaio tutti intorno a rimbalzare i nostri discorsi vicino alla sua poltrona. Stimolavamo brandelli di memoria, pensando forse, di aiutarla.
Stava seduta su una bella poltrona, col suo sguardo perso di qua e di là.
Se la guardavi a lungo, ti ricambiava un sorriso, altrimenti, si girava e continua a cercare, cercare. Fino a un paio di anni fa, Eva si autoreggeva già sul bracciolo di quella poltrona, teneva le gambine in avanti e riversava su di lei i suoi occhioni:<<Nonnina, nonnina>> la chiamava. E quella sorrideva, a volte un po’ di più, fino a quando non le si bagnavano gli occhi, non di commozione: era ilarità senza contenimento. Allora, Eva appoggiava il palloncino tra le sue mani e attendeva che glielo passasse indietro, altrimenti, se lo prendeva da sola. <<Nonnina, nonnina>>, non rispondeva, ma nascondeva il labbro superiore dentro quello inferiore e indagava, indagava. Avrebbero potuto andare avanti per ore. E forse agli occhi di Eva, che all’epoca aveva due anni, era proprio così: la nonnina era piccola, e sempre più piccola diventava dentro quella poltrona. Poi, piegata, rinsecchita e, quindi, minuscola.
Il tempo che passa, cara nonna, può essere un dolore.
Fortunato chi ti piange perché ti ha persa, fortunato perché ti ha avuta. Nei soleggiati pomeriggi sul balcone, lungo le scale verticali di quella casa con le imposte di legno, c’è stata un’infanzia indistinguibile da quella dei miei cugini, fratelli. Eravamo il vespaio che metteva a soqquadro quello scuro soggiorno pieno di dipinti incomprensibili e bambole di porcellana. Eravamo le impronte di dita sul tavolo, abbellito dal centrino all’uncinetto. Il posto a tavola all’angolo, pur di entrarci tutti. Ti dirò, guardavo con sospetto a quel porta biscotti in latta in cui conservavi i bigodini e mi insospettiva l’immagine di te mansueta, a forzare quei ricci in testa. Cose che avrei dovuto dire, per innescare un rapporto con te, che in fondo sei stata mia nonna, ma non ce lo siamo mai detto. Così, mi sembra di piangere senza motivo, ma il tempo che passa è un dolore anche per me, che ti saluto da lontano. Solo che è un dolore diverso, non convenzionale, non di chi ti ha persa, ma di chi non ti ha avuto abbastanza.
Che ne pensi?