La vacanza è il momento in cui sollevarsi dall’incarico, quale esso sia. Aprire una casa al mare per avere un luogo in cui consentire allo spirito di distendersi, espandersi, e ricoprire lo spazio esterno di teli colorati. La sabbia è l’unico souvenir: tra le dita dei piedi, dentro la borsa e per quanto mi riguarda, tra i denti. Ci sono voluti tre treni, un aereo e un autobus, per arrivare al mare. Ore congelate dal silenzio – ho aperto bocca per parlare con qualcuno solo a sera – assorta com’ero dall’andatura del treno sui binari, il sole scaldava dal finestrino contrastando il gelo provocato dall’aria condizionata; poi, le solite stazioni fredde e meccaniche. Quando sono scesa a Punta Raisi me la stavo facendo di sopra, così ho raggiunto il primo bagno pubblico, ancora nei pressi del binario. Mi mancava pure pisciare in posizione di squat talmente ho provato piacere a partire, levandomi di torno per un po’.
Movimento
Qualche tempo morto, spezzato dal momento snack troppo costoso al gate, i soliti pensieri in coda per imbarcarsi: famiglie con l’accento romano, una coppia innervosita dalla compagnia che li aveva costretti a caricare in stiva il bagaglio, nonostante avessero pagato la priorità, ragazzi di rientro da una vacanza in Sicilia e chissà…forse madri snaturate, ladri, disperati, nessuno troppo ricco ma tutti soggiogati dalle nuove politiche di Rayanair che zitta zitta quatta quatta, mentre in molti pensavamo a esibire il Green Pass (mai richiesto) – ci ha imposto di scegliere il posto in volo acquistandolo alla cifra minima di 3, 3.50, 4, o 6 euro (se è il posto meno sfigato). Ma si sa: quando parti per le ferie sei disposto a pagare qualcosa in più, pur di stare rilassato. Nessuna grande meta, date le circostanze, perciò ho deciso di raggiungere un’amica al mare. L’ urgenza di andare lontano da casa vanifica il valore della destinazione, per questo una provincia vale l’altra se intraprendi un viaggio, un litorale rimane indistinto da un altro, e ogni comparazione è superflua.
Foce verde
Così, sono finita in un residence a un chilometro dal litorale laziale nella provincia di Latina. Isolato abbastanza da far perdere la ricezione al telefono – aspetto niente affatto disagevole -, e far sembrare i camion dello scarico merci del negozio davanti casa un lontano ricordo. Ci si abitua in fretta allo stare bene, anche se la vista è disturbata da una chiesa di recente costruzione in aperta campagna. Leggo online trattarsi di architettura moderna, che si ispira al santuario di Lourdes, solo con un nome meno evocativo – rifletto. Stella Maris è il nome della parrocchia, riconosco la devozione alla Madonna tipica dei borghi di mare. Ci sono meno di un centinaio di recensioni su Google rispetto al luogo, recitano tutte all’incirca il solito elogio senza impegno: “Bella, spettacolare!”. Inevitabilmente, se 99 commenti sono positivi, l’occhio cadrà sull’unico severo ma giusto: “Un fungo spuntato in mezzo al nulla!”.
Agro Pontino
“Sticazzi – diremo – Sto in vacanza!”. In realtà, lo dirà Martina. A me sono servite alcune ore di assestamento prima di abituarmi a non fare una mazza tutto il giorno, se non tenere il culo poggiato sulla sabbia, mangiare, tenere il culo poggiato sulla sdraio, mangiare, guardare i papà costruire castelli di sabbia con i figli, programmare cosa mangiare il giorno dopo. C’è stato spazio anche per un po’ di sapere storico, che da queste parti si riflette molto sull’aspetto urbano: Sabaudia fu fondata nel 1933, e fu pensata da alcuni architetti che la immaginarono predisposta per divenire un importante centro sportivo, in particolare per ospitare gare nautiche sul lago di Paola. Divenne espressione del movimento architettonico del razionalismo. Per dire, il centro postale della città compare sui libri d’arte. Per coltivare i campi agricoli nati dopo possenti opere di bonifiche durante gli anni del fascismo, Mussolini richiamò direttamente coloni veneti per avviare le produzioni. Le insegne sono rimaste quelle degli anni del boom edilizio che hanno portato al popolamento della città, oggi rinomata meta turistica grazie a una spiaggia di 20 chilometri e alle dune di sabbia che in primavera si tingono di rosa.
Le storie degli altri
Ai miei occhi ha acquisito senso però, solo nel momento in cui la storia del luogo si è arricchita delle storie personali di chi in quel luogo è nato. Quando i luoghi sono i luoghi della vita di altri e le storie trovano il modo di intrecciarsi e rimanere solide, iniziano a somigliare alle leggende. Cosa le rende impermeabili al tempo è la loro capacità di perpetuare bellezza. Non ci fu modo per Circe di stregare Ulisse, e da quell’uomo diverso, curioso, prese l’amore e da amore fu ricambiata, in un valzer di vita intenso per quanto finito. Nessun inganno, solo il procedere delle cose. Sotto il Monte Circeo, che abbraccia uno dei parchi nazionali naturalistici più grandi d’Italia, si consuma ancora oggi quella storia di fascino e capelli intrecciati. La suggestione vuole che il monte assuma proprio la forma della maga, distesa con il volto in su, di cui appare il profilo, a osservarlo bene. Per altri, la sagoma richiama Ulisse dormiente, nella sua permanenza nell’isola di Eea, nome che un tempo aveva probabilmente il promontorio, quando era interamente circondato dall’acqua, in compagnia delle isole di Ponza, Palmarola e Ventotene, l’arcipelago delle Pontine a largo del litorale.
La lucciola
Se tanto mi da tanto, questo può valere anche per ciascuno di noi, che in fondo di miti ci nutriamo ancora adesso. Una sera, dopo cena, eravamo convinte di stare tornando all’auto per avviarci verso casa. Ci siamo accorte di aver sbagliato direzione solo dopo aver trascorso un’ora intera tracannando birra sulle note di Gloria, abbozzata da uno scarsissimo animatore da Piano Bar, con l’unica competenza necessaria: la cafonaggine. Quella bonaria, s’intende. La stessa del gestore che ci aveva viste esitare sulla soglia del locale, dal nome evocativo, “La Lucciola”. <<Volete entrà?>>, <<Ma c’abbiamo la sabbia ai piedi>> – aveva ribattuto Martina. Quello, con una invidiabile pace interiore, l’ha guardata negli occhi, ha portato la mano alla bocca, ha abbassato la mascherina e sorridendo ha sentenziato: <<E sti cazzi!>>.
La lucciola apparve immediatamente come il posto più bello del mondo. L’attimo dopo cantavamo a squarciagola tutto il repertorio italiano dagli anni ’60 ai Duemila, senza continuità logica. Non eri manco nato quando erano in voga, ma le sai tutte. Quella sera, Piccola stella senza cielo divenne un coro da stadio. I nostri discorsi – pochi, evidentemente impegnate a ondeggiare sulla sedia sulle note di Rewind – servirono a riconsiderare gli uomini pelati, ingiustamente esclusi a priori spesso dai nostri interessi in fatto di fisicità.
Roma Bene
Per non farci mancare nulla, un paio di sere dopo, ci siamo misurate con l’universo parallelo dei fighettini in camicia di lino e mocassino anche in spiaggia. Non avevo ancora visto uno stabilimento balneare completo di area relax, parrucchiera, e docce calde. Il sole aveva fatto a botte con le nuvole per tutta la mattina, alla fine l’ha spuntata, cedendo solo al maestrale, ma proponendo una golden hour da paura. Nessuno dei presenti sembrava troppo preoccupato del meteo in realtà. Ho imparato che al mare si mantiene sempre un certo stile, lasciando i capelli sciolti, prediligendo i pareo agli shorts. Bandite la Havajanas: la ciabatta è eleganza. Non avevo granché da condividere con quel contesto, perciò l’ho presa come un gioco: ho smesso di fare caso a cosa avevo intorno e mi ci sono infilata dentro. Per un paio d’ore, sono tornata ad avere 18 anni: ingenua, ma piena di risorse. Via l’elastico ai capelli, matita, rossetto, ho insaccato un vestito e quanto al profumo, bastava l’essenza della crema solare. Che manca? Una complice, certo. Ce l’avevo.
Lucertole
Martina ed io non facciamo altro che cambiare pelle, come lucertole, adattandoci a quello che il momento richiede, assecondando desideri legittimi, imbrogliando la nostra testa e giocando fino allo sfinimento, quando una confessa all’altra che non ne ha più. Un pezzo di pizza appena sfornata, un concerto rock in piazza, l’incedere lento dei vacanzieri per le strade, i negozi aperti fino a tarda sera, quaranta persone in fila per prendere le bombe da Ciccio, e la strada di ritorno verso casa, costeggiando il bosco. Quello è il mio momento preferito, quando la conversazione si fa lenta, i pensieri arrivano piano, si dà voce ai segreti e si mettono sul piatto le verità che non sempre sai raccontare a te stesso. Una spalla serve, per riabilitare i pelati e girare a vuoto per il vicinato sperando di rivedere i tipi carini che avevamo salutato quella mattina. Ci siamo rivelate l’una a l’altra, e ancora a noi stesse: testarde, fragili, generose, sciocche, ribelli, adulte, se è il caso pure cafone. Siamo una pasta pecorino, pancetta e cozze. Senza che questo desti alcuno scandalo. E siamo il pollo con le verdure prima di un approfondimento notturno su Kabul. Non siamo simili, ma simile è il nostro desiderio di vita, in vacanza ma anche domani, quando l’una ricorderà all’altra che merita tutta la bellezza possibile.
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