Selfie con gli sposi

selfie con gli sposi

In un piccolo paese, ci sono solo due momenti in cui le strade rimangono pervase dal silenzio: la notte fonda certamente, e il primo pomeriggio, quando le attività chiudono temporaneamente, ci si ritira per pranzare, qualcuno sonnecchia e le mura di casa proteggono dal caldo asfissiante di un fine giugno in Sicilia. Quello spazio piatto, discreto, è interrotto talvolta dal rombo di un auto di passaggio. Ci sono volte però, in cui i portoni delle case restano aperti, e allora, qualcosa dentro sta succedendo, qualcosa è in atto…

L’auto per la sposa era già sotto casa, l’autista stretto nella sua camicia bianca e i Rayban a gocce specchiati sbadigliava ritirando la pancia e alzando i pantaloni. Di lì a poco uno stuolo di vicini e curiosi, si sarebbe radunato in attesa di vedere la sposa. Un tempo, messo piede fuori casa, la nubenda veniva accolta da un fragoroso applauso e qualcuno gridava “Auguri!”, “Complimenti!”…Mercoledì invece sembrava di essere in Via Brera a Milano, fuori dal Jamaica con i paparazzi a scattare addosso decine di foto inspiegabilmente raccolte nei megabyte degli honor. Il calore dei presenti era comunque evidente, a ragione di una felicità grande che quindi poteva essere persino di tutti.

Dall’appartamento si alzava un vociare allegro, di chi aveva già dato inizio alla festa. Ci si prepara in molti modi a un matrimonio: c’è un rituale circa cosa indossare, cosa escogitare, cosa abbinare, e un po’ meno forse – badiamo a come essere felici, dando per scontato che qualcosa ci esalterà, ma non considerando che quel qualcosa siamo noi. Ci affidiamo all’incanto. E ora so perché: due delle mie persone preferite si sono sposate, così ci siamo fatti belli per celebrare quella felicità. Esperti della tradizione, sappiamo fare dell’eleganza un sintomo di ebrezza. Gli orecchini e il ciondolo in perla, le unghia smaltate di un colore delicato, il rossetto vivace sulle labbra…

Quando la sposa, ancora in elegante intimo, è apparsa sulla soglia, ci siamo arrese allo stupore. In quel momento è iniziato un gioco di riflessi che è continuato fino a sera, in una corrispondenza continua di ciò che stavamo provando…neanche se a sposarmi fossi io! E no, non è certo l’idea del matrimonio a infiocchettarmi la testa, piuttosto il concentrato di significati che dal matrimonio scaturiscono. I matrimoni sono difficili, a dirla tutta, perché non hai alternativa: o sai goderne o resti fuso col caldo finché il buffet dei dolci non decreterà la fine del supplizio. Mercoledì è stata una giornata magnifica, perché non c’è cosa più bella che essere partecipe della felicità dei tuoi amici.

Quella felicità, ho avuto il piacere di testimoniarla. E così, di scoprire sulla mia pelle che rintracciare l’amore disorienta. Si concretizza un sentimento autentico, che si presenta al mondo nella sua nudità, e quell’amore – quando lo vedi – ti travolge. Solo sei mesi fa, sarebbe passato dolorosamente inosservato ai miei occhi tutto ciò, non curante com’ero di una parte di me perfettamente in grado invece, di saper stare in certe emozioni. Ciò che credevo impossibile in realtà, non solo lo comprendo, ma posso persino contemplarlo per me stessa. Sposarmi? Perché no. Non sposarmi? E che problema c’è? Avere un lavoro con notevoli responsabilità? Eccomi. Tuffarmi giù su uno scivolo in mare? Fatto. Fatto. Fatto. Fatto. Scegliere, insomma, di stare e come stare nelle cose della vita, purché siano libere scelte. E purché, alla base di tutto, rimanga solido il rispetto per se stessi.

Non ho cambiato città finché non l’ho desiderato fortemente, non ho permesso agli uomini di conoscermi, finché non ho sgomberato il campo da ciò che lo rendeva impossibile, non ci sarà un’occasione performante, finché non la cercherò. I matrimoni restano difficili anche adesso, perché tendono a sottolineare quello che non esiste ancora. Ma oggi sono lontana dallo schema preconfezionato che mi è stato consegnato in dote dalla cultura di appartenenza, che mi vuole indistinguibile dalla massa o perfettamente riconducibile agli unici modelli previsti: buona, virtuosa ma poi basta. O prendi marito o qualcosa in te sarà andato storto. Mi ha fatto sorridere, durante la festa, ricevere moltissimi complimenti che dicevano pressappoco tutti così: “Sei irriconoscibile” – “Non sono abituata a vederti così, sei trasformata”. Onore a estetisti e parrucchieri ma oh…ragazzi, sveglia! Mi domando cosa impedisce a molti di formulare una semplice frase come “Sei bella”. Eravamo tutti uno schianto d’altronde, fighe e fighi pazzeschi in pista a ritmo di bachata e merengue. Leggeri, colorati, pieni di vita che ne abbiamo da vendere. Capaci di raccogliere la felicità dei nostri amici sposi in un abbraccio unico e memorabile. Come uniche e memorabili sanno essere le serate perfette.

L’anticiclone ci ha privato del cielo. Avevo una ferramenta in testa e gli aloni del giorno. Ma quando lo sposo ha accolto all’altare la sposa con un lungo, infinito bacio sulla fronte, non ho avuto dubbi: ecco l’amore. Sotto l’imponente presbiterio del Duomo di Cefalù, lo sguardo per la prima volta in 29 anni, non era votato all’Altissimo, ma alle note di umanità che si stavano componendo da sé, nello scambiarsi le promesse, nel sottoscrivere un patto, nello stringersi in un momento tanto intimo quanto universale. Umanissimi. Due delle mie persone preferite si sono sposate e non c’era altro modo di celebrare la felicità se non fare fuoriuscire la propria. La vita è un medley mentre scoli di sudore; è perpetuare il desiderio, fare della felicità un inno. In Sicilia ho un grappolo di amici che ormai ride di ciò che non può cambiare e si regala sprazzi di normalità con vestiti buoni e scarpe d’occasione. Farsi belli è naturale conseguenza per chi vive la vita con devozione. Ma anche Baila Morena che mi torna in mente insieme a tutto quello che ho visto e di cui mi fido, perché lo so, ora lo so: amare è tutto ciò che va fatto.

Your job, our text, one pic

Quanto può distare il Pakistan da qui? Molto meno di quanto immaginiamo, se programmi un viaggio da te all’altro capo della strada, dove puoi trovare un pozzo di storie sognanti: fatte da esseri qualunque.

La primavera ha in serbo sempre più chance di incontri, più incroci ai semafori e giornate che negoziano la loro fine con il sole più a lungo. Quando abbiamo deciso di sfidare quegli incroci, di tallonare quelle strade, in realtà, non avevamo un’idea precisa di quello che sarebbe successo. Ho messo le scarpe comode, un piumino da 100 grammi per la sera e ho preso la macchina fotografica che ad aprile avevo chiesto a mia sorella in prestito, immaginando che a un certo punto, mi sarebbe tornata utile. Non so usarla, non ho mai veramente capito come ottenere un’esposizione corretta, ma mi ero fatta forte dell’idea che i tecnicismi sarebbero stati secondari, non sapevo che forma avrebbe assunto la bellezza in questa storia.

Alle 20 del 10 maggio Piazzale Corridoni a Parma si stava lentamente svuotando: il libero professionista sulla bici, con il vestito buono e lo zaino in spalla imboccava Via Nino Bixio, la salumeria all’angolo abbassava la saracinesca, gli autobus 1, 5 e 6 percorrevano le ultime corse. Sulla soglia del locale semibuio, una donna di mezza età era appoggiata alla porta fumando una sigaretta, i capelli legati, il grembiule sul ventre, nonostante tutto, il volto segnato da ottimismo. Ero arrivata puntuale sul posto mentre, come al solito, Raffaele tardava – “Vez sto arrivando” – riproduceva l’audio su WhatsApp. Si stava perdendo già il primo atto. Sapevamo che a un certo punto sarebbero rimasti in scena gli unici personaggi a cui eravamo realmente interessati quella sera, sapevamo dove trovarli, ci eravamo già caricati di immagini mentali, come quando vai a scuola preparato perché se ti interroga la sai, sensazione spesso a me sconosciuta, così pervasa dall’insicurezza. Non avevo ancora abbassato il cavalletto della mia Eusebi, quando mi piantai nel bel mezzo del marciapiede, invadendo volontariamente lo spazio di un ragazzo che di lì a poco sarebbe ripartito con il suo Glovo pieno di pizze. Era piuttosto basso, indossava dei pantaloni in stile militare, un giubbotto e un passamontagna grigio, vecchio, o forse era solo un pezzo di lana bucato sul naso e sugli occhi. Il monopattino di Raf frena accanto a me, gli faccio segno con lo sguardo, e riconosciamo entrambi il soggetto: il rider perfetto.

Piazzale Corridoni – Parma, maggio 2021

Dovevamo tornare a casa entro poche ore con un certo numero di scatti. E per farlo, andavano oltrepassati molti limiti, su tutti: noi stessi. La sfida era tutta lì, in quella distanza tra noi e il Pakistan, tra noi e il ragazzo che per tutta la sera rimase senza nome. C’era un solo modo per farlo entrare nel racconto che volevamo costruire, chiedergli di partecipare. E c’era solo un codice possibile per farlo: non le parole, non le promesse, ma gli occhi. Era l’unica cosa che quel ragazzo con lo zaino giallo Glovo, concedeva di sé al mondo circostante. Abbiamo varcato la soglia di qualunque cosa fosse quella resistenza estrema all’altro e lo abbiamo salutato. Abbiamo impostato la conversazione sul nostro inglese scolastico, mischiato all’inglese della strada di chi arriva in Italia da ogni parte del mondo “in via di sviluppo”. E non è andata bene. Chissà quanta distorsione sarà intercorsa tra lui e noi in quelle poche battute. Your job, our text, one pic. Non ricevemmo un semplice no, non ci ha voltato le spalle, ma abbiamo visto la paura crescere nei suoi occhi. C’era di più, ma mi sembrava un azzardo lavorare d’immaginazione; di certo, nel suo sguardo non esisteva inganno, ma un profondo sentire, un profondo sentire angosciato.

Un po’ scossi, siamo tornati a darci la carica. I locali di Via D’Azeglio, da qualche settimana, erano tornati ad accogliere gente all’esterno, ma le commesse da casa non sembravano affatto diminuite. Su e giù fino a Piazzale Santa Croce, erano almeno una decina i rider impegnati a soddisfare tutti gli ordini: nel giro di pochi minuti abbiamo conosciuto Mohammed, molto disponibile e divertito dall’idea che la sua storia potesse in qualche modo destare interesse. Ci ha mostrato lo smartphone con le notifiche, le mappe di Google pronte a indicargli la destinazione e il suo sorriso direi inossidabile. A lui abbiamo scattato le nostre prime foto, ricevendo in cambio non solo quadri e scene ma anche una dose inaspettata di adrenalina che non è più calata per il resto della nostra ricognizione fotografica. A dire il vero, non avevamo un’idea precisa di cosa avremmo voluto realizzare, il progetto ha preso forma poco alla volta, dopo i primi momenti quasi di smarrimento. Non era possibile far convergere la nostra immagine con la realtà, era la realtà che avrebbe ispirato noi. Proprio come quando ci mettiamo lì a spulciare articoli, documenti e report per ricavarne una sola storia, per quanto ricca di spin-off. Piena al punto da obbligarci a selezionare, escludere, rinunciare se necessario. Su Viale Mentana per esempio, avremmo potuto riprendere un rider completamente perso, con una consegna da far giungere al lato opposto della città. Ci siamo limitati a dargli delle indicazioni, comprendendo in quei secondi tutto il disagio di un’occupazione che in fondo è lo specchio della nostra società: si affida totalmente ai mezzi, ne rimane assuefatta fino alla dipendenza, e su essa costruisce ogni possibilità. Le piattaforme digitali che assumono i ciclo fattorini si fondano in toto sull’azione trasparente del digitare: scelgo un ordine dalla mia app, che diventa commessa, che diventa spedizione. Priva di ogni interazione umana.

Riders in Piazza Garibaldi – Parma, maggio 2021

Siamo andati a caccia dell’invisibile e ci abbiamo trovato dietro persone. Come Umar, 30 anni, seduto sotto la statua di Piazza Garibaldi in attesa delle ultime notifiche. Sotto il casco giallo e la mascherina aderente al volto, la fisicità greca di un amatore dell’arte marziale, col sogno di tornare a casa per completare i suoi studi da videomaker. Ci ha anche fatto vedere qualche suo montaggio; mostrava i suoi capelli lunghi e neri, raccolti solo temporaneamente in un codino durante il lavoro. Era uno dei più attrezzati, considerato quanto spesse fossero le ruote della sua bici. Jawed ci ha detto poco, ma nella posa naturale fermo al semaforo, ha rivelato ogni cosa. Mohammed (un altro) non voleva prestarsi al ritratto, si è anche allontanato da noi, per poi tornare. Ho capito cosa avesse fatto scattare in lui la voglia di mettersi in gioco solo quando mi ha chiesto di mandargli le foto che lo riguardavano. Sanno che spesso i giornali si occupano di loro, che se ne parla in virtù del groviglio normativo che non viene fuori dall’impasse autonomo/subordinato. Ma in quel momento, voleva solo far vedere alla sua famiglia laggiù lontana che qui ce la sta facendo.

Nel frattempo, anche l’adrenalina per noi era diventata un travaglio. Nessuna storia ci sembrava uguale all’altra per quanto si intravedesse un filo comune: sono quasi tutti uomini che lasciano una terra in cui le istituzioni li abbandonano, per approdare in altre in cui le istituzioni permettono che vengano schiavizzati. Il dato simile, in ogni caso, è rappresentato dalla straordinaria fiducia che evidentemente ripongono in loro stessi. Non sono poveri disgraziati, ma ricchi avventurieri. L’uomo è artefice del proprio destino solo finché il destino lo colloca nella parte giusta del mondo. La storia più bella, a mio avviso, resta quella che non abbiamo raccontato. Andare a fondo, si è rivelato più difficile di quanto potessimo immaginare, oltre l’empatia che in qualche modo abbiamo instaurato – forse per la simpatia che potevamo evocare su e giù per Strada Repubblica a bordo di una sgangherata bici da passeggio e di un monopattino che si scarica in fretta – alcuni volti sono rimasti lontani dall’obiettivo. Abbiamo rivisto il ragazzo con lo zaino giallo a fine serata, lo abbiamo salutato sotto il porticato di Via Mazzini, tirando dritti per la nostra strada, quando ci ha chiamato indietro: “Sorry, I can’t” – stavolta non c’era paura nei suoi occhi, ma la stessa inconfondibile angoscia. “Don’t worry” – replicai con la voce rotta per la commozione, prima di chiedergli come fosse andata la sua serata di lavoro. Aveva guadagnato bene: 15 euro.

Un po’ rotta anche io, a quel punto, sentivo di avere in me tutto il Pakistan del mondo, ma di poterlo guardare ancora solo da lontano. Avevo le mani sporche di grasso per essermi poggiata a terra, sudate dopo averle tenuto a lungo sui manubri della bicicletta, ottanta foto sbagliate sulla memoria della reflex, e una profonda gratitudine verso il mestiere più contraddittorio e bello che potessi scegliere per me: raccontare.

Nelle scorse settimane, abbiamo completato il nostro lavoro: Into the night è il reportage che racconta la condizione dei rider, provando a spiegarne il fenomeno attraverso gli sguardi dei ciclo fattorini che abbiamo incontrato, e che si sono fermati a parlare con noi, condividendo le loro esperienze. Le foto sono state scattate nel mese di maggio 2021 a Parma. Il reportage è stato realizzato su richiesta del docente del corso di Giornalismo dell’Università di Parma, Marco Gualazzini, stimato fotoreporter, al fine del superamento dell’esame integrato in un insegnamento del corso. Le foto abbinate a questo post, non fanno parte della selezione.

Amore con riserva

amore con riserva

Non salivo su una metro da dicembre 2019 e non passavo da un Mac per un break da quando andavo al liceo probabilmente. Quando ho svuotato il borsone, una volta rientrata a casa dopo un paio di giorni fuori, ho caricato in lavatrice tutti i vestiti con cui mi ero appoggiata sui corrimano della città più movimentata d’Italia: Milano. Avevo perso il contatto con realtà enormi, caotiche, piene, molteplici, in cui l’elemento architettonico sfida il cielo e lo smog ti sputa addosso. Appiedata, sei costretta a stare nella calca dei semafori, a tenere gli occhi aperti finché non hai attraversato la strada e devi tenerti pronto a subire l’intolleranza delle sciure di Monza che impatti involontariamente col sacco che ti pende mentre corri in stazione. Che belle le stazioni! I tunnel dove soffia la corrente del prossimo treno in arrivo, il puzzo delle pareti, le maledizioni della zingara a cui non rendi conto.

C’erano due donne sedute a distanza di sicurezza in metro, pressoché identiche: mezza età, alte, pantalone chino blu, capelli grigi corti che si poggiano sugli occhiali da vista e una blusa a coprire i fianchi, ai piedi tipicamente Saucony. Sono salite a Sesto come noi, chissà dove erano dirette, a risolvere quale commissione, a iniziare chissà quale turno…Nei pressi delle fermate del centro storico, il vagone accoglie alcune donne sui tacchi, il trench lungo e la mise da ufficio; gli uomini invece, indossano la camicia dentro i pantaloni e uno zaino con dentro un sapere informatico che non credo raggiungerò mai. Non troppo assorta nei pensieri, gettavo l’occhio alla linea delle fermate, immaginando come si possano sviluppare i quartieri in base alla percezione che se ne ha nell’immaginario collettivo: Duomo, Rogoredo (quello del parchetto dei drogati), Porta Venezia, che avvia Corso Buenos Aires, quello dello shopping.

Quanto mi sento ovattata nella mia tranquilla vita di provincia. A Parma riconosco già i volti dei riders e i nomi delle strade: i miei colleghi mi chiamano Google Maps. Ho avuto più tempo per coltivare un rapporto con la mia città, le sue misure, le sue condizioni, le sue regole tacite. La vita nei parchi si consuma una cacca di cane alla volta, mentre a Monza il parco è così grande da ospitare dentro l’autodromo! Quante vite servirebbero per riuscire a fare di ogni posto, un luogo familiare? Abbiamo chiesto ad alcuni poliziotti cosa fosse il palazzo di fronte a noi: un omone alto ci ha risposto con un inconfondibile accento siciliano: “Questo? Il tribunale è”. Il caos della città mi ha riportata dentro un turbinio di storie inconoscibili, che immagino però, molto simili tra loro. In fondo, stavamo tutti riprendendoci un po’ di normalità, solo con le mani consumate dal gel alcolico.

Lì in mezzo comunque, dicevo, ti senti scomparire. La città ti ingoia nel suo essere multidimensionale, sarà per questo che chi può permetterselo fugge al mare nel weekend. Chissà come deve essere sentire di avere finalmente due chiodi ai piedi e stop, stazionare. Ti crei una sorta di microcosmo che delimiti tu e ci metti dentro quello che ti fa stare bene. Lo coltivi ogni giorno, aspettando pazientemente il momento in cui il vicino aprirà la porta e sarà disposto a chiacchierare con te, così la volta dopo gli renderai il sale e quella dopo ancora magari, ci scappa il caffè. I miei vicini alle 5.30 del mattino passeggiano con i tacchi in casa e oggi, quelli di fronte passavano il taglia erba. Staziono qui da un po’, ma è proprio dura a volte risultare “confident”. Anche senza il caos della città. Il mio supermercato è confident, il mio parco, la ciclabile, il Ponte Caprazucca, Via La Spezia sono i miei luoghi confident a Parma. Li ho visti con le foglie gialle, la neve di gennaio, la pioggia di maggio e sotto il sole di questi giorni che sanno di addio. Quanto ho corso negli ultimi otto mesi!

Mi chiedevo allora, se la mia relazione con i luoghi potesse raccontare anche qualcosa delle altre relazioni, quelle più cinematografiche, con gli uomini per esempio. Se li affronto come si affronta il caos di Milano, o il perbenismo di Monza, o come provo giornalmente a scalfire la diffidenza di Parma. So che, ferma sulle strisce, le macchine frenano e ti lasciano passare, che a volte il clacson sfoga una frustrazione anche qui. So che ci si permea ai luoghi, che per sopravvivere devi adattarti e al contempo fare a gara per non perdere te stesso. Così, vince chi resta in piedi dopo aver cambiato pelle cento volte e cento volte è rimasto fedele a se stesso. Forse le relazioni sono come le tante dimensioni di una città: impossibili da decifrare, sporche, impari, ma anche solidali, capaci di ristorarti, e piene di posti in cui sederti per iniziare uno scambio. E’ facile perdersi, come pure lasciarle. Una settimana lì, tre mesi qui, un treno per ogni stazione e un mare verso cui scappare.

Padella, curcuma e ahahah

compleanno

Mi sono alzata felice di cucinare, questo è quanto. La storia si è svolta in modo molto semplice: ho messo gli ingredienti sul tavolo in modo da non dimenticare nulla e dieci minuti dopo i cookies erano in forno. Nel frattempo, mescolavo il latte con lo zucchero, la maizena e gli aromi, Spotify lanciava indie pop e arrivavano i messaggi. Poi sono arrivati Sami e Giorgia per aiutarmi a tagliare le verdure e la cucina si è accesa, diventando casa.

C’è una sottile ironia nel trascorrere del tempo sano e felice in casa, dopo che la casa a lungo ha rappresentato per tutti noi quando una prigione, quando l’eco preponderante dei nostri pensieri. Ma c’è una differenza sostanziale nel tempo di oggi: la casa è tornata ad essere il luogo dell’ospitalità. Ho trascorso il mio compleanno spadellando, insieme con l’antagonista per eccellenza della mia vita, il cibo. Il forno e i fornelli oggi, non erano solo gli accessori per soddisfare un bisogno, ma un mezzo per condividere spazio, momenti e ricordi da costruire. Attorno alla tavola si è adunato il piacere della buona compagnia e il mio desiderio ha incontrato il suo migliore soddisfacimento.

Questa notte, in uno dei pochi messaggi che ha colto l’occasione di buttare giù due parole per un augurio di buon compleanno, una cara amica mi ha ricordato che mentre molti si sono attanagliati sui fusti, io ho scelto il ramo esposto al vento in questo tempo avverso. Vero. Potevo stare tra le mie certezze, usare i codici conosciuti e svolgere i miei compiti soliti. Potevo scegliere di non rischiare la solitudine. Non ho mai avuto il dubbio però, che il vuoto di certi giorni qui fosse solo l’anticamera di un tempo nuovo. Ehi, c’è una piccola famiglia anche qui ora: nella bellezza di un abbraccio spontaneo rubato alla paura. Siamo sopravvissuti a una tempesta oltre la quale il sereno ha squarciato le nubi di primavera. Seria: se l’impossibilità del contatto è stato il prezzo da pagare, l’occasione di riprenderci il sublime dell’incontro non è andata persa.

Siamo diversi. Siamo distanti. Siamo irraggiungibili. Ciò che ci sembra sovrapponibile a noi, è solo il più prossimo dei diseguali. Per questo, mettersi insieme è una festa: perché abbiamo scavalcato un recinto dove è possibile danzare. Non sono felice perché è stato il mio giorno, ma perché è stato un giorno condiviso. Trovo che ci sia una straordinaria libertà nel volere porre fine anche all’euforia di un giorno. Forse è questo che vuol dire per me crescere: la mia più cara amica mi ha videochiamata dai corridoi di un ospedale, in un momento di quiete per poter condividere con me i più futili e veri pensieri. Un apprezzamento per il mio seno, un apprezzamento per il suo scrub, un apprezzamento per la nostra riscoperta volontà di non dare troppo senso alle cose e nella leggerezza raccoglierlo invece tutto. Siamo cresciute e diamo peso all’infinitesimale poco che fa di noi l’essere essenzialmente due qualunque donne pensanti.

Non avevo abbastanza forchette, così io ne ho presa una di plastica lavabile. Ho mangiato le fragole, che non avevo mai mangiato perché per lungo tempo ero rimasta ferma nella convinzione infondata che non mi piacessero. L’alcool mi smonta subito lo stomaco e non c’è troppa grazia nelle mie labbra truccate, se sto sorseggiando del vino. Chiunque poteva lavare i piatti e usare la mia stanza. Ho accolto festante tutti i miei zii al telefono pian piano vaccinati. Crescere è avere premura, pensiero, preoccupazione, riguardo. Crescere implica il rispetto per ciò che conta e la più totale relatività per un messaggio mancato. Non mi importa essere raggiunta, importa che io sia vista e che io veda.

Lo spazio per l’inaspettato non conosce formalità. Grazie e auguri, di cuore.

Cosa c’entro con la Giornata della Terra

giornata terra

Come ho celebrato oggi la Giornata della Terra?
Essendo giovedì, ho fatto la mia spesa di frutta e verdura nel mercatino sotto casa. Ho acquistato i prodotti delle aziende agricole locali. Nel pomeriggio, al termine della mia giornata, ho svolto il mio solito allenamento al parco, valorizzando ciò che la natura mi ha dato: arti, busto, glutei e ascelle da cui espellere tossine. Come non ho celebrato la Giornata della Terra oggi? Mi è arrivato un pacco Amazon, perché avevo effettuato degli ordini online. Evito se posso, ma non sempre riesco a rinunciare ai benefici degli acquisti facili.

Il discorso è complesso

La crisi ambientale è drammaticamente collegata alle nostre abitudini di consumo. Da quando vivo sola però, ho potuto più facilmente compiere delle scelte sul mio stile di vita: divenendo direttamente responsabile della raccolta differenziata casalinga mi sono accorta della quantità enorme di plastica che producevo pur essendo sola. Qui si espone il venerdì: allora, mi sono imposta di riempire un sacco solo una volta ogni due settimane. In città si imballa tutto.
Ho imparato a usare la bici anche con il gran freddo.
Evito i cibi precotti: cucino io! Ho scoperto di essere brava a fare i risotti.

Non compro quasi più la carne al supermercato (resistono pollo e tacchino). Tranquilla mamma, compenso con i legumi.
Guardo con sempre maggiore interesse all’usato.
Faccio lavaggi a freddo, o comunque a basse temperature.
Prima di questo però, ho praticamente esfoliato le mie tute (capo d’abbigliamento per eccellenza nel 20-21).

Non solo io

Ci sono moltissime altre pratiche evitabili o dannose che posso imparare a risolvere assumendo la sostenibilità come valore. Non sono un’attivista, non ho mai aderito a stili di vita precisi, e infine, non credo che le responsabilità individuali saranno definitivamente in grado di risollevare una catastrofica condizione del nostro ambiente. Occorrono anche, moltissime responsabilità collettive.

Tuttavia, non avrebbe alcun senso per me celebrare o lavorare all’interno di una redazione che studia, analizza e informa su queste problematiche, se tutto ciò non avesse dei risvolti pratici sulla mia vita.

Visitate Salgoalsud. Celebrate la Terra.
Rassodate i vostri culi al parco.

Ma ve la immaginate la fine?

Si è alzato un gran vento anche qua. Mi dicono che è raro sulla bassa, eppure niente equinozio quest’anno. Una folata ha spezzato i petali degli alberi di pesco sotto casa e il cielo si è ingrigito. Tocca aspettare per celebrare la nuova stagione. Incautamente avevo osato tirare fuori la giacca in ecopelle che a conti fatti – tra cambiamenti climatici, restrizioni e ritorni verso sud – metterò un paio di settimane l’anno.

Pure l’armadio vive in attesa di un liberi tutti finale, la caduta del muro di Berlino, lo sbarco in Normandia, l’incontro di Teano, il trattato di Versailles, il ritorno a casa di Ulisse, insomma quel momento lì, quello simile all’esultanza di Grosso in Italia-Germania 2006, l’abbraccio di Pirlo a Cannavaro dopo l’ultimo rigore, l’ultima campanella di giugno a scuola. Come sarà quando sarà finita? Chi ce lo dirà? Da chi andremo?

Magari non ce ne accorgeremo neanche, butteremo via le mascherine e basta, senza nessun rito o esultanza. Ci diremo salvi con i traumi addosso o negheremo che sia finita. A un certo punto insomma, ci potremo permettere di non avere razionalmente nessuna paura. E scopriremo di averle comunque. Ci sarà per tutti quel parente o amico che ci dirà di non esagerare, ci sentiremo pure un po’ scemi, alienati, confusi. Invecchiati sicuro. I pub avranno un appeal diverso, prevedo un innalzamento dell’indice di acquisto per attrezzatura da montagna e camminata nordica, i più audaci si saranno dati all’alpinismo, compreremo una canoa e saremo disposti a portarla in spalla, pur di dare due bracciate lontano, verso l’orizzonte dove ogni libertà viene ricomposta, torna legittima, e il mondo accenna le sue forme tondeggianti. I rumori, quelli torneranno sicuro, quelle dannate auto a tutte le ore del giorno e della notte.

Rimpiangerò la campagna, la sua quiete un po’ povera, il suo spirito piatto, sempre disposta a rivoltare la terra di cui è fatta. Comprerò dei vestiti, perché ne avrò messi via altri. E non guarderò solo tute, ma oserò nuovi outfit e colori. Ci saranno molti treni, lo giuro. E forse un abbonamento al teatro, monologhi. Monologhi di donne attrici che mi piacciono. Le seguirò sui social. E poi andrò a sentirle dal vivo. Concerti pure, una band magari. Un indie strappalacrime per ricordarmi che non ho più vent’anni anche se sarò in mezzo a ventenni. Ah, poi voglio esagerare: troverò il lavoro che mi piace. Inizierò da stagista e poi mi farò valere, sì. Non sarà necessario coltivare più nessun sogno, perché sarò in perfetta armonia tra la realizzazione di me e il mio conto in banca.

Quanto al cibo, sentite, parliamoci chiaro: ma chi ce l’avrà il tempo di cinque pasti al giorno e di salvare tutti i post sulle idee per una colazione a dieta! Mangerò equilibrato, sostenibile e non comprerò carne al supermercato. Ma mangerò quello che mi pare e soffriggerò sedano, carote e cipolle a piacimento. Impasterò per il gusto di impastare, e devo assolutamente comprare uno sbattitore e un frullatore a immersione, perché altrimenti sei un sacco limitato. Non puoi essere sempre creativo. Serve una zona franca dall’estro, un posto per continuare ad annoiarmi. Tipo la coda. Ridatemi una sala d’attesa dove poter osservare la gente e le sue stranezze. Scambiarsi un sorriso d’intesa, attaccare bottone. Ma quand’è che avete attaccato bottone l’ultima volta?

Servirà una piazza. Sì, vi prego. Tocca farci un evento e che accorra molta gente curiosa. Una sagra, un sabato sera di quelli che almeno per due ore non prendi in mano il telefono. Se fai una storia ti taglio le mani! Stai qua, con me, guarda quello: ma perché porta le basette così? Avrà visto Bridgerton…Accenderò il pc solo quattro ore al giorno e piuttosto vado a fare capanne con i miei cugini piccoli. Giro di Sicilia, ma pure a piedi guarda. Datemi la Via Francigena e sarò Fidippide, solo che sarò l’ultima maratoneta. Se dobbiamo ringraziare la realtà aumentata, io voglio essere diminuita, voglio abbassare il volume, e giuro che ci sarà una serie solo se potrò comparire nei titoli di coda. Comparsa? No, autrice zì. Minimo, minimo racconterò storie senza pilot e senza conclusioni…

Farò una tournee. Sarò groupie di me stessa. La road map sarà segnata da ogni capolinea di treno (ma solo se mi sponsorizza Trenitalia). Farò un reportage e lo titolerò: fino alla fine dei binari. Gli ultimi saranno i primi e per ogni stazione chiederò a un passante: lei si sente più destinazione o partenza a vivere qui? Insomma, più immagino la fine, più prende la forma di nuovo inizio.

I miei pensieri alfa privativo

Si fa un sacco fatica a restare lucidi e proiettati su attività e obiettivi di questi tempi. Ci sentiamo tutti un po’ sospesi, in balia di condizioni esterne mutevoli, voci calate dall’alto, regole, assenza di programmi, figli per casa, e case che si svuotano. Decine e decine di annunci inondano le bacheche dei gruppi autogestiti a Parma. Gli inquilini lasciano le stanze, ma sembra che gli annunci restino appesi ad ammuffire anche nello spazio ingannevole di Facebook. Non c’è compravendita, non ci sono scambi, desideri, missioni, scadenze. Eppure, so per certo che non manca chi progetta. Lauree imminenti, chi sottoscrive assicurazioni, chi ringrazia di avere l’agenda piena di lavoro, chi prova a rendere concreta la sua idea di comunicazione.

Ci sembra che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente, che la pandemia abbia stravolto le carte in tavola, setacciamo le cose attraverso un prima e un dopo, ma così facendo sbagliamo focus. La pandemia ha solo tirato lo sciacquone di un cesso già otturato e finalmente ci siamo accorti della melma venuta a galla. Truce, lo so. Limiti, problemi, inquietudini c’erano anche prima. L’isolamento, le privazioni, le chiusure, la paura, la malattia, lo stato d’emergenza generale, la diffidenza, hanno solo scoperchiato tutto il sommerso. A quel punto, osservando quello che mi circonda, ascoltando gli amici, interagendo con le persone (attraverso un dannato schermo), mi sono accorta sostanzialmente che ci siamo divisi in due gruppi: chi annaspa o è rimasto invischiato e chi si è tappato il naso provando a nuotare.

Oh! Le frasi che ho sentito dire più spesso tra i miei contatti, non a caso, sono due: “a me in fondo è cambiato poco” oppure “non mi sento più lo stesso”. Insomma, qualcuno rigetta ancora il riflesso che questo tempo, come uno specchio, offre di sé. Altri invece, hanno intrapreso uno straordinario viaggio di ricerca. Un po’ come quando scopri di abitare la foto che qualcun altro ha scattato, immortalando un momento di te che altrimenti avresti perso. Oggi mi è stato restituito un frammento della mia storia che non sapevo di avere. Sono finita per caso nel grandangolo di una macchina fotografica, avevo tre anni e, provando a ricostruire il contesto, avrò accettato l’invito di mia zia ad andare a vedere il saggio di mio cugino più grande che suonava il flauto. C’è una bimba dagli occhi grandi e la frangia a coprire la fronte, seduta, da buona, tra i grandi. Sono io, contenuto speciale del film della mia infanzia, inedito. Si prova tenerezza di fronte alle parti bambine sé – “una specie di tenerezza tragica”, l’ha chiamata Anna – Sono io che manco a me stessa.

A strappar via i pezzi di storia comunque, siamo bravi anche da grandi. Ho sempre fretta, un bisogno spasmodico di saltare a conclusioni e leggere gli eventi nell’ordine e nel senso che vorrei. Senza concedermi l’agio dell’accoglienza. Entro a gamba tesa sulle cose, penso di conoscere già gli esiti, e non lascio spazio alla sorpresa. Sono i miei pensieri alfa privativo: quelli che negano o denotano assenza di senso. Perché è facile reputare sbagliato quello che altrimenti dovremmo conoscere. Non mi fido. Zero. Neanche di me stessa. Almeno fino ad ora. La musica (leggerissima) sta cambiando. Sarà per quell’esercizio che ormai da un anno faccio, di mettere in discussione ogni cosa e scrivere pezzi inediti della storia. Sarà che la prossima imminente zona rossa sarà battuta a suon di bibliografia e prato nei pressi di casa. Sarà che il sole, almeno, dovrebbe essere alleato, e ci sono i pensieri da dare e da ricevere a scaldare il cuore. Non ammattiremo neanche stavolta.

L’Università ha fallito. Chiedo i danni

Inizia un nuovo semestre di lezioni online. Di facce depixellizzate, tempi morti, suicidio della creatività, mi senti ti sento uh ci sentiamo, e palle che si fracassano al suolo. Non me lo meritavo.

La cosa veramente comica è che alla triennale ho fatto la telematica. Avevo i miei bei corsi con 18, 24, 42 videolezioni disponibili h24, gli incontri con i tutor su SkypeForBusiness e andavo in sede solo per gli esami. Quanto ho dovuto combattere il mio complesso di inferiorità verso colleghi e amici che facevano la “pubblica” e invece, ero una pioniera! L’e-learning: avanguardia pura! Frequentando scienze della comunicazione peraltro, l’ho anche studiato il “progetto per lo sviluppo e la realizzazione di ambienti di apprendimento aperti e flessibili” su cui si basa l’offerta formativa della mia vecchia università. HAMLET, un nome tanto evocativo quanto pertinente. Pensate, è stato sviluppato tra il 2000 e il 2005. Insomma, quando ancora ero convinta che il mondo finisse all’incrocio di via Dante poco sotto casa mia, altrove si sviluppava il mondo del sapere senza confini.

Lungi da me ogni forma di moralismo, anch’io skippavo le vdl, acceleravo la riproduzione e mi spartivo con i colleghi le trascrizioni da produrre per non dover marcire davanti a uno schermo. Mi sono annoiata certo, mi sono fatta una marea di sconti, come ogni studente che a un certo punto…si deve solo laureare. Ma ci sono stati dei momenti che conservo abbastanza gelosamente, per almeno due motivi: perché il sapere è permeato, mi ha reso parte di ciò che sono e perché lì dentro, tra i fiumi di parole che tengo ancora preziosissimi su drive, ho tessuto relazioni fortissime.

Almeno fatelo bene

Ed era solo una telematica. Nel 2020, complice una devastante pandemia mondiale, che mai, mai nessuno dovrebbe usare come attenuante per sgravarsi da una presa di coscienza necessaria, nell’era più mediatica di sempre, la società dell’informazione che pure formiamo, non è stata in grado di proporre un atterraggio morbido a migliaia di studenti, molti dei quali non sanno nemmeno di sentirsi persi.

Tante volte mi sono sentita disorientata, a un certo punto del mio percorso l’università l’ho proprio mollata. Non sapevo minimamente cosa desiderassi e della mia personalità non c’era traccia neanche su Netlog. Una sera, di ritorno da una brevissima trasferta a Roma, era notte fonda, l’autostrada scorreva sgombra e veloce e come sono solita fare in auto, lato passeggero, ho inoltrato gli occhi al cielo per uno di quei trip mentali in cui state certi, trovo soluzioni a più grandi conflitti di questo tempo. In quella pellicola cinematografica vivida, mi fu chiara una cosa: che dannata fortuna fosse potere studiare. Quanto fosse bello conoscere, capire e ritrovare tra le righe sapienti di un altro, gli stessi pensieri timidi che non avevi mai avuto il coraggio di fare ad alta voce.

Ci sono decine, forse centinaia di spiegazioni del perché l’Università si è arenata nell’anno più catastrofico della storia postmoderna. E sono tutte valide, ma era un veliero già vecchio al porto di partenza. Gonfio del suo prestigio, sicuro del valore della istituzione rappresentata, quando il sistema si è fermato – l’Università ha smesso di insegnare. La confusione, il panico, lo scoraggiamento, gli sbuffi al mattino, la pazienza infinita, tanto la buona volontà quanto il menefreghismo dei docenti, hanno qualcosa da rendere al sapere. Ci spieghino cosa non va per davvero – al di là dell’infrastruttura e delle connessioni a buon mercato. Ci raccontino di un approccio didattico che non ha vacillato nell’ultimo anno, di un adattamento attivo grazie al quale sono riusciti a interagire comunque con gli studenti, al di là della trasposizione tale e quale dell’orario di lezioni com’era prima.

E io pago

Perché com’era prima, non andava già bene. Sono in DAD da un anno, tre su quattro semestri della magistrale che ho iniziato a frequentare a settembre del 2019, si sono svolti online, che al momento significa solo che non si sono svolti affatto. La scorsa primavera, aperta la gabbia dopo il lockdown, ho scelto di lavorare per recuperare il denaro dell’affitto che ho continuato a pagare a vuoto per cinque mesi. Se avessi mollato l’appartamento, avrei compromesso la borsa di studio, la stessa che due anni fa fu condizione sine qua non per consentirmi di studiare fuori sede. La pandemia non ha compromesso la mia carriera universitaria, ho continuato a sostenere gli esami senza intoppi. In questi mesi, il mio rapporto con il sapere è tornato intimo e timido, come quella notte in auto. Non ho potuto tessere relazioni con nuovi docenti che pure, all’Università, servono come referenza. Non ho potuto approfondire nuove relazioni con nuovi colleghi, né frequentare gli spazi di studio che non hanno il potere osmotico di inculcare nozioni nel tuo cervello, ma usano l’adrenalina della sgambata in bici fino alla Biblioteca Paolotti, per tenerti sveglio nelle ore di studio a seguire.

Ci sentiamo così, derubati. E dopo 11 mesi non siamo ancora in grado di fare un discorso diverso da “Portate pazienza, arriverà la primavera”. Mi porto avanti, questa è la conta dei danni. Penso di avere il diritto di enuclearla, dato che nel frattempo ho solo gettato ami al mio futuro, senza smettere neanche per un attimo di credere che ne avrò uno. Meno incazzato spero.

Se tutto è un meme

Straordinario potere delle immagini. Bernie Sanders ha impiegato pochi attimi a fare il giro del mondo con le sue muffole marroni il giorno dell’inauguration day nella capitale Whashington.

Se ne stava seduto, sopito quasi, durante la manifestazione più importante dell’anno, con la proclamazione del nuovo presidente degli Stati Uniti da una parte e Lady Gaga vestita come un personaggio degli Hunger Games dall’altra. Abbiamo visto sfilare le personalità più vivaci a Capitol Hill, i più amati come Barack e Michelle Obama, personaggi che sono la storia d’America. Fra loro, anche un vecchietto con un pantalone casual e l’aria di chi non ha più nulla da dimostrare.

Almeno quattro buone ragioni hanno reso le gambe accavallate del vecchio Sanders memorabili: le spiega Annamaria Testa su Internazionale qui. Leggerle mi ha incuriosito rispetto alla densità di significato che può assumere una foto ritoccata nata per gioco. E’ questo un meme, no? L’estro creativo – a tratti geniale – di chi associa un evento a un prodotto culturale preesistente, facendolo rifiorire. Il meme è un’associazione libera comprensibile a quei pochi che possiedono la conoscenza sufficiente a riconoscere un significato di un universo culturale in relazione a un altro.

Meme è un’unità culturale di un sistema di comportamenti trasmesso da un individuo a un altro per imitazione. Così Treccani. In altre parole, il meme è un codice che si imprime nel nostro cervello perché idolatriamo qualcosa o qualcuno. La parole greca da cui meme deriva del resto, significa proprio questo: imitare. Diventa improvvisamente famoso, degno di restare lì e rievocare un elemento. Chi si scorda lo zio Michele di Avetrana? Lu tratturi. Perché l’unica condizione necessaria per un meme è la sua capacità di auto-replicarsi. Ecco, l’immagine che What’s App segnala come “Inoltrata molte volte” ha già fatto breccia sugli schermi di centinaia di utenti.

Subito. Qualsiasi cosa accada intorno a noi, c’è già una rielaborazione goliardica del tutto. Un rapido riesame che banalizza ogni cosa, persino la politica. Ma se tutto è ridicolizzato, cosa resta da prendere sul serio? Per un Bernie Sanders che apre a nuove narrazioni del capitalismo, ci sono almeno una decina di Zio Michele pronti a trasformare il noto complice di un omicidio, in una figura imperitura.

Quando arrivai a Palermo, dopo anni in provincia, un collega più grande mi disse: “Arrivare da una piccola realtà ti ha consegnato un certo modo di vedere le cose. Non perderlo. Non pensare che sia normale, ciò che normale non è. Non pensare che la munnizza per strada sia normale, o le macchine in doppia fila”. Se tutto è diventato memorabile, ridatemi un po’ di lucida normalità. Sopra le righe lasciamoci le note alte, le missioni spaziali, i maxi processi della giustizia, le pandemie.

Tutto il resto, lasciamo che sia noia o grande sbaglio, quotidiano ordinario, vita trasparente, innocua e salubre. Entusiasmi, virtù e amori. Errori, crimini, dolori. Giusto e sbagliato. Riprendiamoci quella preziosa arte che è criticare.

Queste mura anni Sessanta

anni sessanta

Plink…plink…plink. È quasi l’una e di prender sonno non se ne parla. Quel suono tremendo che si ficca nel cervello è il tifone della doccia che gocciola. Gocciola sempre, da quando vivo qui. Dopo la doccia lo riverso in una bacinella per raccogliere l’acqua e non farla perdere. Poi, la riutilizziamo per scaricare il water o pulire la vasca. Una vasca che usiamo solo come doccia, con lo smalto rovinato, aloni di ruggine e la rubinetteria invecchiata dal calcare. A muro ci sono piccole mattonelle con decorazioni simil romane. Ma di un bagno romano, non ha proprio nulla. Vivo tra le mura di una casa ammobiliata negli anni Sessanta da un anno e mezzo. È un trilocale spazioso, con il parquet in un paio di stanze; non in tutte, chissà perché…ma è rovinato anche quello.

Gli infissi sono in legno, i vetri sottili e le serrande grigie in plastica. Sopra, cassoni pieni di polvere. Le porte – anche quelle in legno – incorniciano il vetro opaco. Nel bagno, gli inquilini di un tempo, hanno aggiunto una striscia adesiva per il pudore dei primi tempi tra conviventi. Qua è là sono sparsi piccoli mobili traballanti. Ne ho preso uno per la mia stanza, mi serve per conservare la biancheria da notte, gli asciugamani puliti e il piano di sopra per riporre quello che nella minuscola libreria non entrava più. Pensili poco spessi, con ancora l’etichetta del mobilificio, così fragili che potrei spezzarli solo passando la pezza umida.

Ho una sorta di armadio fatiscente, con i cassetti rotti. Tre piccole ante – sono piccole davvero – conservano i vestiti per tre stagioni. Sapevo che qui non avrei mai portato l’estate. Ho messo insieme due letti per farne uno grande. Ma da quindici mesi dormo su un terzo della superficie, incassata tra i piumoni, due, per il freddo, garanzia di un sonno tranquillo. Se non fosse per quel plink. Il bagno comunque, resta l’ambiente peggiore. Abbiamo comprato una tenda da doccia moderna, con una fantasia a righe totalmente dissonante dal resto dell’arredo. A un chiodo è appesa ancora una mattonella dipinta di blu che mi ricorda un vecchio atelier sul mare. Accanto alla vasca, sta un vecchio mobiletto marcio nella parte inferiore. Abbiamo provato a sollevarlo, spostarlo, avremmo voluto sbarazzarcene, ma a ogni tentativo sembrava crollarci tra le mani.

Così, abbiamo rinunciato. Siamo di passaggio, abbiamo stipulato un compromesso, più che un contratto. Tutto sommato, l’affitto non è caro, quindi ci accolliamo questa decadente dimora. C’ era un tempo in cui le stanze per studenti andavano a ruba. Ho personalizzato poco. C’è una poltrona nella mia stanza, utile come terra di mezzo per i vestiti che si possono rimettere anche il giorno dopo. In velluto beige, goffa, ingombrante, massiccia. Qualche ritocco nel tempo è stato fatto. Il piano cottura, ad esempio, ha l’accensione elettronica. C’è persino un microonde.

Un vecchio divano biposto a muro e un tavolo in legno con i cassetti e un buco centrale per il mattarello, arredano la cucina. Le sedie hanno le gambe sottili e la stessa mano che dipinse quella mattonella del bagno, ha rivivacizzato anche gli schienali. Da tempo, coltivo un desiderio improprio: nel silenzio della notte, dove accadono le cose che sono impossibili da realizzare alla luce del giorno, vorrei riversare dell’acqua in balcone, un po’ di sgrassatore e spazzare via unto e polvere con una vecchia scopa. Poi, sarà tempo di semi e terra, piante colorate e con un po’ di fortuna prezzemolo e basilico.

Qui ho imparato a discernere un po’ di me nel futuro. Vorrei due case un giorno, una fissa, piccola, rispettosa dell’ambiente, comoda, con i confort minimi, sul pendio di una montagnola o vicino al mare. Dinanzi uno spazio, meglio due: un piccolo giardino per i pomodori e uno sprazzo per le cene d’estate. So che sarà dove già è il mio posto, il mio mare. Poi, una mobile che sarà ovunque, altrove. Ovunque io desideri, là starò: fra le mura di una casa solide, in cui nessuno avrà riversato scarti inutili e offensivi. Ci metterò la frutta del mercato rionale e uno schiaccianoci. Farò la differenziata e per profumare mi farò consigliare da qualcuno. Per pulire, basterà solo l’acqua e una spazzola. Avrò un armadio per tutte le stagioni e nessun filo di polvere pendente.

Quanto in grande bisogna pensare per realizzare una casa piccola?