Amore con riserva

Non salivo su una metro da dicembre 2019 e non passavo da un Mac per un break da quando andavo al liceo probabilmente. Quando ho svuotato il borsone, una volta rientrata a casa dopo un paio di giorni fuori, ho caricato in lavatrice tutti i vestiti con cui mi ero appoggiata sui corrimano della città più movimentata d’Italia: Milano. Avevo perso il contatto con realtà enormi, caotiche, piene, molteplici, in cui l’elemento architettonico sfida il cielo e lo smog ti sputa addosso. Appiedata, sei costretta a stare nella calca dei semafori, a tenere gli occhi aperti finché non hai attraversato la strada e devi tenerti pronto a subire l’intolleranza delle sciure di Monza che impatti involontariamente col sacco che ti pende mentre corri in stazione. Che belle le stazioni! I tunnel dove soffia la corrente del prossimo treno in arrivo, il puzzo delle pareti, le maledizioni della zingara a cui non rendi conto.

C’erano due donne sedute a distanza di sicurezza in metro, pressoché identiche: mezza età, alte, pantalone chino blu, capelli grigi corti che si poggiano sugli occhiali da vista e una blusa a coprire i fianchi, ai piedi tipicamente Saucony. Sono salite a Sesto come noi, chissà dove erano dirette, a risolvere quale commissione, a iniziare chissà quale turno…Nei pressi delle fermate del centro storico, il vagone accoglie alcune donne sui tacchi, il trench lungo e la mise da ufficio; gli uomini invece, indossano la camicia dentro i pantaloni e uno zaino con dentro un sapere informatico che non credo raggiungerò mai. Non troppo assorta nei pensieri, gettavo l’occhio alla linea delle fermate, immaginando come si possano sviluppare i quartieri in base alla percezione che se ne ha nell’immaginario collettivo: Duomo, Rogoredo (quello del parchetto dei drogati), Porta Venezia, che avvia Corso Buenos Aires, quello dello shopping.

Quanto mi sento ovattata nella mia tranquilla vita di provincia. A Parma riconosco già i volti dei riders e i nomi delle strade: i miei colleghi mi chiamano Google Maps. Ho avuto più tempo per coltivare un rapporto con la mia città, le sue misure, le sue condizioni, le sue regole tacite. La vita nei parchi si consuma una cacca di cane alla volta, mentre a Monza il parco è così grande da ospitare dentro l’autodromo! Quante vite servirebbero per riuscire a fare di ogni posto, un luogo familiare? Abbiamo chiesto ad alcuni poliziotti cosa fosse il palazzo di fronte a noi: un omone alto ci ha risposto con un inconfondibile accento siciliano: “Questo? Il tribunale è”. Il caos della città mi ha riportata dentro un turbinio di storie inconoscibili, che immagino però, molto simili tra loro. In fondo, stavamo tutti riprendendoci un po’ di normalità, solo con le mani consumate dal gel alcolico.

Lì in mezzo comunque, dicevo, ti senti scomparire. La città ti ingoia nel suo essere multidimensionale, sarà per questo che chi può permetterselo fugge al mare nel weekend. Chissà come deve essere sentire di avere finalmente due chiodi ai piedi e stop, stazionare. Ti crei una sorta di microcosmo che delimiti tu e ci metti dentro quello che ti fa stare bene. Lo coltivi ogni giorno, aspettando pazientemente il momento in cui il vicino aprirà la porta e sarà disposto a chiacchierare con te, così la volta dopo gli renderai il sale e quella dopo ancora magari, ci scappa il caffè. I miei vicini alle 5.30 del mattino passeggiano con i tacchi in casa e oggi, quelli di fronte passavano il taglia erba. Staziono qui da un po’, ma è proprio dura a volte risultare “confident”. Anche senza il caos della città. Il mio supermercato è confident, il mio parco, la ciclabile, il Ponte Caprazucca, Via La Spezia sono i miei luoghi confident a Parma. Li ho visti con le foglie gialle, la neve di gennaio, la pioggia di maggio e sotto il sole di questi giorni che sanno di addio. Quanto ho corso negli ultimi otto mesi!

Mi chiedevo allora, se la mia relazione con i luoghi potesse raccontare anche qualcosa delle altre relazioni, quelle più cinematografiche, con gli uomini per esempio. Se li affronto come si affronta il caos di Milano, o il perbenismo di Monza, o come provo giornalmente a scalfire la diffidenza di Parma. So che, ferma sulle strisce, le macchine frenano e ti lasciano passare, che a volte il clacson sfoga una frustrazione anche qui. So che ci si permea ai luoghi, che per sopravvivere devi adattarti e al contempo fare a gara per non perdere te stesso. Così, vince chi resta in piedi dopo aver cambiato pelle cento volte e cento volte è rimasto fedele a se stesso. Forse le relazioni sono come le tante dimensioni di una città: impossibili da decifrare, sporche, impari, ma anche solidali, capaci di ristorarti, e piene di posti in cui sederti per iniziare uno scambio. E’ facile perdersi, come pure lasciarle. Una settimana lì, tre mesi qui, un treno per ogni stazione e un mare verso cui scappare.

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