Selfie con gli sposi

selfie con gli sposi

In un piccolo paese, ci sono solo due momenti in cui le strade rimangono pervase dal silenzio: la notte fonda certamente, e il primo pomeriggio, quando le attività chiudono temporaneamente, ci si ritira per pranzare, qualcuno sonnecchia e le mura di casa proteggono dal caldo asfissiante di un fine giugno in Sicilia. Quello spazio piatto, discreto, è interrotto talvolta dal rombo di un auto di passaggio. Ci sono volte però, in cui i portoni delle case restano aperti, e allora, qualcosa dentro sta succedendo, qualcosa è in atto…

L’auto per la sposa era già sotto casa, l’autista stretto nella sua camicia bianca e i Rayban a gocce specchiati sbadigliava ritirando la pancia e alzando i pantaloni. Di lì a poco uno stuolo di vicini e curiosi, si sarebbe radunato in attesa di vedere la sposa. Un tempo, messo piede fuori casa, la nubenda veniva accolta da un fragoroso applauso e qualcuno gridava “Auguri!”, “Complimenti!”…Mercoledì invece sembrava di essere in Via Brera a Milano, fuori dal Jamaica con i paparazzi a scattare addosso decine di foto inspiegabilmente raccolte nei megabyte degli honor. Il calore dei presenti era comunque evidente, a ragione di una felicità grande che quindi poteva essere persino di tutti.

Dall’appartamento si alzava un vociare allegro, di chi aveva già dato inizio alla festa. Ci si prepara in molti modi a un matrimonio: c’è un rituale circa cosa indossare, cosa escogitare, cosa abbinare, e un po’ meno forse – badiamo a come essere felici, dando per scontato che qualcosa ci esalterà, ma non considerando che quel qualcosa siamo noi. Ci affidiamo all’incanto. E ora so perché: due delle mie persone preferite si sono sposate, così ci siamo fatti belli per celebrare quella felicità. Esperti della tradizione, sappiamo fare dell’eleganza un sintomo di ebrezza. Gli orecchini e il ciondolo in perla, le unghia smaltate di un colore delicato, il rossetto vivace sulle labbra…

Quando la sposa, ancora in elegante intimo, è apparsa sulla soglia, ci siamo arrese allo stupore. In quel momento è iniziato un gioco di riflessi che è continuato fino a sera, in una corrispondenza continua di ciò che stavamo provando…neanche se a sposarmi fossi io! E no, non è certo l’idea del matrimonio a infiocchettarmi la testa, piuttosto il concentrato di significati che dal matrimonio scaturiscono. I matrimoni sono difficili, a dirla tutta, perché non hai alternativa: o sai goderne o resti fuso col caldo finché il buffet dei dolci non decreterà la fine del supplizio. Mercoledì è stata una giornata magnifica, perché non c’è cosa più bella che essere partecipe della felicità dei tuoi amici.

Quella felicità, ho avuto il piacere di testimoniarla. E così, di scoprire sulla mia pelle che rintracciare l’amore disorienta. Si concretizza un sentimento autentico, che si presenta al mondo nella sua nudità, e quell’amore – quando lo vedi – ti travolge. Solo sei mesi fa, sarebbe passato dolorosamente inosservato ai miei occhi tutto ciò, non curante com’ero di una parte di me perfettamente in grado invece, di saper stare in certe emozioni. Ciò che credevo impossibile in realtà, non solo lo comprendo, ma posso persino contemplarlo per me stessa. Sposarmi? Perché no. Non sposarmi? E che problema c’è? Avere un lavoro con notevoli responsabilità? Eccomi. Tuffarmi giù su uno scivolo in mare? Fatto. Fatto. Fatto. Fatto. Scegliere, insomma, di stare e come stare nelle cose della vita, purché siano libere scelte. E purché, alla base di tutto, rimanga solido il rispetto per se stessi.

Non ho cambiato città finché non l’ho desiderato fortemente, non ho permesso agli uomini di conoscermi, finché non ho sgomberato il campo da ciò che lo rendeva impossibile, non ci sarà un’occasione performante, finché non la cercherò. I matrimoni restano difficili anche adesso, perché tendono a sottolineare quello che non esiste ancora. Ma oggi sono lontana dallo schema preconfezionato che mi è stato consegnato in dote dalla cultura di appartenenza, che mi vuole indistinguibile dalla massa o perfettamente riconducibile agli unici modelli previsti: buona, virtuosa ma poi basta. O prendi marito o qualcosa in te sarà andato storto. Mi ha fatto sorridere, durante la festa, ricevere moltissimi complimenti che dicevano pressappoco tutti così: “Sei irriconoscibile” – “Non sono abituata a vederti così, sei trasformata”. Onore a estetisti e parrucchieri ma oh…ragazzi, sveglia! Mi domando cosa impedisce a molti di formulare una semplice frase come “Sei bella”. Eravamo tutti uno schianto d’altronde, fighe e fighi pazzeschi in pista a ritmo di bachata e merengue. Leggeri, colorati, pieni di vita che ne abbiamo da vendere. Capaci di raccogliere la felicità dei nostri amici sposi in un abbraccio unico e memorabile. Come uniche e memorabili sanno essere le serate perfette.

L’anticiclone ci ha privato del cielo. Avevo una ferramenta in testa e gli aloni del giorno. Ma quando lo sposo ha accolto all’altare la sposa con un lungo, infinito bacio sulla fronte, non ho avuto dubbi: ecco l’amore. Sotto l’imponente presbiterio del Duomo di Cefalù, lo sguardo per la prima volta in 29 anni, non era votato all’Altissimo, ma alle note di umanità che si stavano componendo da sé, nello scambiarsi le promesse, nel sottoscrivere un patto, nello stringersi in un momento tanto intimo quanto universale. Umanissimi. Due delle mie persone preferite si sono sposate e non c’era altro modo di celebrare la felicità se non fare fuoriuscire la propria. La vita è un medley mentre scoli di sudore; è perpetuare il desiderio, fare della felicità un inno. In Sicilia ho un grappolo di amici che ormai ride di ciò che non può cambiare e si regala sprazzi di normalità con vestiti buoni e scarpe d’occasione. Farsi belli è naturale conseguenza per chi vive la vita con devozione. Ma anche Baila Morena che mi torna in mente insieme a tutto quello che ho visto e di cui mi fido, perché lo so, ora lo so: amare è tutto ciò che va fatto.

Amore con riserva

amore con riserva

Non salivo su una metro da dicembre 2019 e non passavo da un Mac per un break da quando andavo al liceo probabilmente. Quando ho svuotato il borsone, una volta rientrata a casa dopo un paio di giorni fuori, ho caricato in lavatrice tutti i vestiti con cui mi ero appoggiata sui corrimano della città più movimentata d’Italia: Milano. Avevo perso il contatto con realtà enormi, caotiche, piene, molteplici, in cui l’elemento architettonico sfida il cielo e lo smog ti sputa addosso. Appiedata, sei costretta a stare nella calca dei semafori, a tenere gli occhi aperti finché non hai attraversato la strada e devi tenerti pronto a subire l’intolleranza delle sciure di Monza che impatti involontariamente col sacco che ti pende mentre corri in stazione. Che belle le stazioni! I tunnel dove soffia la corrente del prossimo treno in arrivo, il puzzo delle pareti, le maledizioni della zingara a cui non rendi conto.

C’erano due donne sedute a distanza di sicurezza in metro, pressoché identiche: mezza età, alte, pantalone chino blu, capelli grigi corti che si poggiano sugli occhiali da vista e una blusa a coprire i fianchi, ai piedi tipicamente Saucony. Sono salite a Sesto come noi, chissà dove erano dirette, a risolvere quale commissione, a iniziare chissà quale turno…Nei pressi delle fermate del centro storico, il vagone accoglie alcune donne sui tacchi, il trench lungo e la mise da ufficio; gli uomini invece, indossano la camicia dentro i pantaloni e uno zaino con dentro un sapere informatico che non credo raggiungerò mai. Non troppo assorta nei pensieri, gettavo l’occhio alla linea delle fermate, immaginando come si possano sviluppare i quartieri in base alla percezione che se ne ha nell’immaginario collettivo: Duomo, Rogoredo (quello del parchetto dei drogati), Porta Venezia, che avvia Corso Buenos Aires, quello dello shopping.

Quanto mi sento ovattata nella mia tranquilla vita di provincia. A Parma riconosco già i volti dei riders e i nomi delle strade: i miei colleghi mi chiamano Google Maps. Ho avuto più tempo per coltivare un rapporto con la mia città, le sue misure, le sue condizioni, le sue regole tacite. La vita nei parchi si consuma una cacca di cane alla volta, mentre a Monza il parco è così grande da ospitare dentro l’autodromo! Quante vite servirebbero per riuscire a fare di ogni posto, un luogo familiare? Abbiamo chiesto ad alcuni poliziotti cosa fosse il palazzo di fronte a noi: un omone alto ci ha risposto con un inconfondibile accento siciliano: “Questo? Il tribunale è”. Il caos della città mi ha riportata dentro un turbinio di storie inconoscibili, che immagino però, molto simili tra loro. In fondo, stavamo tutti riprendendoci un po’ di normalità, solo con le mani consumate dal gel alcolico.

Lì in mezzo comunque, dicevo, ti senti scomparire. La città ti ingoia nel suo essere multidimensionale, sarà per questo che chi può permetterselo fugge al mare nel weekend. Chissà come deve essere sentire di avere finalmente due chiodi ai piedi e stop, stazionare. Ti crei una sorta di microcosmo che delimiti tu e ci metti dentro quello che ti fa stare bene. Lo coltivi ogni giorno, aspettando pazientemente il momento in cui il vicino aprirà la porta e sarà disposto a chiacchierare con te, così la volta dopo gli renderai il sale e quella dopo ancora magari, ci scappa il caffè. I miei vicini alle 5.30 del mattino passeggiano con i tacchi in casa e oggi, quelli di fronte passavano il taglia erba. Staziono qui da un po’, ma è proprio dura a volte risultare “confident”. Anche senza il caos della città. Il mio supermercato è confident, il mio parco, la ciclabile, il Ponte Caprazucca, Via La Spezia sono i miei luoghi confident a Parma. Li ho visti con le foglie gialle, la neve di gennaio, la pioggia di maggio e sotto il sole di questi giorni che sanno di addio. Quanto ho corso negli ultimi otto mesi!

Mi chiedevo allora, se la mia relazione con i luoghi potesse raccontare anche qualcosa delle altre relazioni, quelle più cinematografiche, con gli uomini per esempio. Se li affronto come si affronta il caos di Milano, o il perbenismo di Monza, o come provo giornalmente a scalfire la diffidenza di Parma. So che, ferma sulle strisce, le macchine frenano e ti lasciano passare, che a volte il clacson sfoga una frustrazione anche qui. So che ci si permea ai luoghi, che per sopravvivere devi adattarti e al contempo fare a gara per non perdere te stesso. Così, vince chi resta in piedi dopo aver cambiato pelle cento volte e cento volte è rimasto fedele a se stesso. Forse le relazioni sono come le tante dimensioni di una città: impossibili da decifrare, sporche, impari, ma anche solidali, capaci di ristorarti, e piene di posti in cui sederti per iniziare uno scambio. E’ facile perdersi, come pure lasciarle. Una settimana lì, tre mesi qui, un treno per ogni stazione e un mare verso cui scappare.