L’Università ha fallito. Chiedo i danni

Inizia un nuovo semestre di lezioni online. Di facce depixellizzate, tempi morti, suicidio della creatività, mi senti ti sento uh ci sentiamo, e palle che si fracassano al suolo. Non me lo meritavo.

La cosa veramente comica è che alla triennale ho fatto la telematica. Avevo i miei bei corsi con 18, 24, 42 videolezioni disponibili h24, gli incontri con i tutor su SkypeForBusiness e andavo in sede solo per gli esami. Quanto ho dovuto combattere il mio complesso di inferiorità verso colleghi e amici che facevano la “pubblica” e invece, ero una pioniera! L’e-learning: avanguardia pura! Frequentando scienze della comunicazione peraltro, l’ho anche studiato il “progetto per lo sviluppo e la realizzazione di ambienti di apprendimento aperti e flessibili” su cui si basa l’offerta formativa della mia vecchia università. HAMLET, un nome tanto evocativo quanto pertinente. Pensate, è stato sviluppato tra il 2000 e il 2005. Insomma, quando ancora ero convinta che il mondo finisse all’incrocio di via Dante poco sotto casa mia, altrove si sviluppava il mondo del sapere senza confini.

Lungi da me ogni forma di moralismo, anch’io skippavo le vdl, acceleravo la riproduzione e mi spartivo con i colleghi le trascrizioni da produrre per non dover marcire davanti a uno schermo. Mi sono annoiata certo, mi sono fatta una marea di sconti, come ogni studente che a un certo punto…si deve solo laureare. Ma ci sono stati dei momenti che conservo abbastanza gelosamente, per almeno due motivi: perché il sapere è permeato, mi ha reso parte di ciò che sono e perché lì dentro, tra i fiumi di parole che tengo ancora preziosissimi su drive, ho tessuto relazioni fortissime.

Almeno fatelo bene

Ed era solo una telematica. Nel 2020, complice una devastante pandemia mondiale, che mai, mai nessuno dovrebbe usare come attenuante per sgravarsi da una presa di coscienza necessaria, nell’era più mediatica di sempre, la società dell’informazione che pure formiamo, non è stata in grado di proporre un atterraggio morbido a migliaia di studenti, molti dei quali non sanno nemmeno di sentirsi persi.

Tante volte mi sono sentita disorientata, a un certo punto del mio percorso l’università l’ho proprio mollata. Non sapevo minimamente cosa desiderassi e della mia personalità non c’era traccia neanche su Netlog. Una sera, di ritorno da una brevissima trasferta a Roma, era notte fonda, l’autostrada scorreva sgombra e veloce e come sono solita fare in auto, lato passeggero, ho inoltrato gli occhi al cielo per uno di quei trip mentali in cui state certi, trovo soluzioni a più grandi conflitti di questo tempo. In quella pellicola cinematografica vivida, mi fu chiara una cosa: che dannata fortuna fosse potere studiare. Quanto fosse bello conoscere, capire e ritrovare tra le righe sapienti di un altro, gli stessi pensieri timidi che non avevi mai avuto il coraggio di fare ad alta voce.

Ci sono decine, forse centinaia di spiegazioni del perché l’Università si è arenata nell’anno più catastrofico della storia postmoderna. E sono tutte valide, ma era un veliero già vecchio al porto di partenza. Gonfio del suo prestigio, sicuro del valore della istituzione rappresentata, quando il sistema si è fermato – l’Università ha smesso di insegnare. La confusione, il panico, lo scoraggiamento, gli sbuffi al mattino, la pazienza infinita, tanto la buona volontà quanto il menefreghismo dei docenti, hanno qualcosa da rendere al sapere. Ci spieghino cosa non va per davvero – al di là dell’infrastruttura e delle connessioni a buon mercato. Ci raccontino di un approccio didattico che non ha vacillato nell’ultimo anno, di un adattamento attivo grazie al quale sono riusciti a interagire comunque con gli studenti, al di là della trasposizione tale e quale dell’orario di lezioni com’era prima.

E io pago

Perché com’era prima, non andava già bene. Sono in DAD da un anno, tre su quattro semestri della magistrale che ho iniziato a frequentare a settembre del 2019, si sono svolti online, che al momento significa solo che non si sono svolti affatto. La scorsa primavera, aperta la gabbia dopo il lockdown, ho scelto di lavorare per recuperare il denaro dell’affitto che ho continuato a pagare a vuoto per cinque mesi. Se avessi mollato l’appartamento, avrei compromesso la borsa di studio, la stessa che due anni fa fu condizione sine qua non per consentirmi di studiare fuori sede. La pandemia non ha compromesso la mia carriera universitaria, ho continuato a sostenere gli esami senza intoppi. In questi mesi, il mio rapporto con il sapere è tornato intimo e timido, come quella notte in auto. Non ho potuto tessere relazioni con nuovi docenti che pure, all’Università, servono come referenza. Non ho potuto approfondire nuove relazioni con nuovi colleghi, né frequentare gli spazi di studio che non hanno il potere osmotico di inculcare nozioni nel tuo cervello, ma usano l’adrenalina della sgambata in bici fino alla Biblioteca Paolotti, per tenerti sveglio nelle ore di studio a seguire.

Ci sentiamo così, derubati. E dopo 11 mesi non siamo ancora in grado di fare un discorso diverso da “Portate pazienza, arriverà la primavera”. Mi porto avanti, questa è la conta dei danni. Penso di avere il diritto di enuclearla, dato che nel frattempo ho solo gettato ami al mio futuro, senza smettere neanche per un attimo di credere che ne avrò uno. Meno incazzato spero.

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