Che nessuna parola sia parola vuota

che nessuna parola sia parola vuota

Nelle interviste a carattere istituzionale bisogna saper leggere tra le righe. A settembre – pare – riprenderemo la vita universitaria con parziale normalità. Credo sia importante, più di ogni altra cosa, che la dimensione della vita universitaria non venga pregiudicata nei suoi aspetti relazionali. Che gli studenti possano ancora coltivare un rapporto con la città e le sue realtà.Che non sia interdetto in alcun modo non tanto l’apprendimento quanto il processo di formazione che si attua quando si vive l’università, che è largamente trasversale.

Quest’anno ho scoperto più cose fissando il tetto a vetri della Biblioteca dei Paolotti che in aula.Nei giorni degli esami, la strada fino a Borgo Carissimi – prima e soprattutto dopo le prove – sapeva di processione solenne.L’unico bar dove il caffè costa solo 70 cent e i telefoni non prendono, l’ho scoperto troppo tardi.Il sole che anticipa il prossimo solstizio d’estate forse inizia a stordire e a inebriare della bella stagione i nostri pensieri. Ma è questo il tempo in cui verranno prese le decisioni definitive per disegnare il nostro prossimo futuro. Perciò tra le righe ho fatto il nodo a tutti gli impegni che l’Università si sta prendendo, e che io mi sto prendendo. Che nessuna parola, sia parola vuota.

Ecco quanto discusso con il Rettore dell’Università di Parma – la mia università – Paolo Andrei. –> Leggi l’intervista

Interismi

interismi

Avevo appena compiuto 18 anni e in quel periodo avevo ben poche preoccupazioni. Passavo da una festa all’altra, da un vestito all’altro, da una cerimonia a un comizio in piazza. Tutto sapeva di possibile, ogni cosa aveva l’aria del cambiamento e della assoluta novità. Ero infarcita di ideali e credevo fortissimamente in quella storia del cambiamento dal basso, della goccia nell’oceano, e di fari che da soli potevano dare luce alla notte.

L’Inter vinceva il campionato incessantemente dal 2006; l’avversaria più importante per diversi stagioni era stata la Roma. Un altro paradigma del Calcio si era imposto dopo l’annosa vicenda Calciopoli. La Juve ai tempi era come quei personaggi delle serie TV che escono di scena perché la produzione non trova l’accordo con l’attore e il contratto va in fumo. Gli sceneggiatori si inventano così un’uscita dalla storia spettacolare, come in effetti fu la revoca del titolo e la retrocessione in B dopo la stagione 2004-2005 e la serie va avanti, rinvigorita da nuovi protagonisti.

Insomma, quanto all’Inter, nel 2010, ero tranquilla. Conquistare la finale di Champions quell’anno a noi non parse un evento impossibile, era la nostra Inter, forte, compatta, veloce. Non avevo dubbi sulla possibilità che la squadra, quel 22 maggio a Madrid, potesse alzare la Coppa dalle grandi orecchie. Ho un solo rimpianto: una coincidenza di eventi mi impedì di seguire il match come avrei voluto e come sempre siamo soliti fare mio padre ed io. Senza troppo fracasso, ci ritiriamo in soggiorno, prendiamo posizione sul divano e ci sottoponiamo a 90 minuti di fibrillazione. La calma all’esterno è una bugia.

Tifare Inter è un trattamento continuo per imparare a sopportare la sofferenza. Sappiamo tacere quando perdiamo e vinciamo senza far rumore. Certamente, da tifosa mi sento parte di un noi che non passa la palla, ma vive nel circolo emotivo di una sfida calcistica che mai come oggi sarebbe balsamo sulle ferite della pandemia. E questo prescinde ogni valutazione sull’opportunità che la Serie A possa riprendere e le squadre tornare in campo. Non sono immune al vortice del calcio. Lo amo, almeno quanto le Serie TV. Così ricordo la notte del 22 maggio come un finale di stagione previsto dai fan. Che diciamo, se fosse stata la resa dei conti nell’infinito triangolo Dawson -Joey- Pacey, avrebbe visto finire insieme il logorroico aspirante regista con la rompipalle moralista da tutti amata.

L’Inter non è la squadra più amata, come non lo erano Dawson e Joey, non mette d’accordo le parti e non vedrà mai tutti esultare per la conquista del più importante trofeo europeo. Al punto che esserci riuscita quell’anno non la rende degna – per molti, specie per quelli che la Champions non riescono proprio a prenderla – di encomio. Insomma, per molti sarebbe preferibile l’oblio alle notizie che oggi si rincorrono, tutte rigorosamente nerazzurre. E allora che farcene di quel 22 maggio?

Trovo sia presto per l’amarcord. Oggi mi rende molto più nostalgica la foto di Gigi Simoni accanto al ‘fenomeno’ Ronaldo sul campo d’allenamento nel ’98. Dieci anni non sono tanti, né pochi: abbastanza per accarezzare il ricordo vivido di una me maggiorenne e adolescentissima, che quella notte andò a letto piena di soddisfazione, di sogni al posto giusto e onnipotenti trame in perfetta sintonia con gli autori della storia.

Era normale che l’Inter vincesse.

Metamorfosi di Compleanno

compleanno pandemico

In tutto questo macello ci eravamo scordati di loro, ma non se ne sono mai andati. Anzi, si sono adattati e reinventati. Stamattina mi ha scritto una Testimone di Geova su Messenger. Con un link mi avvisava di una Biblioteca online dove consultare le Scritture del giorno e reperire testi. È stato in qualche modo rassicurante. Per niente invasivo, non mi sono dovuta neanche alzare per rispondere al citofono e improvvisare risposte a domande un sacco difficili. Ammiro chi si spende per ciò in cui crede. Tra l’altro, oggi era importante sentirmi fiduciosa. Fiduciosa come un Testimone di Geova. Anche quando si è alzato di nuovo lo Scirocco, mandando a rotoli – tanto per cambiare – qualsiasi programma esterno alle mura domestiche. Ma la fiducia, oggi, non me l’avrebbe tolta neanche l’ultimo DPCM che si preannunciava sbalorditivo. Poi arriva, lo leggi, lo capisci ma prima di uscire sbirci comunque dal balcone per capire che aria tira, come butta là fuori e quante volte ti sarai messo mano in viso dopo aver toccato qualsiasi superficie circostante.

Mi sentivo così fiduciosa da lasciare che ciascuno facesse del mio compleanno ciò che voleva: non ho scelto né il dolce, né il ritrovo dei congiunti a pranzo o a cena, né il croissant mattutino su cui mettere la candela…una, per simbolo, che i numeri sono dettagli. Zero aspettative e un mare di affetto. Ovviamente anche io mi sono presa le medesime libertà, così quando in casa sono diventati tutti troppo chiassosi e frettolosi, mi sono avvalsa della facoltà genetliaca di non permanere oltre la soglia di sopportazione delle convivenze familiari in caso di quarantena durante una pandemia.

La conversazione più fiduciosa è stata sicuramente quella con Giulio. Abbiamo chattato su WhatsApp per stabilire che ci saremmo visti presto, addirittura domani, per andare al mare. Alla stessa maniera mi ha rassicurato sentire i miei amici al telefono. Quelli che in corcostanze normali avrei assembrato, dando appuntamento in una qualsiasi piazza della città. Chi viene, viene. Si brinda, si sta insieme.

Giulio, 6 anni, multitasking

I mei compleanni, negli anni, hanno avuto sempre questo di caratteristico: ho messo insieme gente che tra loro non c’entrava, amici dell’ultima ora e quelli più intimi. Per i miei 18 anni ci fu un mix di prossimità tale che qualcuno pensò fosse giusto liberare pure il maiale dallo stabbiolo. Per questo ha sempre avuto senso per me festeggiare: per avere la scusa di condividere con tutti la spensieratezza (magari col porco no).

Quest’anno non ho convocato nessuna assemblea, perché ognuno ha un lutto da cui riprendersi. Di recente, ho fatto i conti con i miei e ne è venuto fuori che sono pronta. Pronta ad essere un tutt’uno con quelle parti di me scomode, distratte, imperfette, antipatiche, ingenerose forse. Ma anche disciplinate, ligie e pure. Alla luce dei miei vent**** anni, possiamo anche sprigionare con forza tutte le nostre contraddizioni senza paura di sembrare lunatici o diversi. Sono cambiati i connotati di questo maggio da sempre prezioso: non ci sono più messaggi lunghi e lacrimevoli; palloncini o carte colorate. E nonostante questo ho passato una delle migliori giornate dopo tanto, tanto tempo. Perché ero qui, con me. Nel nuovo ombelico della mia esistenza, che non ha per forza le fattezze di fuga lontana, ma i colori inevitabili delle mie origini. È tutto il resto che cambia.

Il bene che ci facciamo

il bene che ci facciamo

Si trattava di svelarne il segreto forse, oppure aveva ragione mio nonno a sostenere con placida naturalezza che lo scalino più alto è quello della porta. Portava in seno una verità questo 4 maggio, la prima delle tante che man mano andremo verificando.

Di fatto, 65 giorni di quarantena hanno lasciato una ferita eccome, se adesso il nemico è l’aria che respiriamo. Se parliamo come le hostess nei teatri, a distanza di un ingresso dall’altro, se stamattina ho urtato contro l’ottimismo della mia amica Rachele, che mi richiamava alla fiducia, come un soldato alla guerra. Ci sentiamo ingessati, confusi, disorientati, anche se conosciamo i comma di tutti i decreti dal 4 marzo a oggi. Abbiamo cercato risposte nei FAQ (NB. redatti da Rocco Casalino), nella stampa che fa quel che può, nei video selfie dei sindaci dei nostri paesi che ribadiscono in un unico coro “Non è un liberi tutti” – sempre meglio comunque di quando dicevano “Il mostro è alle spalle”.

E non abbiamo torto. C’è confusione, spaesamento e paura. Ma la paura non produce nulla di buono, mai. Poi, mio fratello è arrivato a casa e la paura di colpo, è cessata.

Piegata dall’incertezza del domani, stavo per perdermi la forza dirompente di oggi. E avevo sottovalutato più di ogni altra cosa l’altro. Il bene che mi fa capirmi con lo sguardo con la mia amica Giusy, il gesticolare pieno di sensi, poter fare tesoro di tutto il vissuto che ci riguarda e che la reclusione aveva lasciato sospeso. Il bene che mi fa sorridere con gli occhi, che se ridevo per davvero saltava l’elastico della mascherina. Il bene che mi fanno i silenzi pieni di tutto se sto con le persone della mia vita, che non sono congiunti ma congiunzioni. I miei se, le mie e, i miei ma. Anche se – se ci impegniamo – una parentela al sesto grado la troviamo tutti qua.

il bene che ci facciamo
Runner su Piazzale Torre – Finale (PA)

Rischiavo di smarrire il di più di trovarmi qui, anche se nel momento peggiore. A fare i conti con la pandemia certo, ma dalla posizione privilegiata di chi può godere della combinazione perfetta di sole e mare, anche da un pontile andato distrutto. Perciò le concessioni sono preziose e vanno celebrate; perciò ho sentito il calore dell’abbraccio di chi oggi si è ritrovato. L’artificio di un provvedimento lascia fuori tanto, troppo, ma l’errore peggiore che si può commettere oggi è rimanere inibiti dalla paura. Le regole servono in virtù di un patto che stipuliamo, le regole ci salvano. Ma è l’onestà dei sentimenti a tenerci in vita. Perciò tiro un sospiro di sollievo perché rischiavamo di perdere tutto il bene che ci facciamo.

Italiana

italiana

La storia è quella sui libri, poi c’è la città, dove la storia si percepisce. Viaggiare è distinguere.

Era l’estate 2018. Avevo qualche centone e tanta voglia di fare qualcosa per me e basta. Ho risalito l’Italia in treno, nei giorni caldi di agosto. Un anno fa circa ho ripercorso quel viaggio in 500 parole.

Non avevo affatto in programma di passare dalla provincia romana o di solcare le acque del Lago di Garda, non avevo considerato la provincia prima di capitarci.

Ho risalito lo stivale partendo dalla mia costa, dove il mare è blu, attraversando paese dopo paese, sbirciando – ogni volta che il convoglio rallentava – dentro le case, pur di scorgere un pezzo di storia, un pezzo di Italia. 

Chiusa in una scatola, ho scoperto che l’Italia è uno sterminato campo di colture. Ci sono montagne e valli; in lontananza, da qualche parte, il mare. Quei giorni però, hanno avuto a che fare con la terra. Immagini che scorrevano veloci oltre il finestrino e un tempo dilatato, indefinito; le mie ore in treno hanno dosato ogni emozione, dall’entusiasmo alle solite paure.

Sono arrivata a Ciampino con una gran sete. 

Quando potevo finalmente urinare in un WC vero, lo stimolo si era inspiegabilmente ridimensionato. Ad Ariccia ho compreso che il miglior grado di ospitalità che possiamo riservare a chi viene nella nostra casa non è rimpinzarlo di cibo, piuttosto offrirgli uno spazio in cui essere libero. La provincia romana è fortemente influenzata dalla capitale nel modo di vivere; si può godere delle stesse possibilità della grande città, con il vantaggio di non rimanere imbottigliato nel traffico. 

Poi ho raggiunto le rive del Lago di Garda, in quel settentrione con le autostrade a tre corsie e le vigne tutto intorno, oppure un famoso stabilimento dolciario, dipende. Dipende da cosa ci vai a fare in certi posti.

Ho scelto la provincia e ho ritrovato il mio stesso quotidiano, attorno alla tavola di una famiglia. Ho scelto di andare sola, ma anche in compagnia. 

“Monitorami”- ho detto a Lorenzo- sorridendo con lo sguardo e pregandolo al contempo. Non volevo protezione, desideravo solo essere guardata da lontano. L’altro diventa veramente rassicurante quando, pur sapendo di potertela cavare da sola, colma il tuo bisogno di attenzione e cura. Esserci non è dipendere: è non perdere di vista la sponda del lago, mentre si naviga in acque nuove. 

Così, sulla statale di ritorno da Monzambano, a bordo di una cabriolet, mi sono commossa in silenzio: mi sentivo al sicuro con altri perché ero al sicuro con me. 

La sfida è stata quella di rimanere me stessa mentre incontravo tutta quella diversità. Prendere le distanze dalla persona che avevo lasciato a casa, improvvisando una danza sulla carrozza vuota del treno.

E ancora, viaggiare è una questione di sensi, di porchetta in fraschetta e di grappe fruttate alla sagra del pesce di laguna; odora di una piantagione di kiwi; è immergersi nel lago e scoprire che non è così improprio anche se vieni dal mare.

Probabilmente però, è stato ciò che ho ascoltato ad arricchirmi di più: storie su storie, intrecci e al centro, persone. Con i piedi scalzi sui pontili di Albano o nelle esclusive piazze di Salò e Desenzano mi sono sentita per la prima volta italiana, cioè altra, o meglio, la versione estesa di me stessa.

Il mio blog da un Insight

il mio blog da un insight

Ci sono diverse ragioni per cui mi ritrovo a scrivere su un sito web che porta il mio nome.

  1. Partiamo dalla più ovvia. Ero stufa di regalare i miei contenuti a Facebook o Instagram. Amo i social (almeno il loro potenziale buono), ma amo ancora di più gli spazi che hanno memoria. I social sono tardi, favoriscono l’oblio, corrono veloci, troppo, e svuotano di senso ogni cosa che ci finisce dentro.
  2. Non so se una epidemia globale è il momento migliore per far nascere qualcosa, ma sicuramente so che è rimasta una linea molto sottile a dividere il mio spirito vitale dal baratro della tristezza, e questa linea, spezzata, aperta e spigolosa, vuole essere generativa.
  3. Qualcuno crede in me e nel mio progetto. Ho impiegato diversi anni a distinguere il modo in cui gli altri mi guardano da quello in cui io guardo me stessa. Ero solita perdermi nella loro idea di me, senza badare alle incongruenze che sapevo benissimo ci fossero. E ci sono ancora. Ma adesso quello scambio è possibile e mi riempie il cuore.
  4. Sono unica. Non nel senso di fantastica o inimitabile, sono semplicemente non replicabile. E mi occorre un luogo dove esprimere i miei tratti; così ho comprato casa con annesso garage – come mi spiegano dal reparto informatica – ed è in corso un trasloco. Invero, porto poche cose essenziali: le mie idee. Uno spirito critico che osserva alcune cose e ne ignora altre, ma per questo ho portato con me anche la curiosità e qualora servisse, la tolleranza. Ho la consapevolezza di non piacere a tutti, di essere utile anche a meno. Ma ho ego a sufficienza per stare sulla piazza.

A questo punto vale la pena spendere due parole sull’arredo scelto per il mio blog. Un insight è un’intuizione, la percezione netta di qualcosa dentro o fuori di me. Ha a che fare con consapevolezze ed emozioni, in generale con i movimenti che facciamo. Le forti limitazioni di queste settimane, unitamente all’ idea sempre più indefinita di futuro, mi provocano grande tristezza. Mestizia, ma non come quando ci si acquatta sul letto con ripresa della telecamera dall’alto e colori grigi. La mia tristezza è così subdola da inchiodarmi al vuoto mentre sto per abbassarmi per uno squat durante il mio allenamento giornaliero. Gli occhi si riempiono di lacrime, la vista si appanna, poi respiri, un piccione sbatte sulla tettoia e ti riconnetti bruscamente nel qui e ora.

In quel momento, l’incauta scelta della playlist Hit Italiane compiuta precedentemente, ti spara il ritornello di #E mi sono innamorata ma di tuo marito# e il Cristiano Malgioglio dentro di me si sprigiona, inizio ad ancheggiare, addirittura incrocio i passi come avrei voluto fare da sempre su una pista ed esulto gettando le mie lunghe braccia bianche all’aria, perché wow, il mondo va a rotoli ed io apro un blog. L’intuizione quindi, è oggi questa indecente compresenza della mia collera con la mia grande voglia di fare a modo mio.

Adesso non resta che visitare tutte le stanze. Fatevi un giro, sentitevi liberi di toccare e fatemi sapere che ve ne pare. C’è ancora qualcosa da sistemare, ma non ho fretta.

Benvenuti!