Fisico & Politico

Fisico & Politico

Ero in debito di una storia. Del racconto di un tempo perfetto: questo sono state le settimane della campagna elettorale in paese da me. Tremila abitanti, il mare, il bosco, tetti e campanili. Cibo buono e odore di pulito, più macchine del necessario, alcuni motori elaborati di troppo, un gergo stretto, a tratti selvaggio e occhi disincantati. La gente. Trame contrapposte ma legate dal filo dell’appartenenza.

Cosa si insinua silenziosamente dietro lo scroscio di un applauso? Me lo sono chiesta per settimane, alla fine di ogni comizio, di ogni serata consumata al tavolo di un bar, mentre distendevamo la tensione per l’impegno che ci eravamo presi.

I ragazzi staccano da lavoro, bevono una birra, salutano la propria fidanzata. Lei si poggia sul petto di lui, che fuma una sigaretta anche se il cielo è nuvoloso e talvolta, pioviggina. Una volta rimasti tra noi, possiamo sorridere o ridere prepotentemente per tutte le cazzate che abbiamo ascoltato fino a quel momento.

Visioni distorte e visioni sopite, rinvigorite da un nuovo pretesto: le elezioni. Alle 11 puntuale il bando dell’ambulante si confonde con le musiche prescelte che capeggiano l’auto che annuncia il comizio: “Questa sera…” – è una voce determinata, a tratti esasperata. Un’altra si sovrappone, stavolta dall’auto si riproduce una canzonetta presuntuosa, retorica quantomai, “Viva la libertà…” – dice. E un tono pulito come quello degli annunci della pubblicità locale in un cinema di provincia, ripete: “Questa sera…”

E quella sera poi, la barista arriva con la scopa e inizia a pulire tutto intorno il marciapiede del bar. Si ferma a commentare l’ultimo intervento ascoltato in piazza, e quando le chiedi di dire qualcosa su di noi, sorvola. Spazza rumorosamente anche la strada ed il messaggio è chiaro: dobbiamo levare le tende. Saluto gli altri, sapendo che il giorno dopo il copione si sarebbe ripetuto ancora, identico.

Al bar siamo stati continuamente, per fare il punto, per rilassarci, per comunicarci le cose importanti con gli occhi. Un codice sconosciuto, che si decifra seguendo le idee che abbiamo scritto, riscritto, e sottoposto all’attenzione di tanti per anni, per almeno dieci anni, da quando – appena diciottenne – facevo panini con la salsiccia e a fine manifestazione mi rendevo conto di non aver fatto panini e basta; era stato buttato un seme da qualche parte, rimasto invisibile, insignificante nel tempo. Quando portavo a bordo della mia auto un gruppo di ragazzi spagnoli venuti fin qui per parlare di riciclo, anche allora stavo seminando.

Le elezioni in un paese come il mio sono le scenario ideale per la trama di un nuovo romanzo kafkiano: l’assurdo e l’incomprensibile delle situazioni in cui viene a trovarsi l’esistenza umana si dispiegano in un ritrovato quotidiano vivace e allegro. Personaggi noti e meno noti, poggiati al palo appena fuori il perimetro della piazza, ascoltano, sorridono, i più audaci registrano come se l’esibizionismo non fosse già insito nei palcoscenici in onda. Il diffidente si allontana prima che la musica segni la fine della manifestazione, lo ritrovi poco dopo su Facebook, a ingarbugliare un commento volutamente ambiguo. Lo scrutatore non votante – direbbe Bersani.

Non sceglie fino alla fine, quando si sarà fidato della sua pancia e avrà individuato il nome da scrivere. Torna a casa indisturbato. Poche ore dopo sarà deluso, nella peggiore delle ipotesi, se la compagine prescelta ha perso; oppure sorriderà su un solo lato della bocca, che vincere piace a tutti. Non so cosa si provi, in realtà: da quando ho facoltà di voto, ho sempre preso una delle parti. Non potrei votare e basta, a Pollina. Sarebbe quantomeno riduttivo: ci si perde il bello a non partecipare. La strategia, il gioco, la tattica. E ci si accolla anche il brutto, gli sbagli, gli alti e bassi di un umore da spogliatoio che deve saper leggere i vantaggi e le difficoltà della squadra.

Alcuni comizi si sono consumati sotto un cielo che minacciava la pioggia. Una sera, a Pollina, avrebbe potuto incarnarsi di fianco a me Pirandello richiamato dal clima impietosamente angoscioso e talora paradossale in cui ero finita. Alti e bassi. Azzardi e ritirate. Silenzi e, meno spesso, parole. Questo ho imparato. Se c’è una cosa che alla gente non serve quando si fa politica, sono le parole. Men che meno se urlate, sputate nel solito porcaio che diventano le campagne elettorali. La gente desidera spazio, visibilità. Le loro cause personali diventano merce per un baratto. Sono le loro storie a porsi al centro dell’attenzione, tesi che peraltro non chiedono mai risposte, piuttosto considerazione.

Mentre si dispiegava la trama della mia gente, tessevo anche le mie narrazioni personali. Le campagne elettorali sono esperienza d’amicizia. Sperimenti la via breve per la fedeltà a un compagno, impari a conoscerlo in fretta, ad apprezzarlo, a custodirne la motivazione che lo ha spinto lì, dove sei anche tu adesso. In campo si scende con forti alleati, storici, fidati, simili, pezzi della tua vita e con nuovi volti che si prendono tutto lo spazio rimasto. Insieme. Perché a vincere le battaglie è chi le comprende meglio.

Posti

Nei posti in cui sono stata ho sorriso.

Sorrido per tutti i pensieri di cui non ho più bisogno.

I 14 giorni di Irene (Parte II)

I 14 giorni parte II

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Quarantena, giorno 12

Sarebbe stata una giornata quasi buona, se qualcosa non mi avesse ricordato il pericolo che ancora corro. Hanno citofonato i Carabinieri intorno alle 18, sono scesa di corsa per le scale e oltre la soglia ho visto il militare con la mascherina, una torcia puntata su dei documenti e lo sguardo serio. «Rimanga lì », mi ordina prima di poter fare un passo di troppo verso di lui. In quell’istante ho realizzato che non serviva a niente il mio sorriso rassicurante, tutt’altro, sarò sembrata una scema delle tante che minimizza la situazione. 

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), completo delle sue parti.

I 14 giorni di Irene (Parte I)

I 14 giorni di Irene

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Quarantena, giorno 1

Strano, stranissimo. La mia famiglia e i miei amici sono a pochi metri da me, ma non siamo mai veramente insieme. È come abitare ancora lontano ma è più difficile, perché adesso ti è vietato stare con loro. Non lo hai scelto, è capitato. Ma tant’è, mentre montavo la caffettiera questa mattina ho fatto caso agli odori di una casa nuova, l’ennesima. Gli utensili da cucina ancora brillanti, fatto salvo per quel po’ di ruggine sui coltelli, il tegame troppo grande dove far saltare gli spaghetti almeno per quattro, magari di notte in piena estate, dopo un giro di tarantella alla Torre. Un altro torto dell’epidemia, ti frega il sollievo del tempo che verrà, si sbiadisce nell’incerto e fin troppo favolistico avvenire. Ci saremo, sì, carne ed ossa, ma quale pezzo delle nostre anime avremo lasciato qui? Il telefono ha squillato incessantemente oggi. « Sto bene » è il ritornello che ha scandito le ore.

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), completo del prologo e della prima parte.

I 14 giorni di Irene (prologo)

I 14 giorni di Irene

Se dicessi che è capitato per caso, mentirei. L’ho voluto, assai.
Lasciare andare il flusso di pensieri e le emozioni vissute nei giorni in cui tutto è precipitato, a marzo, sarebbe stato un enorme aborto.
Così mi sono messa a scrivere, e scrivere e scrivere.
E più passavano i giorni rinchiusa obbligatoriamente più avevo bisogno di andare altrove.
Altrove, dentro di me.

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Sto rendendo pubblico un pezzo della mia anima, forse anche più. Per quanto il racconto prenda in alcuni punti la strada dell’invenzione, resta soprattutto autobiografico. Ciò detto, è con enorme orgoglio, presunzione e cagotto che lo rimetto alle vostre letture, perché diventi nostro.

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), dove trovate già il prologo. Lo pubblicherò in tre parti. 

Brulla, nuda e selvaggia

sardegna

Fare le valigie per una partenza estiva è bellissimo. Shorts e camicette che spazio vuoi che prendano? Ci entrano anche i tacchi che non si sa mai. Persino io che non amo fare i bagagli, stavolta ho chiuso la cerniera con freschezza assoluta: quattro giorni in Sardegna e via.

Starò al mare a sintonizzarmi con i miei pensieri e con quei quattro peli di ricrescita che vedrò solo io. E in effetti, ho scoperto che sono perfettamente in grado di sollazzarmi per un giorno intero alternando una nuotata a un podcast in cuffia, accuratamente all’ombra. Anche a Porto Pino, un luogo che – al netto dei tantissimi bagnanti della domenica – si fa ammirare. Forse per le villette private che sbucano sul basso promontorio: mi ricordano un sogno che ho fatto di recente. Vedevo una casa immersa nel verde crescere a dismisura, come un fungo in autunno nel sottobosco, aumentava di piano ogni secondo che passava…per poi crollare in avanti, incapace di reggere il peso di se stessa.

In quel disastro, accorrevo per prendere appunti e farne la cronaca. Come un irrefrenabile bisogno di lasciarmi attraversare dalle cose per poterle poi raccontare. Allo stesso modo, ho scelto di partire questa estate: avevo voglia di fare succedere qualcosa e la Sardegna era a portata di mano. Quasi mi sono stupita nel trovare così tanti aggettivi per descriverla nonostante sia così…scarna.

Le Dune di sabbia e qualche sparuto arbusto; le balle di fieno nell’arida campagna; la foschia del mattino, nei secondi che precedono l’alba; le calette raggiungibili solo dal mare; carreggiate lunghe e i tornanti chiusi, ma invidiabilmente solidi: luoghi persi, ma non sperduti, solitari ma non abbandonati. “La Sardegna fa bene all’anima” – mi ha scritto qualcuno in un commento a un post – e c’è stato un momento preciso in cui quelle parole mi sono riecheggiate dentro. La motonave che ci conduceva in escursione nel Golfo di Baunei aveva attraccato presso le Piscine di Venere, come prima tappa. Mi sentivo un po’ frastornata da tutto quel blu che mi circondava, l’aria che batteva sulla schiena sudaticcia di colpo si era fermata. Nonostante gli sforzi per rimanere in equilibrio senza poggiarmi sulla passerella (soggezioni per chi viaggia al tempo del COVID-19), tra la borsa da mare e quella frigo mi sentivo una Vu cumpra’.

A terra mi spogliai di tutto per rimanere finalmente in costume. Valentina era già corsa avanti e si era tuffata, a me serviva qualche secondo ancora per realizzare che non ero dentro una cartolina. Poi l’ho seguita. Ecco, fu allora, fra una bracciata e un colpo di reni a spingermi in avanti, che il mio volto si allungò per lo stupore.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

Provo un grande conflitto nello scrivere questo post. Intanto, avevo detto a tutti che oggi sarei andata a fare un’escursione in barca perché mini crociera con i pensionati irriducibili, le famigliole felici e le coppie navigate sembrava brutto. Poi, perché non ho potuto fare a meno di rapportare tutto alla Sicilia. Almeno finché non mi sono ritrovata a nuotare insieme a decine di altri in direzione della Piscina di Venere. Ho raggiunto a bracciate l’interno della grotta, ho poggiato mani e piedi sui ciottoli per non perdere l’equilibrio e poi ho alzato gli occhi. Di fronte a me, diversi altri bagnanti si erano già inoltrati nella profondità della grotta. Gocciolavo d’acqua. L’aria si faceva meno presente mentre le onde infrangendosi all’interno dell’ insenatura rimbombavano come in Tomb Rider, quando la protagonista si addentrava impavida nei sotterranei. E io mi sono sentita un po’ Lara Croft oggi: alle prese con una missione. Salire e scendere da un barcone con gente di nord, del centro e altri sardi; nuotare nelle acque uniche della regione, camminare, stare al sole, ricrearsi all’ombra e poi di nuovo, per almeno tre volte mentre il sole lancia fiamme e i termometri segnano 44 gradi. Mi sono sentita figa. Privilegiata. Energica. Avventuriera. Nuda ed essenziale come la natura dirompente del Parco di Orosei, con le sue cale e una missione: restare incontaminata. Mi serve tempo per assimilare la Sardegna. Io certe cose le capisco meglio dopo. Dopo 8 ore di sonno per esempio. #sardinia #orosei #calagonone #calaluna #grottebuemarino #calasisine #calamariolu #visititaly

Un post condiviso da Sofia D’Arrigo (@sofia_darr) in data:

Era fatta. Ero fatta. Nel senso che l’adrenalina stava facendo la sua parte, dimentica delle poche ore di sonno. Quasi mi sentivo delusa perché non c’era nessun tesoro da scovare nella grotta o qualcosa da salvare. Che te ne fai di un posto del genere se non puoi ritrovarlo in un sogno o arricchirlo di elementi possibili solo nella fantasia? Le crociere non hanno trama e, in fin dei conti, neanche i turisti. Abbiamo risucchiato l’anima di quel luogo per qualche ora, la sua parte infinitesimale d’anima – capiamoci – ma non c’è segno che io possa lasciare su quelle pietre. Bastano a se stesse.

È  questo il mito della Sardegna. La tocchi, ma non la prendi. Mi è parsa immutabile, dura, massiccia. Una terra che non sente ragioni, non ascolta, non vuole subire. Testarda. Da morire. E che potevo fare a quel punto se non rovesciare la lente? Risalita sulla motonave, tra una cala e l’altra, le variegate presenze a bordo hanno rapito la mia attenzione: una ragazza sarda aveva attaccato bottone con una famiglia di Latina, elencando tutti i parenti che risiedono nella Regione Lazio, convinta che avrebbero trovato, alla fine, una conoscenza comune. Si sa, il mondo è piccolo. Ma c’erano veramente parecchie congiunzioni astrali da sovrapporre perché la sua voglia patologica di esprimersi trovasse ragion d’essere in una casualità. Più avanti una coppia di trentacinquenni in pieno stile anni ’90: cappellino a visiera ed elastico in spugna rosa confetto lei, occhiale modello ciclista e cappellino con visiera lui. Magri. Magrissimi. Pallidi e visibilmente poco avvezzi al mare. A seguire, una famigliola dall’accento lombardo ammirava il panorama: “Guarda Riccardino, buttano il pane e i pesci vengono su a prenderne un morso” – e Riccardino cresceva in saggezza, virtù e Focus. Neanche il tempo di domandarmi come sarà mai una vita lontana dal mare, che la mia attenzione era ripiombata sulla famiglia di Latina. Il piccoletto di casa, c’avrà avuto 7-8 anni, biondo cenere, occhi cerulei, sorriso sornione, già stanco, si era avvinghiato ai fianchi della madre con un’espressione giuliva, affatto tenero, più ruffiano, mentre con la mano le batteva il sedere.

Ho realizzato che fino a qualche tempo fa eravamo tutti costretti a casa, mentre adesso il sole ci lanciava fiamme prepotentemente addosso. C’era una serenità composta, forse anche provata, chissà…mi sarei volentieri fatta i fatti loro a lungo, ma era già tempo di scendere sulla spiaggia di Cala Sisine. Ci siamo accampate ai piedi della montagna, dove qualche tronco poteva ripararci dai 44° al sole. Giorgia, accovacciata, è riuscita persino a dormire. Noi eravamo più inquiete e allungavamo le zampe sulla sabbia, dove le montagne iniziavano a crescere e la valle era disegnata da uno stagno. Lo sguardo si perdeva nelle gole rocciose.

Forse è questa giornata così selvaggia il ricordo migliore che conserverò. I piedi nudi e la terra, i capelli arricciati dalla salsedine, la cornice finalmente colorata del mio volto, e la consapevolezza di essere stati scavati da quei luoghi come l’acqua con le rocce. In aeroporto, in attesa del mio imbarco, ho comprato un libro. Ho scelto Goethe, Le affinità elettive, perché è un classico e perché non ho mai letto Goethe. Ho deciso che ne prenderò uno per ogni viaggio che farò d’adesso in poi, così potrò un giorno dire: questo è il libro che ho comprato in Sardegna e mi ricorderò della Sardegna, del corso illuminato di Orosei e di quello buio di Sant’Antioco; dei porticcioli dove la sera le barche danzano sull’acqua e delle onde che si infrangono, ogni giorno, rimbombando sulle pareti di una grotta. Mi ricorderò di come sto oggi, dei miei pensieri grandiosi oltre il finestrino di un’auto e il sapore di un caffè al bar, servito da un cameriere in mascherina, mentre spingo la porta della toilette con i gomiti. In fondo credo che non poteva essere altrimenti questa Sardegna…brulla, nuda e selvaggia.

Cose che ho imparato da fuori sede

fuori sede

Il mio piatto di spaghetti con le zucchine fritte aveva un non so che di distopico oggi a pranzo. Mi è sembrato l’ultimo atto di un futuro che avevo immaginato diverso, e soprattutto altrove. Oggi avrei terminato la mia sessione di esami estiva a Parma, sarei tornata a casa, magari con la valigia pronta sul letto e prima di chiudere tutto, avrei svuotato il frigo con l’ultima genovese sintetica comprata al supermercato Panorama a 500 metri da casa.

La pandemia ha avuto un effetto sliding doors, per certi versi. Una sola variabile è in grado di generare due futuri paralleli, con una me che contempla il tramonto al mare mentre l’altra risale la ciclabile di via La Spezia. Entrambe opzioni possibili, entrambe vere e sovrapponibili, perché convivono in me l’una e l’altra in un ciclo infinito che si ripete (sì, ho visto Dark di recente).

Se il futuro somiglia a un bivio biforcuto e diabolico, alle 13.23 oggi, attorcigliando quegli spaghetti, mi è stata chiara una cosa, sempre vera e sempre stata: c’è una costante nella mia storia, come in quella di ciascuno, e siamo proprio noi, artefici, attori, protagonisti e perfino antagonisti di noi stessi. Siamo la sorte che ci siamo dati e che influenza le vite degli altri, si intreccia con essa, scatta come una scintilla al contatto, a volte può perfino esplodere. O chiedere “Tutto bene per il resto?”. Si concludeva così la mail di un docente che mi avvertiva della pubblicazione di un pezzo che avevo scritto mesi fa.

Mi ha riportato lì, a quelle ore di biblioteca impiegate a cercare, intercettare, curiosare, ipotizzare storie. Ho iniziato con un gruppo di volontari che nel reparto di neonatologia dell’Ospedale di Parma si prende cura dei piccoli facendogli le coccole, ho cercato di capire perché trovare una stanza in affitto per gli studenti delle città del nord è diventato sempre più proibitivo, ho incontrato Marina Burani, Giuseppe Milano, e il Rettore dell’Università. E per ogni pezzo che alla fine ne veniva fuori c’erano dieci, cento cose che avevo imparato nel mio primo anno da fuori sede.

Quando guardavo lo scontrino della spesa e studiavo i volantini delle offerte, ho capito che non vorrei mai che i soldi rappresentassero un limite, ma anche che è necessario dare un prezzo alle cose che vogliamo, per esercitare la virtù della scelta, sempre, e se necessario rinunciare. Così ho rinunciato all’estetista, ma poi ho trovato una studentessa che se la cavava con le cerette e l’ho contattata. Una ceretta a buon mercato – ho imparato – può appagare il bisogno di sentirsi a posto con se stessi.

Ho scoperto di avere ancora 19 anni quella sera che il corridoio di casa divenne il campo di battaglia e noi, il bersaglio del gioco delle freccette. Ho sentito per la prima volta la nostalgia così come mi è chiaro adesso il motivo di ogni ripartenza. Che se perdo l’ultimo autobus delle 20, in Via Pellico posso tornarci a piedi, anche se è febbraio e fanno tre gradi. Ma non mi sono pesate quelle insolite temperature nei momenti in cui era più importante rimanere fuori, che tornare nella mia stanza.

Ho trovato più storie in un parco che nel centro storico della città, e ho capito che i docenti non sono solo l’ostacolo da superare prima di passare al prossimo esame. Ma opportunità, o anche no. Non per forza. Le persone sono stimoli, oppure rotture di balle. Difficilmente trovo una via di mezzo quando si tratta di altri.

Ho imparato che una compagnia non necessariamente è l’antidoto alla solitudine e che persino avere paura fa bene. Ho imparato a mangiare i ceci e le barbabietole, e a non crucciarmi se il limone non emana l’odore dell’orto. Che so fare il risotto, ma anche Just Eat va bene. Che posso darmi tregua e non devo per forza rimanere fregata se abbasso la guardia.

Ho imparato a chiedere aiuto se ho bisogno e a saltare su un treno per Roma, se serve un’amica a cui non devi spiegare chi sei prima di piangere sulla sua spalla. Ho imparato che se non metti il nome sul citofono, il corriere non ti trova e che mai, mai, mai bisogna fidarsi di chi parla troppo velocemente. Ho imparato che i dipendenti pubblici sono un sacco meridionali e che alcuni del nord pensano che i meridionali siamo scansafatiche che sanno cucinare bene.

Un anno fa decidevo di andarmene. Studiare era il modo più semplice per farlo, di studiare avevo bisogno; così, l’ho fatto e lo rifarò di nuovo, presto. Ho imparato che il fuori sede è un fuggitivo, un sognatore, un viziato, un pazzo, un avventuriero e un piagnone. Che farsi degli amici è difficile solo se scordi te stesso a casa per paura di perderlo. E che se ti esprimi, forse, allora, ti sembrerà di non essere neanche più te stesso, ma di amici probabilmente ne avrai…e anche di soddisfazioni.

Selvaggi

selvaggi

Eravamo tutti un po’ selvaggi da piccoli.I nostri genitori a lavoro e niente motorini. C’era un via vai di accompagnatori e Phantom che si immolavano per tutti. Passavano di fratello in fratello, con le marmitte scassate e un fracasso incredibile. Ma ci portavano fin qui, a Torre Conca.

La chiamavamo solo Valtur, per via dello storico villaggio da cui ci separava un cordone grosso e un limite tutto mentale. In spiaggia si consumavano i nostri pomeriggi. Giocavamo. Ci abbronzavamo per inerzia, uscivamo dall’acqua solo dopo che il pallone era finito per cinque o sei volte sui tipi che ci guardavano storto. E sulle tovaglie squadrate, sovrapposte, umidicce, appallottolate c’era tempo solo per una partita a scopone. Risalivamo verso sera, prima del tramonto, boccheggiando per la salita ripida.

Non lo sapevamo allora, ma eravamo sul pezzo sempre. A 16 anni ti senti padrone del mondo, anche se non hai manco cinque euro nel portafoglio: hai la libertà. Non ci sono sovrastrutture, si procede per impatti. Simpatico/antipatico, di qua/di fuori, pallavolista o mani di ricotta. A Torre Conca se il mare si incazza, le onde toccano anche i due metri. Ma io ricordo che stavamo al mare pure in quei giorni lì, a guardarle da lontano, a scappare dalla battigia, a sfidare unicamente il rinculo dell’acqua.

Adesso cerchiamo l’orizzonte al tramonto per fantasticare sulle nostre evasioni, ci tranquillizziamo in questo posto che sa farci ritrovare con noi stessi e con le persone intoccabili della nostra vita. Ora ci sono i parcheggi per i residenti, ma sempre una doccia sola. Ci portiamo la frutta perché il bibitaro non passa più. Fotografiamo i tramonti perché nessuno porta le carte. Conserviamo però un po’ di quella spavalda libertà, perché a Torre Conca, sulle pietre piatte ci poggi la schiena per guardare il cielo se l’orizzonte dovesse portarti troppo lontano, poggi i piedi sulla tovaglia dell’altro per sussurrargli qualcosa di importante e fai il bagno quando cessano gli schiamazzi. Gli occhi accompagnano il pellegrinaggio di chi risale, così speri sempre di essere l’ultimo, in qualche modo sei convinto sia giusto così.

Selvaggi.

Meglio saperlo

meglio saperlo

Ho chiacchierato con un’amica di scrittura, comunicazione e social, guardando indietro ai mesi difficili della quarantena.

Senza una fuga, senza paura, senza tristezza, oggi non ci sarebbero tante nuove consapevolezze, ma anche una grande e riscoperta libertà: le zavorre più insopportabili spesso sono i giudizi che ci portiamo dietro.

Martina dice che sono un tutt’uno con la mia scrittura. Sì, è vero: è il mio vanto più grande. Soprattutto perché mi ricorda costantemente che ci sarà sempre un altro modo per guardare le cose, conoscerle e scegliere che farne.

Ho una mia formazione, un mio credo rispetto alla vita che sono prontissima a smussare, e poi ho un po’ di volontà. Ma anche tanta, tantissima voglia, di lasciarmi solamente investire a volte dalle cose dell’esistenza e vedere che succede. Pare che non sia un caso: che più costruisco un palazzo moderno, innovativo, come piace a me, più qualcosa sfugge al mio controllo e il palazzo crolla.

Questo è il tenore dei miei sogni. Raccontano le mie più profonde contraddizioni che pure racchiudono la chiave per il mio prossimo upgrade. La vetta da cui tornare a vedere la realtà che mi circonda profondamente in modo diverso. Come Finale, dove vivo per ora. Sono ripiombata nei problemi dell’anonima provincia, dove l’orgoglio cresce proporzionalmente con il poco che questo posto ha da offrire. Almeno, è così per me.

Qui ho scoperto di essere uno spirito collettivo quanto disincantato, feroce solo quando è il momento di mettersi in mezzo. Tutti i difetti umani qui sono stilizzati in un’opera di pirandelliana memoria. Come il Fu Mattia Pascal che mentre in treno escogita un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo necrologio. La straordinaria opportunità di una nuova vita nei panni di Adriano Meis, si rivela ben presto però fallace, per quanto necessaria. Non solo morire, ma anche rinascere deve accadere nel luogo del delitto.

Tutto questo per rispondere a Martina che incautamente mi ha chiesto “Come stai?” prima del nostro vaneggiamento serale su temi che mi stanno molto a cuore. E alla fine una piccola sfida: condividere una notizia tanto importante quanto passata in sordina, per selezionare in mezzo a tante informazioni qualcosa che è meglio sapere.

Che fine ha fatto Dio nelle canzoni?

dio canzoni

Me lo sono chiesta oggi, quando è partita la traccia di un vecchio cd di Ligabue che abbiamo in auto.

“Hai un momento, Dio?”, singolo dall’album “Buon Compleanno, Elvis”, uscì nel 1995. Un’altra epoca. Riascoltandola viene fuori tutta la rabbia e la frustrazione di chi alza gli occhi al cielo in cerca di risposte che altrimenti non si hanno, non si trovano.

Luciano canta spesso il cielo, in realtà. C’è un costante richiamo al senso della vita e ai sentimenti puri, anche quando sono brutali e devastanti, perché i duri hanno due cuori, sempre. E il cantautore emiliano non è certo un credente. Molti hanno cantato dio: atei, praticanti, agnostici e strafottenti. Il punto sta altrove, sta dove si poggia lo sguardo.

Ed era, quasi sempre, fuori da sé. E Dio è l’Altro da sé per eccellenza, quello col gilet. L’onnipotente, di fronte al quale ci sentiamo invisibili. Possiamo sfidarlo quanto ci pare,

Non bevi niente e io non ti sento com’è?
Perché?
Perché ho qualche cosa in cui credere
Perché non riesco mica a ricordare bene che cos’è

Lo so che l’avete cantato. Ma tant’è, è storia passata, anacronistica. Di Dio, le canzoni hanno smesso di parlare da anni. Figli del nostro tempo, i testi della nuova generazione di cantautori hanno spostato nettamente lo sguardo altrove. Da quando siamo diventati tutti Figli di Pitagora e siamo saliti a bordo di una Vespa 50, qualcosa è cambiato drasticamente. Di stagione in stagione, di disco in disco, l’iperrealismo ha preso il posto dei versi celesti e i moti rivoluzionari si sono rivolti all’interno. Le canzoni guardano adesso a noi stessi. Chi si ferma ai Comunisti col Rolex e alle ragazze con il grilletto facile e chi invece, si inoltra così tanto da scrutare l’abisso.

Oggi la musica canta la merda di ognuno. Le guerre uterine, la deriva dei sensi, gli scherzi della psiche, con la stessa rabbia e frustrazione forse, ma tutta totalmente, inesorabilmente, individuale.