Ma ve la immaginate la fine?

Si è alzato un gran vento anche qua. Mi dicono che è raro sulla bassa, eppure niente equinozio quest’anno. Una folata ha spezzato i petali degli alberi di pesco sotto casa e il cielo si è ingrigito. Tocca aspettare per celebrare la nuova stagione. Incautamente avevo osato tirare fuori la giacca in ecopelle che a conti fatti – tra cambiamenti climatici, restrizioni e ritorni verso sud – metterò un paio di settimane l’anno.

Pure l’armadio vive in attesa di un liberi tutti finale, la caduta del muro di Berlino, lo sbarco in Normandia, l’incontro di Teano, il trattato di Versailles, il ritorno a casa di Ulisse, insomma quel momento lì, quello simile all’esultanza di Grosso in Italia-Germania 2006, l’abbraccio di Pirlo a Cannavaro dopo l’ultimo rigore, l’ultima campanella di giugno a scuola. Come sarà quando sarà finita? Chi ce lo dirà? Da chi andremo?

Magari non ce ne accorgeremo neanche, butteremo via le mascherine e basta, senza nessun rito o esultanza. Ci diremo salvi con i traumi addosso o negheremo che sia finita. A un certo punto insomma, ci potremo permettere di non avere razionalmente nessuna paura. E scopriremo di averle comunque. Ci sarà per tutti quel parente o amico che ci dirà di non esagerare, ci sentiremo pure un po’ scemi, alienati, confusi. Invecchiati sicuro. I pub avranno un appeal diverso, prevedo un innalzamento dell’indice di acquisto per attrezzatura da montagna e camminata nordica, i più audaci si saranno dati all’alpinismo, compreremo una canoa e saremo disposti a portarla in spalla, pur di dare due bracciate lontano, verso l’orizzonte dove ogni libertà viene ricomposta, torna legittima, e il mondo accenna le sue forme tondeggianti. I rumori, quelli torneranno sicuro, quelle dannate auto a tutte le ore del giorno e della notte.

Rimpiangerò la campagna, la sua quiete un po’ povera, il suo spirito piatto, sempre disposta a rivoltare la terra di cui è fatta. Comprerò dei vestiti, perché ne avrò messi via altri. E non guarderò solo tute, ma oserò nuovi outfit e colori. Ci saranno molti treni, lo giuro. E forse un abbonamento al teatro, monologhi. Monologhi di donne attrici che mi piacciono. Le seguirò sui social. E poi andrò a sentirle dal vivo. Concerti pure, una band magari. Un indie strappalacrime per ricordarmi che non ho più vent’anni anche se sarò in mezzo a ventenni. Ah, poi voglio esagerare: troverò il lavoro che mi piace. Inizierò da stagista e poi mi farò valere, sì. Non sarà necessario coltivare più nessun sogno, perché sarò in perfetta armonia tra la realizzazione di me e il mio conto in banca.

Quanto al cibo, sentite, parliamoci chiaro: ma chi ce l’avrà il tempo di cinque pasti al giorno e di salvare tutti i post sulle idee per una colazione a dieta! Mangerò equilibrato, sostenibile e non comprerò carne al supermercato. Ma mangerò quello che mi pare e soffriggerò sedano, carote e cipolle a piacimento. Impasterò per il gusto di impastare, e devo assolutamente comprare uno sbattitore e un frullatore a immersione, perché altrimenti sei un sacco limitato. Non puoi essere sempre creativo. Serve una zona franca dall’estro, un posto per continuare ad annoiarmi. Tipo la coda. Ridatemi una sala d’attesa dove poter osservare la gente e le sue stranezze. Scambiarsi un sorriso d’intesa, attaccare bottone. Ma quand’è che avete attaccato bottone l’ultima volta?

Servirà una piazza. Sì, vi prego. Tocca farci un evento e che accorra molta gente curiosa. Una sagra, un sabato sera di quelli che almeno per due ore non prendi in mano il telefono. Se fai una storia ti taglio le mani! Stai qua, con me, guarda quello: ma perché porta le basette così? Avrà visto Bridgerton…Accenderò il pc solo quattro ore al giorno e piuttosto vado a fare capanne con i miei cugini piccoli. Giro di Sicilia, ma pure a piedi guarda. Datemi la Via Francigena e sarò Fidippide, solo che sarò l’ultima maratoneta. Se dobbiamo ringraziare la realtà aumentata, io voglio essere diminuita, voglio abbassare il volume, e giuro che ci sarà una serie solo se potrò comparire nei titoli di coda. Comparsa? No, autrice zì. Minimo, minimo racconterò storie senza pilot e senza conclusioni…

Farò una tournee. Sarò groupie di me stessa. La road map sarà segnata da ogni capolinea di treno (ma solo se mi sponsorizza Trenitalia). Farò un reportage e lo titolerò: fino alla fine dei binari. Gli ultimi saranno i primi e per ogni stazione chiederò a un passante: lei si sente più destinazione o partenza a vivere qui? Insomma, più immagino la fine, più prende la forma di nuovo inizio.

I miei pensieri alfa privativo

Si fa un sacco fatica a restare lucidi e proiettati su attività e obiettivi di questi tempi. Ci sentiamo tutti un po’ sospesi, in balia di condizioni esterne mutevoli, voci calate dall’alto, regole, assenza di programmi, figli per casa, e case che si svuotano. Decine e decine di annunci inondano le bacheche dei gruppi autogestiti a Parma. Gli inquilini lasciano le stanze, ma sembra che gli annunci restino appesi ad ammuffire anche nello spazio ingannevole di Facebook. Non c’è compravendita, non ci sono scambi, desideri, missioni, scadenze. Eppure, so per certo che non manca chi progetta. Lauree imminenti, chi sottoscrive assicurazioni, chi ringrazia di avere l’agenda piena di lavoro, chi prova a rendere concreta la sua idea di comunicazione.

Ci sembra che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente, che la pandemia abbia stravolto le carte in tavola, setacciamo le cose attraverso un prima e un dopo, ma così facendo sbagliamo focus. La pandemia ha solo tirato lo sciacquone di un cesso già otturato e finalmente ci siamo accorti della melma venuta a galla. Truce, lo so. Limiti, problemi, inquietudini c’erano anche prima. L’isolamento, le privazioni, le chiusure, la paura, la malattia, lo stato d’emergenza generale, la diffidenza, hanno solo scoperchiato tutto il sommerso. A quel punto, osservando quello che mi circonda, ascoltando gli amici, interagendo con le persone (attraverso un dannato schermo), mi sono accorta sostanzialmente che ci siamo divisi in due gruppi: chi annaspa o è rimasto invischiato e chi si è tappato il naso provando a nuotare.

Oh! Le frasi che ho sentito dire più spesso tra i miei contatti, non a caso, sono due: “a me in fondo è cambiato poco” oppure “non mi sento più lo stesso”. Insomma, qualcuno rigetta ancora il riflesso che questo tempo, come uno specchio, offre di sé. Altri invece, hanno intrapreso uno straordinario viaggio di ricerca. Un po’ come quando scopri di abitare la foto che qualcun altro ha scattato, immortalando un momento di te che altrimenti avresti perso. Oggi mi è stato restituito un frammento della mia storia che non sapevo di avere. Sono finita per caso nel grandangolo di una macchina fotografica, avevo tre anni e, provando a ricostruire il contesto, avrò accettato l’invito di mia zia ad andare a vedere il saggio di mio cugino più grande che suonava il flauto. C’è una bimba dagli occhi grandi e la frangia a coprire la fronte, seduta, da buona, tra i grandi. Sono io, contenuto speciale del film della mia infanzia, inedito. Si prova tenerezza di fronte alle parti bambine sé – “una specie di tenerezza tragica”, l’ha chiamata Anna – Sono io che manco a me stessa.

A strappar via i pezzi di storia comunque, siamo bravi anche da grandi. Ho sempre fretta, un bisogno spasmodico di saltare a conclusioni e leggere gli eventi nell’ordine e nel senso che vorrei. Senza concedermi l’agio dell’accoglienza. Entro a gamba tesa sulle cose, penso di conoscere già gli esiti, e non lascio spazio alla sorpresa. Sono i miei pensieri alfa privativo: quelli che negano o denotano assenza di senso. Perché è facile reputare sbagliato quello che altrimenti dovremmo conoscere. Non mi fido. Zero. Neanche di me stessa. Almeno fino ad ora. La musica (leggerissima) sta cambiando. Sarà per quell’esercizio che ormai da un anno faccio, di mettere in discussione ogni cosa e scrivere pezzi inediti della storia. Sarà che la prossima imminente zona rossa sarà battuta a suon di bibliografia e prato nei pressi di casa. Sarà che il sole, almeno, dovrebbe essere alleato, e ci sono i pensieri da dare e da ricevere a scaldare il cuore. Non ammattiremo neanche stavolta.

L’Università ha fallito. Chiedo i danni

Inizia un nuovo semestre di lezioni online. Di facce depixellizzate, tempi morti, suicidio della creatività, mi senti ti sento uh ci sentiamo, e palle che si fracassano al suolo. Non me lo meritavo.

La cosa veramente comica è che alla triennale ho fatto la telematica. Avevo i miei bei corsi con 18, 24, 42 videolezioni disponibili h24, gli incontri con i tutor su SkypeForBusiness e andavo in sede solo per gli esami. Quanto ho dovuto combattere il mio complesso di inferiorità verso colleghi e amici che facevano la “pubblica” e invece, ero una pioniera! L’e-learning: avanguardia pura! Frequentando scienze della comunicazione peraltro, l’ho anche studiato il “progetto per lo sviluppo e la realizzazione di ambienti di apprendimento aperti e flessibili” su cui si basa l’offerta formativa della mia vecchia università. HAMLET, un nome tanto evocativo quanto pertinente. Pensate, è stato sviluppato tra il 2000 e il 2005. Insomma, quando ancora ero convinta che il mondo finisse all’incrocio di via Dante poco sotto casa mia, altrove si sviluppava il mondo del sapere senza confini.

Lungi da me ogni forma di moralismo, anch’io skippavo le vdl, acceleravo la riproduzione e mi spartivo con i colleghi le trascrizioni da produrre per non dover marcire davanti a uno schermo. Mi sono annoiata certo, mi sono fatta una marea di sconti, come ogni studente che a un certo punto…si deve solo laureare. Ma ci sono stati dei momenti che conservo abbastanza gelosamente, per almeno due motivi: perché il sapere è permeato, mi ha reso parte di ciò che sono e perché lì dentro, tra i fiumi di parole che tengo ancora preziosissimi su drive, ho tessuto relazioni fortissime.

Almeno fatelo bene

Ed era solo una telematica. Nel 2020, complice una devastante pandemia mondiale, che mai, mai nessuno dovrebbe usare come attenuante per sgravarsi da una presa di coscienza necessaria, nell’era più mediatica di sempre, la società dell’informazione che pure formiamo, non è stata in grado di proporre un atterraggio morbido a migliaia di studenti, molti dei quali non sanno nemmeno di sentirsi persi.

Tante volte mi sono sentita disorientata, a un certo punto del mio percorso l’università l’ho proprio mollata. Non sapevo minimamente cosa desiderassi e della mia personalità non c’era traccia neanche su Netlog. Una sera, di ritorno da una brevissima trasferta a Roma, era notte fonda, l’autostrada scorreva sgombra e veloce e come sono solita fare in auto, lato passeggero, ho inoltrato gli occhi al cielo per uno di quei trip mentali in cui state certi, trovo soluzioni a più grandi conflitti di questo tempo. In quella pellicola cinematografica vivida, mi fu chiara una cosa: che dannata fortuna fosse potere studiare. Quanto fosse bello conoscere, capire e ritrovare tra le righe sapienti di un altro, gli stessi pensieri timidi che non avevi mai avuto il coraggio di fare ad alta voce.

Ci sono decine, forse centinaia di spiegazioni del perché l’Università si è arenata nell’anno più catastrofico della storia postmoderna. E sono tutte valide, ma era un veliero già vecchio al porto di partenza. Gonfio del suo prestigio, sicuro del valore della istituzione rappresentata, quando il sistema si è fermato – l’Università ha smesso di insegnare. La confusione, il panico, lo scoraggiamento, gli sbuffi al mattino, la pazienza infinita, tanto la buona volontà quanto il menefreghismo dei docenti, hanno qualcosa da rendere al sapere. Ci spieghino cosa non va per davvero – al di là dell’infrastruttura e delle connessioni a buon mercato. Ci raccontino di un approccio didattico che non ha vacillato nell’ultimo anno, di un adattamento attivo grazie al quale sono riusciti a interagire comunque con gli studenti, al di là della trasposizione tale e quale dell’orario di lezioni com’era prima.

E io pago

Perché com’era prima, non andava già bene. Sono in DAD da un anno, tre su quattro semestri della magistrale che ho iniziato a frequentare a settembre del 2019, si sono svolti online, che al momento significa solo che non si sono svolti affatto. La scorsa primavera, aperta la gabbia dopo il lockdown, ho scelto di lavorare per recuperare il denaro dell’affitto che ho continuato a pagare a vuoto per cinque mesi. Se avessi mollato l’appartamento, avrei compromesso la borsa di studio, la stessa che due anni fa fu condizione sine qua non per consentirmi di studiare fuori sede. La pandemia non ha compromesso la mia carriera universitaria, ho continuato a sostenere gli esami senza intoppi. In questi mesi, il mio rapporto con il sapere è tornato intimo e timido, come quella notte in auto. Non ho potuto tessere relazioni con nuovi docenti che pure, all’Università, servono come referenza. Non ho potuto approfondire nuove relazioni con nuovi colleghi, né frequentare gli spazi di studio che non hanno il potere osmotico di inculcare nozioni nel tuo cervello, ma usano l’adrenalina della sgambata in bici fino alla Biblioteca Paolotti, per tenerti sveglio nelle ore di studio a seguire.

Ci sentiamo così, derubati. E dopo 11 mesi non siamo ancora in grado di fare un discorso diverso da “Portate pazienza, arriverà la primavera”. Mi porto avanti, questa è la conta dei danni. Penso di avere il diritto di enuclearla, dato che nel frattempo ho solo gettato ami al mio futuro, senza smettere neanche per un attimo di credere che ne avrò uno. Meno incazzato spero.

Se tutto è un meme

Straordinario potere delle immagini. Bernie Sanders ha impiegato pochi attimi a fare il giro del mondo con le sue muffole marroni il giorno dell’inauguration day nella capitale Whashington.

Se ne stava seduto, sopito quasi, durante la manifestazione più importante dell’anno, con la proclamazione del nuovo presidente degli Stati Uniti da una parte e Lady Gaga vestita come un personaggio degli Hunger Games dall’altra. Abbiamo visto sfilare le personalità più vivaci a Capitol Hill, i più amati come Barack e Michelle Obama, personaggi che sono la storia d’America. Fra loro, anche un vecchietto con un pantalone casual e l’aria di chi non ha più nulla da dimostrare.

Almeno quattro buone ragioni hanno reso le gambe accavallate del vecchio Sanders memorabili: le spiega Annamaria Testa su Internazionale qui. Leggerle mi ha incuriosito rispetto alla densità di significato che può assumere una foto ritoccata nata per gioco. E’ questo un meme, no? L’estro creativo – a tratti geniale – di chi associa un evento a un prodotto culturale preesistente, facendolo rifiorire. Il meme è un’associazione libera comprensibile a quei pochi che possiedono la conoscenza sufficiente a riconoscere un significato di un universo culturale in relazione a un altro.

Meme è un’unità culturale di un sistema di comportamenti trasmesso da un individuo a un altro per imitazione. Così Treccani. In altre parole, il meme è un codice che si imprime nel nostro cervello perché idolatriamo qualcosa o qualcuno. La parole greca da cui meme deriva del resto, significa proprio questo: imitare. Diventa improvvisamente famoso, degno di restare lì e rievocare un elemento. Chi si scorda lo zio Michele di Avetrana? Lu tratturi. Perché l’unica condizione necessaria per un meme è la sua capacità di auto-replicarsi. Ecco, l’immagine che What’s App segnala come “Inoltrata molte volte” ha già fatto breccia sugli schermi di centinaia di utenti.

Subito. Qualsiasi cosa accada intorno a noi, c’è già una rielaborazione goliardica del tutto. Un rapido riesame che banalizza ogni cosa, persino la politica. Ma se tutto è ridicolizzato, cosa resta da prendere sul serio? Per un Bernie Sanders che apre a nuove narrazioni del capitalismo, ci sono almeno una decina di Zio Michele pronti a trasformare il noto complice di un omicidio, in una figura imperitura.

Quando arrivai a Palermo, dopo anni in provincia, un collega più grande mi disse: “Arrivare da una piccola realtà ti ha consegnato un certo modo di vedere le cose. Non perderlo. Non pensare che sia normale, ciò che normale non è. Non pensare che la munnizza per strada sia normale, o le macchine in doppia fila”. Se tutto è diventato memorabile, ridatemi un po’ di lucida normalità. Sopra le righe lasciamoci le note alte, le missioni spaziali, i maxi processi della giustizia, le pandemie.

Tutto il resto, lasciamo che sia noia o grande sbaglio, quotidiano ordinario, vita trasparente, innocua e salubre. Entusiasmi, virtù e amori. Errori, crimini, dolori. Giusto e sbagliato. Riprendiamoci quella preziosa arte che è criticare.

Queste mura anni Sessanta

anni sessanta

Plink…plink…plink. È quasi l’una e di prender sonno non se ne parla. Quel suono tremendo che si ficca nel cervello è il tifone della doccia che gocciola. Gocciola sempre, da quando vivo qui. Dopo la doccia lo riverso in una bacinella per raccogliere l’acqua e non farla perdere. Poi, la riutilizziamo per scaricare il water o pulire la vasca. Una vasca che usiamo solo come doccia, con lo smalto rovinato, aloni di ruggine e la rubinetteria invecchiata dal calcare. A muro ci sono piccole mattonelle con decorazioni simil romane. Ma di un bagno romano, non ha proprio nulla. Vivo tra le mura di una casa ammobiliata negli anni Sessanta da un anno e mezzo. È un trilocale spazioso, con il parquet in un paio di stanze; non in tutte, chissà perché…ma è rovinato anche quello.

Gli infissi sono in legno, i vetri sottili e le serrande grigie in plastica. Sopra, cassoni pieni di polvere. Le porte – anche quelle in legno – incorniciano il vetro opaco. Nel bagno, gli inquilini di un tempo, hanno aggiunto una striscia adesiva per il pudore dei primi tempi tra conviventi. Qua è là sono sparsi piccoli mobili traballanti. Ne ho preso uno per la mia stanza, mi serve per conservare la biancheria da notte, gli asciugamani puliti e il piano di sopra per riporre quello che nella minuscola libreria non entrava più. Pensili poco spessi, con ancora l’etichetta del mobilificio, così fragili che potrei spezzarli solo passando la pezza umida.

Ho una sorta di armadio fatiscente, con i cassetti rotti. Tre piccole ante – sono piccole davvero – conservano i vestiti per tre stagioni. Sapevo che qui non avrei mai portato l’estate. Ho messo insieme due letti per farne uno grande. Ma da quindici mesi dormo su un terzo della superficie, incassata tra i piumoni, due, per il freddo, garanzia di un sonno tranquillo. Se non fosse per quel plink. Il bagno comunque, resta l’ambiente peggiore. Abbiamo comprato una tenda da doccia moderna, con una fantasia a righe totalmente dissonante dal resto dell’arredo. A un chiodo è appesa ancora una mattonella dipinta di blu che mi ricorda un vecchio atelier sul mare. Accanto alla vasca, sta un vecchio mobiletto marcio nella parte inferiore. Abbiamo provato a sollevarlo, spostarlo, avremmo voluto sbarazzarcene, ma a ogni tentativo sembrava crollarci tra le mani.

Così, abbiamo rinunciato. Siamo di passaggio, abbiamo stipulato un compromesso, più che un contratto. Tutto sommato, l’affitto non è caro, quindi ci accolliamo questa decadente dimora. C’ era un tempo in cui le stanze per studenti andavano a ruba. Ho personalizzato poco. C’è una poltrona nella mia stanza, utile come terra di mezzo per i vestiti che si possono rimettere anche il giorno dopo. In velluto beige, goffa, ingombrante, massiccia. Qualche ritocco nel tempo è stato fatto. Il piano cottura, ad esempio, ha l’accensione elettronica. C’è persino un microonde.

Un vecchio divano biposto a muro e un tavolo in legno con i cassetti e un buco centrale per il mattarello, arredano la cucina. Le sedie hanno le gambe sottili e la stessa mano che dipinse quella mattonella del bagno, ha rivivacizzato anche gli schienali. Da tempo, coltivo un desiderio improprio: nel silenzio della notte, dove accadono le cose che sono impossibili da realizzare alla luce del giorno, vorrei riversare dell’acqua in balcone, un po’ di sgrassatore e spazzare via unto e polvere con una vecchia scopa. Poi, sarà tempo di semi e terra, piante colorate e con un po’ di fortuna prezzemolo e basilico.

Qui ho imparato a discernere un po’ di me nel futuro. Vorrei due case un giorno, una fissa, piccola, rispettosa dell’ambiente, comoda, con i confort minimi, sul pendio di una montagnola o vicino al mare. Dinanzi uno spazio, meglio due: un piccolo giardino per i pomodori e uno sprazzo per le cene d’estate. So che sarà dove già è il mio posto, il mio mare. Poi, una mobile che sarà ovunque, altrove. Ovunque io desideri, là starò: fra le mura di una casa solide, in cui nessuno avrà riversato scarti inutili e offensivi. Ci metterò la frutta del mercato rionale e uno schiaccianoci. Farò la differenziata e per profumare mi farò consigliare da qualcuno. Per pulire, basterà solo l’acqua e una spazzola. Avrò un armadio per tutte le stagioni e nessun filo di polvere pendente.

Quanto in grande bisogna pensare per realizzare una casa piccola?

Annus horribilis

annus horribilis

Niente a confronto con il 2020 della Regina Elisabetta che tra la Megxit e lo scandalo Epstein alla veneranda età di 94 anni chiude un’annata nefasta. Che sia stato un anno di merda è notorio, non serve neanche ribadire le innumerevoli ragioni che tutt’oggi mi regalano fantastici sogni in cui ho paura di stringere la mano alla gente.Quindi, sarà più catartico ripercorrere una manciata di motivi per cui, nonostante tutto, posso dire che è stato bello esserci stata in questo annus horribilis.

A gennaio ho sottoscritto un abbonamento per la palestra e ci sono pure andata. Il miglior ricordo che conservo di quei bui pomeriggi in bici per raggiungere via Rapallo, è l’odore di grissini appena sfornati davanti alla fabbrica Pandea e una tabella che indicava 3 gradi centigradi netti. Percepiti nessuno, perché non avevo sensibilità tattile. Ne è rimasto un vaucher del valore complessivo di 77 giorni di ingressi da spendere entro maggio 2021. Ahaha!

A febbraio ho condotto la mia prima intervista dal vivo. Ero a Parma, ma ho dichiarato di trovarci a Palermo.

A marzo sono finita in quarantena per 20 giorni ma non avevo il Covid. Avevo però la vista sul mare e una bottiglia di vino che papà mi aveva lasciato dietro la porta.

Ad aprile ho aperto il mio blog, questo blog, e ho giurato a me stessa che non sarebbe stato un anno vano. Anche perché ho temuto il peggio per la mia salute mentale quando mi sono arrampicata sul tetto del terrazzo di casa e ho salutato energicamente i vicini due strade più su.

A maggio ho compiuto 28 anni e ho realizzato che avrei trascorso un’intera estate in paese, come non mi succedeva da anni. Poi, ho realizzato che avrei trascorso un’intera estate in paese…

A giugno mi sono improvvisata regista, podista e assaggiatrice di arancine in favore di camera. Ho iniziato a lavorare sodo per un progetto che non sapevo dove mi avrebbe portata. Per sicurezza, ho comunque sperimentato la schiarita naturale ai capelli…salvo buttarmi a mare dopo la piega. Perché sono così io, fruciuna.

A luglio mi sono tatuata un’ Araba fenice sulla schiena, ho avuto una vertigine su un albero ma ero imbracata, quindi non fu un brivido vero.

Ad agosto ho celebrato l’amicizia, quella di sempre e quella appena nata fra le mura in pietra troppo spesse di un vecchio pub. Ho passato tanto tempo sola tra gli scogli e il mare. Ho avuto paura, ho tenuto il fiato sospeso per ore e poi ho respirato di nuovo.

A settembre ho finto fosse ancora estate e ho remato a largo su una canoa biposto, con tanta incoscienza ma soprattutto mettendo a repentaglio la vita della mia amica Martina che non so perché mi ha assecondata in quello strano modo di restare a galla. Poi ho ripreso il microfono, stavolta ero nel posto giusto, al momento giusto e non ho mai sbagliato coordinate.

A ottobre ho accettato un invito a pranzo che non volevo accettare e tra il tofu e una strana cameriera stressata per le norme di contenimento, ho realizzato quanta vita era stata rimandata fino ad allora.

A novembre ho risalito la vetta di una montagna dell’Appennino tosco-emiliano, anche se credevo che non ce l’avrei fatta. Non è che ora posso dire che basta crederci, perché ho odiato la retorica della mia coscienza anche quel giorno, e mi sono maledetta continuamente per quell’impresa. La morale di quel giorno in montagna è che devi fare il cazzo che ti pare sempre, anche se poi te ne penti.

A dicembre ho scoperto di non soffrire più il freddo.

Le parole, questo Natale, me le ha suggerite il mare

mare natale

La mia lettera di Natale quest’anno è rivolta al mare. Babbo Natale è inflazionato, Gesù Bambino non mi sembra il caso di gravarlo di troppe responsabilità, al primo gemito. Il mare invece, è grande abbastanza per contenere dubbi, desideri, paure e gioie. Sa elaborare tutte le emozioni: si arrabbia, si stende, si colora (non è depresso), va e viene ma non è bipolare. Ha la sua motoria coerenza.

Insomma, caro mare…

Quest’anno vorrei che ti facessi grande per raccogliere tutto l’indefinito dei mesi appena trascorsi. Quello che non abbiamo saputo dove mettere, quello che abbiamo fermato, che è stato abortito, a cui abbiamo rinunciato, che abbiamo visto ridimensionato o del tutto sacrificato, vorrei lo prendessi in consegna e che ti tenessi pronto a restituircelo come sai fare tu, che riporti a riva ciò che in te non muore mai.

Vorrei che ti facessi bassa marea per chi è con l’acqua al collo. Adesso che sappiamo davvero cosa vogliamo quando invochiamo un sereno Natale e un Felice anno nuovo, ti chiedo di non cancellare i segni di questa scoperta. Che possa rimanerci ben impresso questo gran casino in cui siamo finiti.

Onestamente, era difficile anche gli altri anni gestire giornate come queste, che hanno il potere di sottolineare le mancanze e marcare a fuoco i limiti e le incomprensioni. Non ci serviva un’ aggravante. L’unica rima collettiva è la grande opera di castrazione sociale in corso. Natale ha solo complicato le cose: ha reso manifesto il nostro pregiudizio di conferma. Più ci viene detto cosa non fare, più ci incaponiamo nel farlo. Chiamaci stronzi…

Ma tant’è…Quando questo Grande Fratello finirà, dovremo fare i conti con le conseguenze di mesi instabili e irrequieti. Per cui, fin da ora, ti chiedo di non farti troppo mosso quando affolleremo le tue rive in cerca di iodio da respirare dopo tutta l’anidride carbonica che inaliamo usando le mascherine.

Se dovessimo dimenticarci come si nuota, non disperdere le boe a largo. Le boe servono per girarci intorno quando abbiamo raggiunto l’apice delle nostre trasformazioni e siamo pronti a lasciarci alle spalle la parte difficile del percorso per raggiungere finalmente il prossimo punto di arrivo. Anche se – penso – mi acciambellerò al sole finché autunno non ci separi.

Vorrei che portassi il tuo senso di libertà alle mie amiche donne, tutte, indistintamente. Noi, di libertà, abbiamo più bisogno di altri, perché partiamo svantaggiate. Mi accontento di continuare a tenere gli occhi aperti tanto così nei futuri ambienti di lavoro, per non essere sovrastata dalla consuetudine manipolatoria maschia, pur di avere in cambio la certezza che fiancheggiando le tue rive, ciascuna di noi intraveda la possibilità di riflettere interamente se stessa così com’è.

Mi preme un pensiero anche per i miei amici uomini. Che siano determinati come le onde che si infrangono sugli scogli: nelle scelte, nelle parole e per carità, nei sentimenti.

Francamente, sarebbe banale chiederti di inondare Palazzo Chigi, così da provvedere a un cambio di Governo. Ci proviamo da anni, ma la sensazione è sempre più quella di scavare un fosso che non smette di trovare profondità. Inizio a pensare che il vero problema non sta lì, e che forse siamo noi un po’ minchioni. Io so che la calma piatta della tua superficie di questi giorni, in combutta con il sole, è un piacevole inganno. Che stai combattendo la temperie dell’inverno come noi combattiamo la temperie culturale di questo secolo.

So che non sei attrezzato per invertire la rotta della polarizzazione dei media, per l’avvento delle tecnologie che favoriscono la diffusione virale delle stronzate, e per la disinformazione. Tuttavia, potresti sempre ospitare il bagno di umiltà e buon senso di chi fa un uso improprio dei mezzi.

Nonostante il disgusto che spesso mi abita, vorrei tanto che tutto questo finisse. Che le cose della vita possiamo tornare a misurarle per intensità: ridere, sputacchiare, litigare, condividere una cena, stare chiusi in una stanza, per Dio, persino ballare.

Senti, sul vaccino non dico nulla. E neanche per me ho troppe pretese. Ho comprato un libro che sa di scommessa e una collana che fa da promemoria, per i giorni in cui scordo di volermi bene. Anche se – lo ammetto – ti ho anche fotografato mentre eri nudo, e la sabbia conservava l’umido dell’ultima mareggiata. Non avere fretta di rivestirti, di tornare al tuo ruolo naturale. Sii amante indiscreto, travolgente. Sorreggi questo splendido tradimento di cui io e te, in silenzio, sappiamo godere.

Ci vediamo nei singhiozzi di tempo che ci è concesso.

Sempre tua.

Neve in Val Padana e gravidi pensieri

Ho chiesto alla mia coinquilina di Trento come la facesse sentire la neve, lei che la conosce. <<Come a te il sole, Sofi>>.

Il sole illumina, scalda – ho pensato ad alta voce – mi sembra che renda le giornate più piene. Anche la neve è così secondo lei. Finito di sciacquare la tazza della colazione, la poggia sul ripiano del lavandino a scolare, prende il canovaccio e incalza alle mie spalle, mentre cerco risposte oltre il vetro della cucina – fuori un tappeto bianco e gli alberi spogli. <<La neve è bella, guardala, non è come la pioggia, la pioggia fa schifo>>.

Credo che la neve sia semplicemente straordinaria. E non mi stupisce tutto questo clamore attorno, compreso il mio. La neve è un pretesto: per buttare un occhio al calendario e accorgersi che solo due mesi fa ero altrove, sentivo altre cose e i miei pensieri si accordavano a un coro diverso. Bauman dice che la costruzione dell’identità non è un processo cumulativo, piuttosto sembra un succedersi di nuovi inizi, ed è guidata dalla capacità di dimenticare, più che da quella di apprendere e memorizzare. Così, ciò che ho acquisito – a quanto pare – è solo temporaneo.

E oggi sono in un altro processo. Ad affrancarmi dalle videochiamate pressanti e deprivanti di questo tempo (non le sopporto più). A reggere con fatica lo sguardo di chi, come me, non sa che succederà dopo la concessione di un Natale in famiglia. Se sarà possibile programmare un rientro o se passeranno mesi come l’ultima volta. Se tra presente e futuro, toccherà ancora coniugare al tempo attendere. Neanche la neve mi ha restituito risposte, nonostante la sua straordinaria normalità.

Mentre facevo la ciaspolata per strada, avendo cura di non rompermi la faccia scivolando sul ghiaccio, mi riscoprivo nuova ancora una volta: così esperta di sole e luccichii sulla superficie del mare, mi ritrovo a selezionare outfit per l’inverno sconosciuto, rispolverando vecchi cappelli di lana e nuove sciarpe avvolgenti che sono incredibilmente calde e pertinenti a questo clima di città padana. Sullo stradello imbiancato ho trovato però un riflesso di paura accanto allo stupore. L’ho guardata in faccia sopraggiungere insieme all’abbondanza dei pensieri nuovi. E ho capito che siamo tutti parzialmente dislocati nel nostro qui e ora a convivere con la nostra personalità temporanea. La mia è gravida di pensieri, così gravida da non trovare abbastanza spazio nel mio ventre piccolo. E questo può essere destabilizzante o doloroso, o entrambi.

In ogni risata c’è una debole eco di paura. La speranza è che vi sia un accenno di riso in ogni moto di orrore.

Zygmunt Bauman

Chi non si sente insicuro in questo momento, del resto? Più progrediamo, più siamo sopraffatti da nuove insicurezze, è il prezzo da pagare per una vita in mutamento costante. Mi faccio domande sul mio lavoro, sull’esito dei miei studi, sulla pertinenza delle mie scelte e l’incertezza appare come l’unica certezza in una condizione che stranamente non è asfissiante, solo perché ho fede in me stessa. A torto o a ragione, non lo so. Ma una carezza (o una fetta di pandoro, o un cappotto nuovo) servono a ricordarmi che c’ero tutte le volte che ho sepolto identità defunte di morte naturale (o procurata). Ed è un bene scoprire di essere più liberi di quanto si pensasse di essere.

Doppio quesito (e abbozzi di risposta)

1. Claudio Marchisio con un post prende una posizione netta rispetto al caso della #maestra di Torino. Condanna decisa al gesto dell’ex fidanzato, che ha commesso un reato (revenge porn). Perché diventa notiziabile il post dell’ex calciatore della Juventus e della Nazionale? Perché il calcio è l’ambiente machista per eccellenza e una posizione chiara da quegli ambienti è necessaria. Ma attendo ancora che qualche giornale lo metta in evidenza.

2. Questa mattina il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha condannato (repostandolo su Facebook) il fotomontaggio che Priamo Bocchi (sempre su Facebook) aveva pubblicato, raffigurante un sedere mostrato in risposta alla discussione in Consiglio Comunale su una mozione contro le discriminazioni di genere e le violenze legate al sesso. Bocchi è il coordinatore di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, a Parma. E si è dimesso questa mattina (silurato verosimilmente da FdI), prima o dopo o durante – poco importa -, aver definito la sua idea un “esercizio di satira politica”. Il fotomontaggio pubblicato da Bocchi, che non è in Consiglio comunale, poi è stato rimosso. Gesto incommentabile, personaggio politico dubbio, ma ancora una domanda mi assilla: se togliessimo Facebook dall’equazione che riassume gli eventi, ci sarebbe un fatto increscioso di cui discutere? Sul piano dell’utilizzo dei propri profili social, non c’è appartenenza politica che tenga: l’ analfabetismo digitale è imperante.

Il video hot, la camminata della vergogna e due domande da farci

video maestra

Torino, 2018. Una ragazza di 22 anni, maestra d’asilo, intraprende una storia d’amore con un ragazzo. In un gioco sexy, invia immagini di nudo al compagno, e un video hot. Lui li condivide con i compagni di calcetto. Il materiale finisce tra le mani della moglie di uno di loro, che riconosce la donna in quanto maestra del figlio. È scandalo. Il video viene diffuso sui telefoni delle altre mamme e — stando alle accuse della Procura — una di loro arriva a minacciare la ventiduenne di mettere al corrente la direttrice scolastica se avesse sporto denuncia contro l’ex fidanzato. La maestra  non si lascia intimorire e presenta querela. La direttrice e la moglie «spiona» finiscono a processo per diffamazione. Nei guai anche l’ex fidanzato infedele, che ha potuto accedere alla messa alla prova: un anno di lavori socialmente utili.

WALK OF SHAME

Se dopo una serata finisci a casa di lui, si trascorre una notte di passione, il mattino seguente bisognerà pur tornare a darsi un tono prima di andare a lavoro. Specie se indossi ancora i tacchi dell’outfit da sera. Così, la strada verso casa, diventa la camminata della vergogna, pensi che tutti ti guardino e intuiscano dall’aspetto come hai trascorso le ore passate. E provi vergogna, anche se nessuno sta veramente facendo caso a te. 

Un’immagine topica, se vogliamo, rilanciata peraltro da uno dei personaggi femminili più amati degli ultimi anni: Cercei Lannister, protagonista del Trono di Spade. Punita dall’autorità religiosa di Approdo del Re, è costretta ad attraversare la città sotto gli insulti dei cittadini, sfinita e privata della sua femminilità, lercia e umiliata. La vicenda di Torino offre la versione virtuale dello stesso processo. Tralasciando il solito goliardico atto di imbecillità mascolina per cui se sei partecipe dell’intimità di quella che dovrebbe essere la tua donna, per qualche strana ragione, senti il desiderio di condividerne un pezzo con gli amici di merenda, si assiste poi all’azione di un tribunale tutt’altro che silenzioso: una donna colpevole di aver vissuto liberamente la sua sessualità, viene beffeggiata, giudicata e minacciata da altre donne, che la ritengono immorale nell’adempimento del suo ruolo di educatrice. L’autoritas, rappresentata dalla Direttrice Scolastica, donna anch’essa, interviene con il licenziamento, e la beffa: la pubblica denuncia del misfatto. E scommetto che c’è un esercito di donne là fuori pronte a dichiararsi d’accordo. Ma cosa si sta crocifiggendo? Perché l’espressione di un piacere diventa condanna? Il giudizio inferto ha veramente a che fare con il suo ruolo di insegnante?

Se fossi madre preferirei che mio figlio venisse educato da una persona libera dalle ragnatele costruite attorno all’identità dell’umano, piegato al dovere e alla sacralità, senza mai concedere spazio al desiderio. Nel frattempo, c’è una ragazza di 22 anni che ha affrontato due e più tribunali, uno dei quali però, alla fine, le ha restituito giustizia. Quanto questo le sia costato, sarebbe la suggestione da tenere bene a mente.

DUE DOMANDE DA FARCI

E tra le innumerevoli sfaccettature che la vicenda offre come spunti di riflessione (revenge porn, odio di genere, squilibri di potere: la vita sessuale di un dipendente che non infrange alcuna legge, è motivo sufficiente per deciderne l’allontanamento dal posto di lavoro?), sono due le domande che oggi mi pongo:

  1. Non sarebbe anche ora di riconoscere il problema atavico e primordiale che la nostra società ha con la sessualità
  2. L’uso degli strumenti tecnologici per la condivisione di materiale privato non è sicuro perché rimane fuori dal nostro controllo. La maestra non è colpevole di essersi concessa un gioco sessuale, ma paga l’ingenuità di averlo trasmesso in rete. L’uso della tecnologia e dei social network hanno dei rischi, occorre una nuova educazione digitale, lo abbiamo compreso?