Mi scordo di piangere

Le limitazioni hanno fatto capolino nei miei sogni. Qualche giorno fa, nel mio onirico mi trovavo in una elegante sala da tè, arredata in stile vittoriano. Roba da ricchi, insomma. Cosa ci facessi lì è alquanto dubbio, ma senza lasciarmi condizionare dal contesto formale, intendevo sorseggiare la mia bevanda calda che ultimamente ha trovato concorrenza nello Spritz, costretto ad anticipare i suoi orari classici.

La cameriera, esile e anziana, ma decorosa, nel porgermi la tazza si è avvicinata al punto da sfiorare la mia faccia. Sebbene spiazzata da quell’infrazione, non ho protestato. Del resto, un attimo dopo, stavo bevendo il tè dalla tazza della mia amica di fianco. Anche stanotte, nel pieno vagabondare nel mio inconscio, al ristorante la tavolata era enorme e ritrovarsi con gli amici sapeva di festa, ma con il divieto di contatto. Limiti tutti mentali. Non ci sono nastri che delimitano i confini come su una scena del delitto, c’è solo la paura.

La pandemia, è vero, condiziona le nostre vite. Lo fa in tanti modi diversi, di cui leggiamo quotidianamente. C’è un filo comune in questo disastro, a mio modo di vedere: con la cessazione del quotidiano, si fanno largo silenzio e pensieri, e la costrizione a concedere loro spazio, da una parte; dall’altra, prevale la forza tutta umana di chiuderci alla vita. Dentro di noi ci sono almeno un Ulisse e un eremita. Una spinta alla vita, alla conoscenza, a rispondere alla paura con il coraggio, e la tentazione altrettanto forte di chiuderci in noi stessi, rinunciare al brivido e lasciare che la pulsione claustrale soffochi la vita.

“in fondo il nevrotico è uno che preferirebbe vivere in convento”

Freud

In questo senso quei limiti che poco ci piacciono, gialli, arancioni e rossi, in realtà rappresentano una grande occasione per guardarci allo specchio. La pandemia ha solo portato a galla le nostre contraddizioni, la nostra irrinunciabile ambiguità. Mi succede quando mi scordo di piangere. Quando rinuncio alla pienezza dei momenti in cui incespico, perché potrebbe essere troppo, darmi a nausea, mettermi di fronte alla strada incerta ma possibile della felicità. Fuggo, a volte non solo figurativamente. Non ho mai dubbi su cosa scegliere, il mio amato raziocinio.

Eppure, è nello sconfinamento che si rivela la vita. Il confine non è un limite, non solo. Recalcati lo definisce “poroso”, capace cioè di lasciare che l’altro, il diverso, possa attraversarlo e fare sì che mio e tuo si incontrino. A pensarci, è la figura più democratica che conosca, capace di usare la parola come strumento di incontro, mettendo all’angolo ogni forma di aggressività, sospendendo ogni violenza. Quella che – s’intende – faremmo a noi stessi, rinunciandovi.

Siamo i fascisti del nostro respiro. Ma come si risolvono due anime uguali e contrapposte? Beh, la paura non va ricacciata. Questa mattina, ho ricevuto da mio padre la foto delle nostre piante, davanti casa. Il seme di girasole piantato tempo fa, finalmente aveva trovato modo di generarsi. L’ho affidato a lui perché potesse farlo crescere, qui non avrebbe potuto godere del sole che richiama per natura. Così, è diventato chiaro: la vita giusta è quella capace di generare. Sarebbe un peccato non avere fede nel proprio desiderio di vita.

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