Ma ve la immaginate la fine?

Si è alzato un gran vento anche qua. Mi dicono che è raro sulla bassa, eppure niente equinozio quest’anno. Una folata ha spezzato i petali degli alberi di pesco sotto casa e il cielo si è ingrigito. Tocca aspettare per celebrare la nuova stagione. Incautamente avevo osato tirare fuori la giacca in ecopelle che a conti fatti – tra cambiamenti climatici, restrizioni e ritorni verso sud – metterò un paio di settimane l’anno.

Pure l’armadio vive in attesa di un liberi tutti finale, la caduta del muro di Berlino, lo sbarco in Normandia, l’incontro di Teano, il trattato di Versailles, il ritorno a casa di Ulisse, insomma quel momento lì, quello simile all’esultanza di Grosso in Italia-Germania 2006, l’abbraccio di Pirlo a Cannavaro dopo l’ultimo rigore, l’ultima campanella di giugno a scuola. Come sarà quando sarà finita? Chi ce lo dirà? Da chi andremo?

Magari non ce ne accorgeremo neanche, butteremo via le mascherine e basta, senza nessun rito o esultanza. Ci diremo salvi con i traumi addosso o negheremo che sia finita. A un certo punto insomma, ci potremo permettere di non avere razionalmente nessuna paura. E scopriremo di averle comunque. Ci sarà per tutti quel parente o amico che ci dirà di non esagerare, ci sentiremo pure un po’ scemi, alienati, confusi. Invecchiati sicuro. I pub avranno un appeal diverso, prevedo un innalzamento dell’indice di acquisto per attrezzatura da montagna e camminata nordica, i più audaci si saranno dati all’alpinismo, compreremo una canoa e saremo disposti a portarla in spalla, pur di dare due bracciate lontano, verso l’orizzonte dove ogni libertà viene ricomposta, torna legittima, e il mondo accenna le sue forme tondeggianti. I rumori, quelli torneranno sicuro, quelle dannate auto a tutte le ore del giorno e della notte.

Rimpiangerò la campagna, la sua quiete un po’ povera, il suo spirito piatto, sempre disposta a rivoltare la terra di cui è fatta. Comprerò dei vestiti, perché ne avrò messi via altri. E non guarderò solo tute, ma oserò nuovi outfit e colori. Ci saranno molti treni, lo giuro. E forse un abbonamento al teatro, monologhi. Monologhi di donne attrici che mi piacciono. Le seguirò sui social. E poi andrò a sentirle dal vivo. Concerti pure, una band magari. Un indie strappalacrime per ricordarmi che non ho più vent’anni anche se sarò in mezzo a ventenni. Ah, poi voglio esagerare: troverò il lavoro che mi piace. Inizierò da stagista e poi mi farò valere, sì. Non sarà necessario coltivare più nessun sogno, perché sarò in perfetta armonia tra la realizzazione di me e il mio conto in banca.

Quanto al cibo, sentite, parliamoci chiaro: ma chi ce l’avrà il tempo di cinque pasti al giorno e di salvare tutti i post sulle idee per una colazione a dieta! Mangerò equilibrato, sostenibile e non comprerò carne al supermercato. Ma mangerò quello che mi pare e soffriggerò sedano, carote e cipolle a piacimento. Impasterò per il gusto di impastare, e devo assolutamente comprare uno sbattitore e un frullatore a immersione, perché altrimenti sei un sacco limitato. Non puoi essere sempre creativo. Serve una zona franca dall’estro, un posto per continuare ad annoiarmi. Tipo la coda. Ridatemi una sala d’attesa dove poter osservare la gente e le sue stranezze. Scambiarsi un sorriso d’intesa, attaccare bottone. Ma quand’è che avete attaccato bottone l’ultima volta?

Servirà una piazza. Sì, vi prego. Tocca farci un evento e che accorra molta gente curiosa. Una sagra, un sabato sera di quelli che almeno per due ore non prendi in mano il telefono. Se fai una storia ti taglio le mani! Stai qua, con me, guarda quello: ma perché porta le basette così? Avrà visto Bridgerton…Accenderò il pc solo quattro ore al giorno e piuttosto vado a fare capanne con i miei cugini piccoli. Giro di Sicilia, ma pure a piedi guarda. Datemi la Via Francigena e sarò Fidippide, solo che sarò l’ultima maratoneta. Se dobbiamo ringraziare la realtà aumentata, io voglio essere diminuita, voglio abbassare il volume, e giuro che ci sarà una serie solo se potrò comparire nei titoli di coda. Comparsa? No, autrice zì. Minimo, minimo racconterò storie senza pilot e senza conclusioni…

Farò una tournee. Sarò groupie di me stessa. La road map sarà segnata da ogni capolinea di treno (ma solo se mi sponsorizza Trenitalia). Farò un reportage e lo titolerò: fino alla fine dei binari. Gli ultimi saranno i primi e per ogni stazione chiederò a un passante: lei si sente più destinazione o partenza a vivere qui? Insomma, più immagino la fine, più prende la forma di nuovo inizio.

I miei pensieri alfa privativo

Si fa un sacco fatica a restare lucidi e proiettati su attività e obiettivi di questi tempi. Ci sentiamo tutti un po’ sospesi, in balia di condizioni esterne mutevoli, voci calate dall’alto, regole, assenza di programmi, figli per casa, e case che si svuotano. Decine e decine di annunci inondano le bacheche dei gruppi autogestiti a Parma. Gli inquilini lasciano le stanze, ma sembra che gli annunci restino appesi ad ammuffire anche nello spazio ingannevole di Facebook. Non c’è compravendita, non ci sono scambi, desideri, missioni, scadenze. Eppure, so per certo che non manca chi progetta. Lauree imminenti, chi sottoscrive assicurazioni, chi ringrazia di avere l’agenda piena di lavoro, chi prova a rendere concreta la sua idea di comunicazione.

Ci sembra che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente, che la pandemia abbia stravolto le carte in tavola, setacciamo le cose attraverso un prima e un dopo, ma così facendo sbagliamo focus. La pandemia ha solo tirato lo sciacquone di un cesso già otturato e finalmente ci siamo accorti della melma venuta a galla. Truce, lo so. Limiti, problemi, inquietudini c’erano anche prima. L’isolamento, le privazioni, le chiusure, la paura, la malattia, lo stato d’emergenza generale, la diffidenza, hanno solo scoperchiato tutto il sommerso. A quel punto, osservando quello che mi circonda, ascoltando gli amici, interagendo con le persone (attraverso un dannato schermo), mi sono accorta sostanzialmente che ci siamo divisi in due gruppi: chi annaspa o è rimasto invischiato e chi si è tappato il naso provando a nuotare.

Oh! Le frasi che ho sentito dire più spesso tra i miei contatti, non a caso, sono due: “a me in fondo è cambiato poco” oppure “non mi sento più lo stesso”. Insomma, qualcuno rigetta ancora il riflesso che questo tempo, come uno specchio, offre di sé. Altri invece, hanno intrapreso uno straordinario viaggio di ricerca. Un po’ come quando scopri di abitare la foto che qualcun altro ha scattato, immortalando un momento di te che altrimenti avresti perso. Oggi mi è stato restituito un frammento della mia storia che non sapevo di avere. Sono finita per caso nel grandangolo di una macchina fotografica, avevo tre anni e, provando a ricostruire il contesto, avrò accettato l’invito di mia zia ad andare a vedere il saggio di mio cugino più grande che suonava il flauto. C’è una bimba dagli occhi grandi e la frangia a coprire la fronte, seduta, da buona, tra i grandi. Sono io, contenuto speciale del film della mia infanzia, inedito. Si prova tenerezza di fronte alle parti bambine sé – “una specie di tenerezza tragica”, l’ha chiamata Anna – Sono io che manco a me stessa.

A strappar via i pezzi di storia comunque, siamo bravi anche da grandi. Ho sempre fretta, un bisogno spasmodico di saltare a conclusioni e leggere gli eventi nell’ordine e nel senso che vorrei. Senza concedermi l’agio dell’accoglienza. Entro a gamba tesa sulle cose, penso di conoscere già gli esiti, e non lascio spazio alla sorpresa. Sono i miei pensieri alfa privativo: quelli che negano o denotano assenza di senso. Perché è facile reputare sbagliato quello che altrimenti dovremmo conoscere. Non mi fido. Zero. Neanche di me stessa. Almeno fino ad ora. La musica (leggerissima) sta cambiando. Sarà per quell’esercizio che ormai da un anno faccio, di mettere in discussione ogni cosa e scrivere pezzi inediti della storia. Sarà che la prossima imminente zona rossa sarà battuta a suon di bibliografia e prato nei pressi di casa. Sarà che il sole, almeno, dovrebbe essere alleato, e ci sono i pensieri da dare e da ricevere a scaldare il cuore. Non ammattiremo neanche stavolta.

Mi scordo di piangere

Le limitazioni hanno fatto capolino nei miei sogni. Qualche giorno fa, nel mio onirico mi trovavo in una elegante sala da tè, arredata in stile vittoriano. Roba da ricchi, insomma. Cosa ci facessi lì è alquanto dubbio, ma senza lasciarmi condizionare dal contesto formale, intendevo sorseggiare la mia bevanda calda che ultimamente ha trovato concorrenza nello Spritz, costretto ad anticipare i suoi orari classici.

La cameriera, esile e anziana, ma decorosa, nel porgermi la tazza si è avvicinata al punto da sfiorare la mia faccia. Sebbene spiazzata da quell’infrazione, non ho protestato. Del resto, un attimo dopo, stavo bevendo il tè dalla tazza della mia amica di fianco. Anche stanotte, nel pieno vagabondare nel mio inconscio, al ristorante la tavolata era enorme e ritrovarsi con gli amici sapeva di festa, ma con il divieto di contatto. Limiti tutti mentali. Non ci sono nastri che delimitano i confini come su una scena del delitto, c’è solo la paura.

La pandemia, è vero, condiziona le nostre vite. Lo fa in tanti modi diversi, di cui leggiamo quotidianamente. C’è un filo comune in questo disastro, a mio modo di vedere: con la cessazione del quotidiano, si fanno largo silenzio e pensieri, e la costrizione a concedere loro spazio, da una parte; dall’altra, prevale la forza tutta umana di chiuderci alla vita. Dentro di noi ci sono almeno un Ulisse e un eremita. Una spinta alla vita, alla conoscenza, a rispondere alla paura con il coraggio, e la tentazione altrettanto forte di chiuderci in noi stessi, rinunciare al brivido e lasciare che la pulsione claustrale soffochi la vita.

“in fondo il nevrotico è uno che preferirebbe vivere in convento”

Freud

In questo senso quei limiti che poco ci piacciono, gialli, arancioni e rossi, in realtà rappresentano una grande occasione per guardarci allo specchio. La pandemia ha solo portato a galla le nostre contraddizioni, la nostra irrinunciabile ambiguità. Mi succede quando mi scordo di piangere. Quando rinuncio alla pienezza dei momenti in cui incespico, perché potrebbe essere troppo, darmi a nausea, mettermi di fronte alla strada incerta ma possibile della felicità. Fuggo, a volte non solo figurativamente. Non ho mai dubbi su cosa scegliere, il mio amato raziocinio.

Eppure, è nello sconfinamento che si rivela la vita. Il confine non è un limite, non solo. Recalcati lo definisce “poroso”, capace cioè di lasciare che l’altro, il diverso, possa attraversarlo e fare sì che mio e tuo si incontrino. A pensarci, è la figura più democratica che conosca, capace di usare la parola come strumento di incontro, mettendo all’angolo ogni forma di aggressività, sospendendo ogni violenza. Quella che – s’intende – faremmo a noi stessi, rinunciandovi.

Siamo i fascisti del nostro respiro. Ma come si risolvono due anime uguali e contrapposte? Beh, la paura non va ricacciata. Questa mattina, ho ricevuto da mio padre la foto delle nostre piante, davanti casa. Il seme di girasole piantato tempo fa, finalmente aveva trovato modo di generarsi. L’ho affidato a lui perché potesse farlo crescere, qui non avrebbe potuto godere del sole che richiama per natura. Così, è diventato chiaro: la vita giusta è quella capace di generare. Sarebbe un peccato non avere fede nel proprio desiderio di vita.

I 14 giorni di Irene (Parte II)

I 14 giorni parte II

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Quarantena, giorno 12

Sarebbe stata una giornata quasi buona, se qualcosa non mi avesse ricordato il pericolo che ancora corro. Hanno citofonato i Carabinieri intorno alle 18, sono scesa di corsa per le scale e oltre la soglia ho visto il militare con la mascherina, una torcia puntata su dei documenti e lo sguardo serio. «Rimanga lì », mi ordina prima di poter fare un passo di troppo verso di lui. In quell’istante ho realizzato che non serviva a niente il mio sorriso rassicurante, tutt’altro, sarò sembrata una scema delle tante che minimizza la situazione. 

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), completo delle sue parti.

I 14 giorni di Irene (Parte I)

I 14 giorni di Irene

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Quarantena, giorno 1

Strano, stranissimo. La mia famiglia e i miei amici sono a pochi metri da me, ma non siamo mai veramente insieme. È come abitare ancora lontano ma è più difficile, perché adesso ti è vietato stare con loro. Non lo hai scelto, è capitato. Ma tant’è, mentre montavo la caffettiera questa mattina ho fatto caso agli odori di una casa nuova, l’ennesima. Gli utensili da cucina ancora brillanti, fatto salvo per quel po’ di ruggine sui coltelli, il tegame troppo grande dove far saltare gli spaghetti almeno per quattro, magari di notte in piena estate, dopo un giro di tarantella alla Torre. Un altro torto dell’epidemia, ti frega il sollievo del tempo che verrà, si sbiadisce nell’incerto e fin troppo favolistico avvenire. Ci saremo, sì, carne ed ossa, ma quale pezzo delle nostre anime avremo lasciato qui? Il telefono ha squillato incessantemente oggi. « Sto bene » è il ritornello che ha scandito le ore.

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), completo del prologo e della prima parte.

I 14 giorni di Irene (prologo)

I 14 giorni di Irene

Se dicessi che è capitato per caso, mentirei. L’ho voluto, assai.
Lasciare andare il flusso di pensieri e le emozioni vissute nei giorni in cui tutto è precipitato, a marzo, sarebbe stato un enorme aborto.
Così mi sono messa a scrivere, e scrivere e scrivere.
E più passavano i giorni rinchiusa obbligatoriamente più avevo bisogno di andare altrove.
Altrove, dentro di me.

Vivere da non contaminati è la storia più silenziosa e letale che potesse capitare a molti. Non volevo si riducesse a una non vita però. Per queste ragioni è nato “I 14 giorni di Irene”, il mio primo racconto breve.

Irene, evidentemente mio alter ego, è in isolamento nel suo paese di nascita. Dopo un rocambolesco rientro, nella notte tra il 7 e l’ 8 marzo, si è autodenunciata e trascorre i 14 giorni di quarantena obbligatoria in un appartamento di amici di famiglia. I suoi le hanno fatto trovare scorte dietro la porta e dal balcone saluta velocemente gli amici ritrovati. Finché la quarantena non diventa per tutti. Le angosce, le paure e le incertezze trovano posto in un diario, in cui ogni giorno appunta i propri pensieri.

Sto rendendo pubblico un pezzo della mia anima, forse anche più. Per quanto il racconto prenda in alcuni punti la strada dell’invenzione, resta soprattutto autobiografico. Ciò detto, è con enorme orgoglio, presunzione e cagotto che lo rimetto alle vostre letture, perché diventi nostro.

I 14 giorni di Irene è disponibile su Wattpad (clicca qui per leggere), dove trovate già il prologo. Lo pubblicherò in tre parti.