Your job, our text, one pic

Quanto può distare il Pakistan da qui? Molto meno di quanto immaginiamo, se programmi un viaggio da te all’altro capo della strada, dove puoi trovare un pozzo di storie sognanti: fatte da esseri qualunque.

La primavera ha in serbo sempre più chance di incontri, più incroci ai semafori e giornate che negoziano la loro fine con il sole più a lungo. Quando abbiamo deciso di sfidare quegli incroci, di tallonare quelle strade, in realtà, non avevamo un’idea precisa di quello che sarebbe successo. Ho messo le scarpe comode, un piumino da 100 grammi per la sera e ho preso la macchina fotografica che ad aprile avevo chiesto a mia sorella in prestito, immaginando che a un certo punto, mi sarebbe tornata utile. Non so usarla, non ho mai veramente capito come ottenere un’esposizione corretta, ma mi ero fatta forte dell’idea che i tecnicismi sarebbero stati secondari, non sapevo che forma avrebbe assunto la bellezza in questa storia.

Alle 20 del 10 maggio Piazzale Corridoni a Parma si stava lentamente svuotando: il libero professionista sulla bici, con il vestito buono e lo zaino in spalla imboccava Via Nino Bixio, la salumeria all’angolo abbassava la saracinesca, gli autobus 1, 5 e 6 percorrevano le ultime corse. Sulla soglia del locale semibuio, una donna di mezza età era appoggiata alla porta fumando una sigaretta, i capelli legati, il grembiule sul ventre, nonostante tutto, il volto segnato da ottimismo. Ero arrivata puntuale sul posto mentre, come al solito, Raffaele tardava – “Vez sto arrivando” – riproduceva l’audio su WhatsApp. Si stava perdendo già il primo atto. Sapevamo che a un certo punto sarebbero rimasti in scena gli unici personaggi a cui eravamo realmente interessati quella sera, sapevamo dove trovarli, ci eravamo già caricati di immagini mentali, come quando vai a scuola preparato perché se ti interroga la sai, sensazione spesso a me sconosciuta, così pervasa dall’insicurezza. Non avevo ancora abbassato il cavalletto della mia Eusebi, quando mi piantai nel bel mezzo del marciapiede, invadendo volontariamente lo spazio di un ragazzo che di lì a poco sarebbe ripartito con il suo Glovo pieno di pizze. Era piuttosto basso, indossava dei pantaloni in stile militare, un giubbotto e un passamontagna grigio, vecchio, o forse era solo un pezzo di lana bucato sul naso e sugli occhi. Il monopattino di Raf frena accanto a me, gli faccio segno con lo sguardo, e riconosciamo entrambi il soggetto: il rider perfetto.

Piazzale Corridoni – Parma, maggio 2021

Dovevamo tornare a casa entro poche ore con un certo numero di scatti. E per farlo, andavano oltrepassati molti limiti, su tutti: noi stessi. La sfida era tutta lì, in quella distanza tra noi e il Pakistan, tra noi e il ragazzo che per tutta la sera rimase senza nome. C’era un solo modo per farlo entrare nel racconto che volevamo costruire, chiedergli di partecipare. E c’era solo un codice possibile per farlo: non le parole, non le promesse, ma gli occhi. Era l’unica cosa che quel ragazzo con lo zaino giallo Glovo, concedeva di sé al mondo circostante. Abbiamo varcato la soglia di qualunque cosa fosse quella resistenza estrema all’altro e lo abbiamo salutato. Abbiamo impostato la conversazione sul nostro inglese scolastico, mischiato all’inglese della strada di chi arriva in Italia da ogni parte del mondo “in via di sviluppo”. E non è andata bene. Chissà quanta distorsione sarà intercorsa tra lui e noi in quelle poche battute. Your job, our text, one pic. Non ricevemmo un semplice no, non ci ha voltato le spalle, ma abbiamo visto la paura crescere nei suoi occhi. C’era di più, ma mi sembrava un azzardo lavorare d’immaginazione; di certo, nel suo sguardo non esisteva inganno, ma un profondo sentire, un profondo sentire angosciato.

Un po’ scossi, siamo tornati a darci la carica. I locali di Via D’Azeglio, da qualche settimana, erano tornati ad accogliere gente all’esterno, ma le commesse da casa non sembravano affatto diminuite. Su e giù fino a Piazzale Santa Croce, erano almeno una decina i rider impegnati a soddisfare tutti gli ordini: nel giro di pochi minuti abbiamo conosciuto Mohammed, molto disponibile e divertito dall’idea che la sua storia potesse in qualche modo destare interesse. Ci ha mostrato lo smartphone con le notifiche, le mappe di Google pronte a indicargli la destinazione e il suo sorriso direi inossidabile. A lui abbiamo scattato le nostre prime foto, ricevendo in cambio non solo quadri e scene ma anche una dose inaspettata di adrenalina che non è più calata per il resto della nostra ricognizione fotografica. A dire il vero, non avevamo un’idea precisa di cosa avremmo voluto realizzare, il progetto ha preso forma poco alla volta, dopo i primi momenti quasi di smarrimento. Non era possibile far convergere la nostra immagine con la realtà, era la realtà che avrebbe ispirato noi. Proprio come quando ci mettiamo lì a spulciare articoli, documenti e report per ricavarne una sola storia, per quanto ricca di spin-off. Piena al punto da obbligarci a selezionare, escludere, rinunciare se necessario. Su Viale Mentana per esempio, avremmo potuto riprendere un rider completamente perso, con una consegna da far giungere al lato opposto della città. Ci siamo limitati a dargli delle indicazioni, comprendendo in quei secondi tutto il disagio di un’occupazione che in fondo è lo specchio della nostra società: si affida totalmente ai mezzi, ne rimane assuefatta fino alla dipendenza, e su essa costruisce ogni possibilità. Le piattaforme digitali che assumono i ciclo fattorini si fondano in toto sull’azione trasparente del digitare: scelgo un ordine dalla mia app, che diventa commessa, che diventa spedizione. Priva di ogni interazione umana.

Riders in Piazza Garibaldi – Parma, maggio 2021

Siamo andati a caccia dell’invisibile e ci abbiamo trovato dietro persone. Come Umar, 30 anni, seduto sotto la statua di Piazza Garibaldi in attesa delle ultime notifiche. Sotto il casco giallo e la mascherina aderente al volto, la fisicità greca di un amatore dell’arte marziale, col sogno di tornare a casa per completare i suoi studi da videomaker. Ci ha anche fatto vedere qualche suo montaggio; mostrava i suoi capelli lunghi e neri, raccolti solo temporaneamente in un codino durante il lavoro. Era uno dei più attrezzati, considerato quanto spesse fossero le ruote della sua bici. Jawed ci ha detto poco, ma nella posa naturale fermo al semaforo, ha rivelato ogni cosa. Mohammed (un altro) non voleva prestarsi al ritratto, si è anche allontanato da noi, per poi tornare. Ho capito cosa avesse fatto scattare in lui la voglia di mettersi in gioco solo quando mi ha chiesto di mandargli le foto che lo riguardavano. Sanno che spesso i giornali si occupano di loro, che se ne parla in virtù del groviglio normativo che non viene fuori dall’impasse autonomo/subordinato. Ma in quel momento, voleva solo far vedere alla sua famiglia laggiù lontana che qui ce la sta facendo.

Nel frattempo, anche l’adrenalina per noi era diventata un travaglio. Nessuna storia ci sembrava uguale all’altra per quanto si intravedesse un filo comune: sono quasi tutti uomini che lasciano una terra in cui le istituzioni li abbandonano, per approdare in altre in cui le istituzioni permettono che vengano schiavizzati. Il dato simile, in ogni caso, è rappresentato dalla straordinaria fiducia che evidentemente ripongono in loro stessi. Non sono poveri disgraziati, ma ricchi avventurieri. L’uomo è artefice del proprio destino solo finché il destino lo colloca nella parte giusta del mondo. La storia più bella, a mio avviso, resta quella che non abbiamo raccontato. Andare a fondo, si è rivelato più difficile di quanto potessimo immaginare, oltre l’empatia che in qualche modo abbiamo instaurato – forse per la simpatia che potevamo evocare su e giù per Strada Repubblica a bordo di una sgangherata bici da passeggio e di un monopattino che si scarica in fretta – alcuni volti sono rimasti lontani dall’obiettivo. Abbiamo rivisto il ragazzo con lo zaino giallo a fine serata, lo abbiamo salutato sotto il porticato di Via Mazzini, tirando dritti per la nostra strada, quando ci ha chiamato indietro: “Sorry, I can’t” – stavolta non c’era paura nei suoi occhi, ma la stessa inconfondibile angoscia. “Don’t worry” – replicai con la voce rotta per la commozione, prima di chiedergli come fosse andata la sua serata di lavoro. Aveva guadagnato bene: 15 euro.

Un po’ rotta anche io, a quel punto, sentivo di avere in me tutto il Pakistan del mondo, ma di poterlo guardare ancora solo da lontano. Avevo le mani sporche di grasso per essermi poggiata a terra, sudate dopo averle tenuto a lungo sui manubri della bicicletta, ottanta foto sbagliate sulla memoria della reflex, e una profonda gratitudine verso il mestiere più contraddittorio e bello che potessi scegliere per me: raccontare.

Nelle scorse settimane, abbiamo completato il nostro lavoro: Into the night è il reportage che racconta la condizione dei rider, provando a spiegarne il fenomeno attraverso gli sguardi dei ciclo fattorini che abbiamo incontrato, e che si sono fermati a parlare con noi, condividendo le loro esperienze. Le foto sono state scattate nel mese di maggio 2021 a Parma. Il reportage è stato realizzato su richiesta del docente del corso di Giornalismo dell’Università di Parma, Marco Gualazzini, stimato fotoreporter, al fine del superamento dell’esame integrato in un insegnamento del corso. Le foto abbinate a questo post, non fanno parte della selezione.

Padella, curcuma e ahahah

compleanno

Mi sono alzata felice di cucinare, questo è quanto. La storia si è svolta in modo molto semplice: ho messo gli ingredienti sul tavolo in modo da non dimenticare nulla e dieci minuti dopo i cookies erano in forno. Nel frattempo, mescolavo il latte con lo zucchero, la maizena e gli aromi, Spotify lanciava indie pop e arrivavano i messaggi. Poi sono arrivati Sami e Giorgia per aiutarmi a tagliare le verdure e la cucina si è accesa, diventando casa.

C’è una sottile ironia nel trascorrere del tempo sano e felice in casa, dopo che la casa a lungo ha rappresentato per tutti noi quando una prigione, quando l’eco preponderante dei nostri pensieri. Ma c’è una differenza sostanziale nel tempo di oggi: la casa è tornata ad essere il luogo dell’ospitalità. Ho trascorso il mio compleanno spadellando, insieme con l’antagonista per eccellenza della mia vita, il cibo. Il forno e i fornelli oggi, non erano solo gli accessori per soddisfare un bisogno, ma un mezzo per condividere spazio, momenti e ricordi da costruire. Attorno alla tavola si è adunato il piacere della buona compagnia e il mio desiderio ha incontrato il suo migliore soddisfacimento.

Questa notte, in uno dei pochi messaggi che ha colto l’occasione di buttare giù due parole per un augurio di buon compleanno, una cara amica mi ha ricordato che mentre molti si sono attanagliati sui fusti, io ho scelto il ramo esposto al vento in questo tempo avverso. Vero. Potevo stare tra le mie certezze, usare i codici conosciuti e svolgere i miei compiti soliti. Potevo scegliere di non rischiare la solitudine. Non ho mai avuto il dubbio però, che il vuoto di certi giorni qui fosse solo l’anticamera di un tempo nuovo. Ehi, c’è una piccola famiglia anche qui ora: nella bellezza di un abbraccio spontaneo rubato alla paura. Siamo sopravvissuti a una tempesta oltre la quale il sereno ha squarciato le nubi di primavera. Seria: se l’impossibilità del contatto è stato il prezzo da pagare, l’occasione di riprenderci il sublime dell’incontro non è andata persa.

Siamo diversi. Siamo distanti. Siamo irraggiungibili. Ciò che ci sembra sovrapponibile a noi, è solo il più prossimo dei diseguali. Per questo, mettersi insieme è una festa: perché abbiamo scavalcato un recinto dove è possibile danzare. Non sono felice perché è stato il mio giorno, ma perché è stato un giorno condiviso. Trovo che ci sia una straordinaria libertà nel volere porre fine anche all’euforia di un giorno. Forse è questo che vuol dire per me crescere: la mia più cara amica mi ha videochiamata dai corridoi di un ospedale, in un momento di quiete per poter condividere con me i più futili e veri pensieri. Un apprezzamento per il mio seno, un apprezzamento per il suo scrub, un apprezzamento per la nostra riscoperta volontà di non dare troppo senso alle cose e nella leggerezza raccoglierlo invece tutto. Siamo cresciute e diamo peso all’infinitesimale poco che fa di noi l’essere essenzialmente due qualunque donne pensanti.

Non avevo abbastanza forchette, così io ne ho presa una di plastica lavabile. Ho mangiato le fragole, che non avevo mai mangiato perché per lungo tempo ero rimasta ferma nella convinzione infondata che non mi piacessero. L’alcool mi smonta subito lo stomaco e non c’è troppa grazia nelle mie labbra truccate, se sto sorseggiando del vino. Chiunque poteva lavare i piatti e usare la mia stanza. Ho accolto festante tutti i miei zii al telefono pian piano vaccinati. Crescere è avere premura, pensiero, preoccupazione, riguardo. Crescere implica il rispetto per ciò che conta e la più totale relatività per un messaggio mancato. Non mi importa essere raggiunta, importa che io sia vista e che io veda.

Lo spazio per l’inaspettato non conosce formalità. Grazie e auguri, di cuore.

Le ragazze a Parma sono belle eh

La bici consente di andare alla giusta velocità: è abbastanza celere per passare inosservato, ma va piano a sufficienza per intercettare stralci di conversazione tra passanti.

Come oggi, appena immessa su Ponte Italia in direzione Oltretorrente, sono passata davanti a due ragazzi, saranno stati ventenni, l’età giusta per i primi assaggi di libertà in città.

Il tempismo, la sorte, o semplicemente le mie gambe troppo stanche per una spinta lunga sui pedali, hanno voluto che sentissi, di tutto un discorso chissà quanto audace, proprio quella frase.

Le ragazze a Parma sono belle.

Niente di strano. Posso immaginare sia verosimile anche una conversazione analoga, ma al maschile e che da qualche parte, sul LungoParma, due ragazze – magari due matricole appena arrivate in città – commentando i possibili scenari relazionali scaturibili dalla promettente giovinezza, abbiano detto:  “I ragazzi a Parma son belli eh…”.

Ero lì lì per frenare, fermarmi e intervistare i tipi, per approfondire un tema che appariva così leggero e libertino, ma la bici è abbastanza celere per passare inosservati, e portarmi distante, con quella supposizione mai argomentata nella mia testa: “Le ragazze a Parma sono belle eh….”

Ho provato a darmi alcune possibili spiegazioni mentre facevo slalom tra le persone sulla ciclabile di Viale Milazzo.

Forse è per via di quello che mangiano da piccole, il latte forse. Magari parlavano della tipica ragazza iperborea, graziata da Dio per aver ricevuto in dote capelli chiari, pelle chiara, insomma tutto chiaro (provate ad andare in giro pallide dalle mie parti…).

Forse sono i tratti di chiara origine vichinga che promettono aristocratiche discendenze. Forse c’era qualcosa di assolutamente fondato in quella asserzione.

Sensato nei confini di una realtà che è ancora l’unica che puoi conoscere a 20 anni. 

Mi domando se saltano sui treni, e segnino le loro road map sulla base di certezze antropologiche che vogliano a Parma le belle, a Bologna le intelligenti, a Rimini le scapestrate e via dicendo. Chissà.

Mi ricorda i miei anni al liceo, sul piazzale della stazione centrale in attesa del bus. Chiarissime evidenze fenomeniche del resto, stigmatizzavano chiunque arrivasse dalla montagna.

Quelle col dizionario in mano erano la minoranza mai in rivolta.

Ma mai niente poteva superare lo squalificante etichettamento per le ispide, sgraziate e rozze ragazze di Cerda.