I miei pensieri alfa privativo

Si fa un sacco fatica a restare lucidi e proiettati su attività e obiettivi di questi tempi. Ci sentiamo tutti un po’ sospesi, in balia di condizioni esterne mutevoli, voci calate dall’alto, regole, assenza di programmi, figli per casa, e case che si svuotano. Decine e decine di annunci inondano le bacheche dei gruppi autogestiti a Parma. Gli inquilini lasciano le stanze, ma sembra che gli annunci restino appesi ad ammuffire anche nello spazio ingannevole di Facebook. Non c’è compravendita, non ci sono scambi, desideri, missioni, scadenze. Eppure, so per certo che non manca chi progetta. Lauree imminenti, chi sottoscrive assicurazioni, chi ringrazia di avere l’agenda piena di lavoro, chi prova a rendere concreta la sua idea di comunicazione.

Ci sembra che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente, che la pandemia abbia stravolto le carte in tavola, setacciamo le cose attraverso un prima e un dopo, ma così facendo sbagliamo focus. La pandemia ha solo tirato lo sciacquone di un cesso già otturato e finalmente ci siamo accorti della melma venuta a galla. Truce, lo so. Limiti, problemi, inquietudini c’erano anche prima. L’isolamento, le privazioni, le chiusure, la paura, la malattia, lo stato d’emergenza generale, la diffidenza, hanno solo scoperchiato tutto il sommerso. A quel punto, osservando quello che mi circonda, ascoltando gli amici, interagendo con le persone (attraverso un dannato schermo), mi sono accorta sostanzialmente che ci siamo divisi in due gruppi: chi annaspa o è rimasto invischiato e chi si è tappato il naso provando a nuotare.

Oh! Le frasi che ho sentito dire più spesso tra i miei contatti, non a caso, sono due: “a me in fondo è cambiato poco” oppure “non mi sento più lo stesso”. Insomma, qualcuno rigetta ancora il riflesso che questo tempo, come uno specchio, offre di sé. Altri invece, hanno intrapreso uno straordinario viaggio di ricerca. Un po’ come quando scopri di abitare la foto che qualcun altro ha scattato, immortalando un momento di te che altrimenti avresti perso. Oggi mi è stato restituito un frammento della mia storia che non sapevo di avere. Sono finita per caso nel grandangolo di una macchina fotografica, avevo tre anni e, provando a ricostruire il contesto, avrò accettato l’invito di mia zia ad andare a vedere il saggio di mio cugino più grande che suonava il flauto. C’è una bimba dagli occhi grandi e la frangia a coprire la fronte, seduta, da buona, tra i grandi. Sono io, contenuto speciale del film della mia infanzia, inedito. Si prova tenerezza di fronte alle parti bambine sé – “una specie di tenerezza tragica”, l’ha chiamata Anna – Sono io che manco a me stessa.

A strappar via i pezzi di storia comunque, siamo bravi anche da grandi. Ho sempre fretta, un bisogno spasmodico di saltare a conclusioni e leggere gli eventi nell’ordine e nel senso che vorrei. Senza concedermi l’agio dell’accoglienza. Entro a gamba tesa sulle cose, penso di conoscere già gli esiti, e non lascio spazio alla sorpresa. Sono i miei pensieri alfa privativo: quelli che negano o denotano assenza di senso. Perché è facile reputare sbagliato quello che altrimenti dovremmo conoscere. Non mi fido. Zero. Neanche di me stessa. Almeno fino ad ora. La musica (leggerissima) sta cambiando. Sarà per quell’esercizio che ormai da un anno faccio, di mettere in discussione ogni cosa e scrivere pezzi inediti della storia. Sarà che la prossima imminente zona rossa sarà battuta a suon di bibliografia e prato nei pressi di casa. Sarà che il sole, almeno, dovrebbe essere alleato, e ci sono i pensieri da dare e da ricevere a scaldare il cuore. Non ammattiremo neanche stavolta.

Neve in Val Padana e gravidi pensieri

Ho chiesto alla mia coinquilina di Trento come la facesse sentire la neve, lei che la conosce. <<Come a te il sole, Sofi>>.

Il sole illumina, scalda – ho pensato ad alta voce – mi sembra che renda le giornate più piene. Anche la neve è così secondo lei. Finito di sciacquare la tazza della colazione, la poggia sul ripiano del lavandino a scolare, prende il canovaccio e incalza alle mie spalle, mentre cerco risposte oltre il vetro della cucina – fuori un tappeto bianco e gli alberi spogli. <<La neve è bella, guardala, non è come la pioggia, la pioggia fa schifo>>.

Credo che la neve sia semplicemente straordinaria. E non mi stupisce tutto questo clamore attorno, compreso il mio. La neve è un pretesto: per buttare un occhio al calendario e accorgersi che solo due mesi fa ero altrove, sentivo altre cose e i miei pensieri si accordavano a un coro diverso. Bauman dice che la costruzione dell’identità non è un processo cumulativo, piuttosto sembra un succedersi di nuovi inizi, ed è guidata dalla capacità di dimenticare, più che da quella di apprendere e memorizzare. Così, ciò che ho acquisito – a quanto pare – è solo temporaneo.

E oggi sono in un altro processo. Ad affrancarmi dalle videochiamate pressanti e deprivanti di questo tempo (non le sopporto più). A reggere con fatica lo sguardo di chi, come me, non sa che succederà dopo la concessione di un Natale in famiglia. Se sarà possibile programmare un rientro o se passeranno mesi come l’ultima volta. Se tra presente e futuro, toccherà ancora coniugare al tempo attendere. Neanche la neve mi ha restituito risposte, nonostante la sua straordinaria normalità.

Mentre facevo la ciaspolata per strada, avendo cura di non rompermi la faccia scivolando sul ghiaccio, mi riscoprivo nuova ancora una volta: così esperta di sole e luccichii sulla superficie del mare, mi ritrovo a selezionare outfit per l’inverno sconosciuto, rispolverando vecchi cappelli di lana e nuove sciarpe avvolgenti che sono incredibilmente calde e pertinenti a questo clima di città padana. Sullo stradello imbiancato ho trovato però un riflesso di paura accanto allo stupore. L’ho guardata in faccia sopraggiungere insieme all’abbondanza dei pensieri nuovi. E ho capito che siamo tutti parzialmente dislocati nel nostro qui e ora a convivere con la nostra personalità temporanea. La mia è gravida di pensieri, così gravida da non trovare abbastanza spazio nel mio ventre piccolo. E questo può essere destabilizzante o doloroso, o entrambi.

In ogni risata c’è una debole eco di paura. La speranza è che vi sia un accenno di riso in ogni moto di orrore.

Zygmunt Bauman

Chi non si sente insicuro in questo momento, del resto? Più progrediamo, più siamo sopraffatti da nuove insicurezze, è il prezzo da pagare per una vita in mutamento costante. Mi faccio domande sul mio lavoro, sull’esito dei miei studi, sulla pertinenza delle mie scelte e l’incertezza appare come l’unica certezza in una condizione che stranamente non è asfissiante, solo perché ho fede in me stessa. A torto o a ragione, non lo so. Ma una carezza (o una fetta di pandoro, o un cappotto nuovo) servono a ricordarmi che c’ero tutte le volte che ho sepolto identità defunte di morte naturale (o procurata). Ed è un bene scoprire di essere più liberi di quanto si pensasse di essere.